In linea con le richieste della Ue e dei mercati
La finanziaria non migliora le condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari
Lontana dalla lotta alla povertà, alle disuguaglianze e alla disoccupazione e dallo sviluppo del Mezzogiorno.
Il reddito di cittadinanza abolito dal 2024, 45 euro lordi al mese ai lavoratori per il taglio del cuneo fiscale, decontribuzione alle imprese, reintrodotti i voucher, misero aumento alle pensioni minime, la Opzione donna è un incentivo alla natalità di matrice mussoliniana, insufficiente sostegno per le bollette di luce e gas fino al marzo 2023, nessun taglio all'Iva sui beni di prima necessità, fondi insufficienti per la sanità e zero per l'istruzione pubblica, balletto sulle tasse sugli extraprofitti delle società energetiche, favori agli evasori, l'aumento del tetto al contante favorisce le mafie, via libera al Ponte di Messina.
Unica piazza su una piattaforma comune per combattere e affossare la finanziaria del governo neofascista Meloni

Il 22 novembre il Consiglio dei ministri ha approvato la bozza del Disegno di legge di Bilancio di previsione per il 2023 e bilancio pluriennale 2023-2025. Una manovra per complessivi 35 miliardi di euro, di cui però oltre 21, concordati in deficit con Bruxelles, interamente dedicati al sostegno alle imprese per fronteggiare il caro bollette tramite crediti d'imposta e rateizzazioni, e in minor misura alle famiglie in difficoltà tramite un bonus energia. Nonché alla riconferma dello sconto sulle accise sui carburanti, che però è dimezzato, e ad altre misure per fronteggiare l'inflazione, come la riconferma del taglio al cuneo fiscale sui redditi fino a 35 mila euro, rinunciando tuttavia ad un taglio generalizzato dell'iva sui prodotti di più largo consumo, sostituito dall'elemosina di una “carta sconti” per le famiglie sotto i 15 mila euro di Isee.
Una manovra “prudente”, l'ha definita Meloni nella conferenza stampa di presentazione delle misure, parlando implicitamente ai mercati e alle autorità della Ue. Le quali infatti ne hanno supervisionato occhiutamente l'impostazione e la distribuzione della spesa, come del resto aveva già fatto Draghi prima di passare il testimone alla nuova premier. E tuttavia è anche una manovra, ha aggiunto con sussiego la premier, che “non è un lavoro ragionieristico, c'è una visione politica, un approccio che si avrebbe in un bilancio familiare, dove hai la responsabilità delle scelte, senza poterti occupare del consenso”.
Con ciò intendeva dire che seppure la coperta era corta, a causa dei vincoli internazionali da rispettare, e perché i circa 14 miliardi rimasti per mantenere le tante promesse elettorali erano pochi e dovevano essere coperti da altrettante entrate o tagli alla spesa, nondimeno essi erano stati spesi in maniera mirata, con misure atte a lasciare il “segno” del nuovo governo sulla politica economica e sociale e anticipare “riforme” più complete e organiche, con cinque anni davanti per realizzarle.
 

Ripagati i voti dell'elettorato di destra
E infatti tutte queste misure, per quanto necessariamente ridimensionate rispetto agli annunci fatti in campagna elettorale, sono tutte rivolte a soddisfare la base elettorale del governo: il “ceto medio” costituito da imprese, professionisti, autonomi e partite iva, evasori fiscali. Penalizzando invece i lavoratori dipendenti e i pensionati, i disoccupati e gli strati più poveri, in particolare del Sud. Vanno sfrontatamente in questa direzione l'abolizione del Reddito di cittadinanza dal 2024 e la sua restrizione per il 2023, per finanziare l'allargamento della flat tax al 15% per professionisti e partite iva e i nuovi condoni della “tregua fiscale”, e il taglio dell'indicizzazione delle pensioni sopra i 2 mila euro lordi per finanziare Quota 103 e la ridicola elemosina di 7 euro extra al mese per le pensioni minime. A cui si aggiungono l'aumento del tetto all'uso del contante a 5 mila euro, che favorisce l'evasione fiscale e le mafie, e lo stop alle multe per gli esercenti che rifiutano i pagamenti elettronici sotto i 60 euro. Ma soprattutto non c'è una minima misura rivolta a potenziare la lotta alla massiccia evasione fiscale da oltre 100 miliardi l'anno, e anche questo è un chiaro segnale lanciato alla base elettorale di questo governo.
Per i lavoratori la riconferma per il 2023 del taglio di due punti del cuneo fiscale fatto da Draghi, con un punto in più per i redditi sotto i 20 mila euro, è solo una mancia, trattandosi di appena 45 euro lordi per redditi fino a 35 mila euro. Mentre alle imprese la manovra riserva un corposo pacchetto, con l'azzeramento dei contributi per le assunzioni di giovani fino a 36 anni e percettori di Rdc, un altro miliardo al fondo per le Pmi, il rinvio di plastic tax e sugar tax, i fondi per il Made in Italy e la “sovranità alimentare”, ecc. Ci sono poi la riattivazione della società per il ponte sullo stretto di Messina, i 400 milioni per le olimpiadi invernali del 2026 e 5 miliardi per le grandi infrastrutture. E soprattutto c'è la vergogna della reintroduzione dei voucher, aboliti nel 2017, un vero e proprio strumento di legalizzazione del lavoro nero.
 

