Aiuti ter: ancora elemosine di fronte al disastro bollette
Ma Draghi si vanta di aver evitato lo scostamento di bilancio, e lascia la patata bollente al prossimo governo.
Il 16 settembre il Consiglio dei ministri ha approvato il cosiddetto decreto Aiuti ter, il terzo decreto dall'inizio anno per far fronte agli enormi aumenti delle bollette energetiche e dell'inflazione, che sfiora ormai il traguardo del 10% annuo. Un provvedimento richiesto a gran voce dai sindacati, dalle imprese e dalle famiglie, poiché il decreto Aiuti bis appena convertito in legge dal parlamento copriva solo fino a settembre e si era già rivelato ampiamente insufficiente per migliaia di piccole aziende a rischio di chiusure e fallimenti a causa di bollette dai costi decuplicati e per milioni di famiglie costrette a tagliare sull'alimentazione e altre spese indispensabili per poter pagare la luce e il gas.
Per questo terzo intervento il governo ha stanziato circa 14 miliardi, suddivisi in circa 10 per le imprese, 3 per le famiglie e 1 miliardo per altri interventi. Per le imprese la strada scelta è la stessa del decreto Aiuti bis, cioè del credito di imposta per i consumi di elettricità e gas, in questo caso quelli di ottobre e novembre che superino il 30% di costo rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Per le imprese cosiddette energivore il credito concesso sale dal 25% al 40%, mentre c'è un'estensione del credito, pari al 30% degli aumenti, anche alle imprese minori, quelle con potenza inferiore a 16,5 KW e superiore a 4,5 KW: in pratica a tutte le imprese artigianali e commerciali come bar, ristoranti e negozi.
Per le famiglie il governo ha ripetuto il metodo del primo decreto, quello del bonus una tantum, che in questo caso scende da 200 a 150 euro ma viene esteso ad una platea più larga di destinatari. L'assegno sarà erogato a novembre a 8,3 milioni di pensionati e a 7,37 milioni di lavoratori dipendenti con redditi fino a 20 mila euro annui (il limite era 35 mila nel primo Aiuti), compresi però gli incapienti. A questi si aggiungono 2,75 milioni di autonomi e 1,55 milioni di altri soggetti, come collaboratori domestici, lavoratori stagionali e dello spettacolo, percettori di reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali. I lavoratori stagionali, a tempo determinato e intermittenti dovranno però aver lavorato almeno 50 giornate nel corso del 2021, il che ne escluderà una bella fetta.
Il restante miliardo è destinato a finanziare la proroga fino al 31 ottobre del taglio di 30,5 centesimi del prezzo di benzina e gasolio e gli aumenti delle bollette energetiche di altri soggetti diversi da imprese e famiglie: come i 400 milioni per la sanità (che comprende però le RSA e le cliniche private!), 200 milioni per Comuni, Province e Città metropolitane, 120 milioni alle associazioni del Terzo settore, 100 milioni per i trasporti, 50 milioni alle associazioni sportive e alle piscine, 40 milioni per cinema, teatri e musei, 10 milioni di bonus per l'abbonamento ai trasporti pubblici. E già che c'era, tra tutti questi il governo ha trovato anche 10 milioni per le scuole paritarie.
Un provvedimento nettamente insufficiente
Nel complesso si tratta dunque, ancora una volta, di un provvedimento del tutto insufficiente a far fronte in maniera adeguata alla spaventosa situazione in cui già si trovano da mesi milioni di famiglie disagiate e di piccole imprese artigiane e commerciali, situazione che non potrà che peggiorare con l'inverno in arrivo. Per le famiglie, infatti, il bonus da 150 euro a novembre è solo un'altra elemosina che non basterà certo a coprire i maggiori costi delle bollette e l'inflazione che si sommeranno nel quarto trimestre di quest'anno, quello oltretutto dove si registrano i maggiori consumi di energia. Per le piccole imprese strozzate dalle bollette decuplicate, il credito di imposta del 30% e la possibilità di accedere a crediti bancari con garanzia statale per poterle pagare rateizzate con tassi equiparati ai rendimenti dei Btp, sono solo un pannicello caldo, un rimandare di qualche mese una partita negativa di bilancio che comunque andrà colmata per poter proseguire l'attività.
Tutto ciò appare ancor più odioso e intollerabile se si pensa allo scandaloso colpo di mano operato in sede di conversione dell'Aiuti bis, con la tacita approvazione del ministro Franco, che aveva abolito il tetto di 24 mila euro di stipendio per i dirigenti pubblici e i vertici militari e della polizia; emendamento successivamente corretto da un contro emendamento del governo solo per le vaste proteste che la sua scoperta aveva provocato. E se si pensa altresì alle spese per armamenti decise dal governo, già stanziate o calendarizzate in parlamento, per un valore di 16 miliardi nel 2021 e altri 12,5 per il 2022.
Secondo per esempio l'ufficio studi della Cgia, la Confederazione che rappresenta le imprese artigiane, il nuovo governo che verrà dopo il 25 settembre dovrebbe trovare almeno altri 35 miliardi entro la fine dell'anno anche solo per dimezzare gli effetti del rincaro delle bollette, ed evitare così che migliaia di imprese e ancor più famiglie si vedano interrompere la fornitura per l'impossibilità di pagarle. Tale cifra è stata calcolata confrontando i dati Istat delle spesse energetiche stimate per il 2022 rispetto all'anno scorso, la cui differenza ammonta a +127,4 miliardi di euro. Considerando che il totale dei tre decreti Aiuti di Draghi, per quanto riguarda luce e gas e al netto dei 7,2 miliardi di sconti sui carburanti, ammonta a 58,8 miliardi, mancherebbero infatti 68,8 miliardi per compensare tutti gli aumenti dell'energia, e almeno la metà andrebbero trovati subito per evitare un'ecatombe di chiusure e fallimenti.
Le vanterie di Draghi e la dura realtà dei fatti
Cosa questa non facile, fa notare sempre la Cgia, dal momento che Draghi (appoggiato in questo anche dall'aspirante ducessa e probabile nuovo premier italiana, Giorgia Meloni, nell'intento di crearsi un'aurea di “affidabilità”), ha escluso in tutti i modi uno scostamento di bilancio con conseguente aumento del debito pubblico, sul modello dei 180 miliardi erogati nel 2020 e 2021 per far fronte alla crisi scatenata dalla pandemia. Senza contare che il nuovo governo avrà da trovare anche i soldi per la manovra di Bilancio. A meno che i 35 miliardi non vengano presi dagli extraprofitti delle grandi aziende energetiche, che però dovrebbero essere tassate allora del 75%, mentre Draghi e il ministro Franco non ne hanno voluto sapere di andare oltre il 25%, cioè oltre i 10 miliardi. Si aggiunga inoltre che a causa del provvedimento scritto male dal ministero dell'Economia, che ha fornito ottimi cavilli per i ricorsi delle compagnie energetiche, la prima tranche della tassa sugli extraprofitti ha reso meno di 1 miliardo sui 4 preventivati, e che nell'Aiuti ter, contrariamente a quanto tutti si aspettavano, il problema non è stato non solo risolto, ma nemmeno menzionato.
E con tutto ciò Draghi si vanta, come ha fatto nella conferenza stampa di presentazione del provvedimento affiancato dai ministri Franco e Cingolani, di aver risolto tutti i problemi del caro energia e senza neanche ricorrere ad uno scostamento di bilancio, avendo finanziato il decreto con 6,2 miliardi ricavati dall' extragettito fiscale di quest'anno e per il resto “dalle pieghe del bilancio”: con i 14 miliardi stanziati e i 17 dell'Aiuti bis, ha detto infatti il banchiere massone, “siamo a quota 31 miliardi che sembra rispondere alla richiesta di scostamento (allusione alle richieste elettoralistiche di Salvini e Conte, ndr), a meno che non si voglia chiedere uno scostamento ogni mese”. Aggiungendo con aria di sussiego che i 14 miliardi dell'Aiuti ter “si aggiungono a quasi 50 nei mesi scorsi, nel complesso un valore superiore a 60 miliardi di euro pari al 3.5% del Pil. Quindi siamo tra i paesi che hanno speso di più in Europa”.
“Sostegno all'occupazione, crescita per imprese e famiglie e più deboli: questa è l'agenda sociale del governo che ho avuto l'onore di presiedere”, ha concluso autoincensandosi il premier dimissionario e consegnando la patata bollente al prossimo governo. Il quale, per farvi fronte, si dovrà far bastare i 3,4 miliardi dagli extraprofitti dei fornitori di rinnovabili da versare entro il 30 novembre e annunciati da Franco come destinati ad estendere i crediti d'imposta anche a dicembre, e per il resto sperare in un extragettito fiscale grazie alla conferma delle previsioni di “crescita” dell'economia.
Un lascito ridicolo, questo augurio al suo successore di riuscire a fare le nozze con i fichi secchi, ma perfettamente nello stile del banchiere massone, le cui parole diventano sempre oro colato nei resoconti dei pennivendoli di regime. Che infatti hanno praticamente ignorato gli avvertimenti dell'Ufficio parlamentare di Bilancio secondo cui, pur confermando le previsioni di crescita del 3% per il 2022, rispetto al Def di fine aprile c'è un deciso peggioramento delle attese, tant'è che “al momento non è possibile fornire una valutazione puntuale dei saldi di finanza pubblica”, specie in riferimento alla crescita della spesa per interessi e all'inflazione.
Fatte passare vere e proprie porcherie
Va poi aggiunto che con questo suo ultimo decreto il governo Draghi ha contrabbandato vere e proprie porcherie, tra cui quelle in nome della “sicurezza energetica”, come l'articolo 9, che stabilisce essere di “preminente interesse nazionale” la scelta di Piombino come sede del rigassificatore della Snam, ciò che esclude ogni possibilità di localizzazioni alternative; e un altro articolo che dà mandato al ministero dell'Interno di utilizzare direttamente o di affidare in concessione, in tutto o in parte, i beni del demanio “per installare impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, anche ricorrendo, per la copertura degli oneri, alle risorse del piano nazionale di Ripresa e Resilienza”: si fa diventare cioè questione di “ordine pubblico”, da decidere con metodi sbrigativi e all'occorrenza polizieschi dalle autorità prefettizie, ciò che dovrebbe essere deciso invece dai ministeri competenti in accordo con le amministrazioni locali, le soprintendenze per i beni culturali e le popolazioni interessate.
Come va denunciata, altresì, la “riforma degli istituti tecnici e professionali”, inserita surrettiziamente nel provvedimento, con l'obiettivo per i primi di “adeguare i percorsi formativi alle esigenze in termini di competenze del settore produttivo”, e per i secondi di assicurare un “profilo educativo e culturale” che si basi su “uno stretto raccordo della scuola con il mondo del lavoro e delle professioni”: vale a dire completare la trasformazione degli istituti tecnici e professionali in scuole di serie B atte a fornire al padronato la mano d'opera di basso livello culturale, ma preparata quanto basta per inserirsi subito nelle filiere industriali, senza bisogno di un'apposita formazione a carico delle aziende.
21 settembre 2022