All'insegna mussoliniana della “natalità”
Infine, ma non per importanza, questa manovra è tesa espressamente a premiare le famiglie più numerose, senza distinzione tra povere e ricche, e penalizzare le donne senza figli, secondo la concezione meloniana di incentivazione della “natalità”, mutuata da quella mussoliniana della donna che deve “dare figli alla patria”. A questo mirano infatti misure come l'aumento dell'assegno unico per i figli a carico, il quoziente familiare che sostituirà l'Isee, applicato per la prima volta ai bonus edilizi, e la nuova Opzione donna, tutte legate per la prima volta al numero dei figli.
Se a ciò si aggiunge il taglio reale dei finanziamenti alla sanità pubblica e quelli concessi solo alle scuole private, che denotano una chiara strategia di questo governo volta ad accelerare lo sfascio dei servizi pubblici per favorire quelli privati, altro dunque che manovra “improvvisata”, come l'ha definita il segretario del PD Letta! Per non parlare del leader di Azione-IV, Calenda, che si sta offrendo a Meloni per farle da stampella in parlamento in caso di problemi nella maggioranza. Si tratta al contrario di una manovra marcatamente di destra, classista e culturalmente reazionaria, i cui obiettivi sono stati ben chiariti dalla stessa ducessa Meloni con queste parole: “Stiamo iniziando un lavoro e per me sono impegni che vanno concepiti nell’orizzonte della legislatura. Ma sono contenta e fiera che nella prima manovra si sia aperto un varco su tutte le misure che caratterizzano le scelte politiche di questo governo”.
Si tratta perciò di di unire tutte le forze possibili di opposizione, anche parlamentari e sindacali, sia di base che confederali, a cominciare dai partiti con la bandiera rossa e la falce e martello, in un ampio fronte unito e con una piattaforma unica, per condurre una lotta senza quartiere nelle piazze, nelle scuole, in parlamento e in ogni sede per combattere e affossare questa prima legge di Bilancio del governo neofascista Meloni.
Ecco qui di seguito e più in dettaglio le misure di questa finanziaria, che non migliora le condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari, ed è ben lontana dalla lotta alla povertà, alle disuguaglianze e alla disoccupazione e dallo sviluppo del Mezzogiorno, mentre è solo rivolta alle imprese, ai ceti medio-alti e agli evasori fiscali.
 

Sgravi temporanei sulle bollette ed elemosina per l'inflazione
Sono prorogate le misure di sostegno a imprese e famiglie per attenuare gli aumenti dei carburanti e delle bollette energetiche. Ma solo per i primi tre mesi del 2023, dopodiché c'è il buio fitto. Rispetto al decreto Aiuti 4, valido fino a fine anno, c'è un aumento dei crediti di imposta alle imprese per pagare le bollette dal 30% al 35%, e dal 40% al 45% per quelle più energivore, con la possibilità di rateizzare fino a 36 mesi. Dimezza però lo sconto sui carburanti, da 30,5 centesimi a 18,3. Per il Codacons solo l'aumento alla pompa, senza contare gli aumenti indotti su tutte le merci, si tradurrà in una maggiore spesa media annua di 146 euro a famiglia.
La tassa sugli extraprofitti delle società energetiche dovrebbe salire dal 25% fissato da Draghi al 35% o 50% sugli utili, ma ad oggi nella bozza non c'è ancora nulla di definito, a dimostrazione del potere contrattuale della lobby dell'energia. Infatti con Draghi la misura aveva prodotto appena 1,5 miliardi invece dei 10 attesi.
Per contrastare l'inflazione, che viaggia al 12%, il governo ha rinunciato ad un taglio generalizzato dell'Iva sui generi di prima necessità, optando per un taglio mirato solo al settore “natalità”. Ovvero Iva ridotta al 5% su prodotti per l'infanzia (pannolini, biberon, omogeneizzati, seggiolini di sicurezza ecc.) e la cosiddetta tampon tax sugli assorbenti femminili. Il bonus bollette per le famiglie in difficoltà è stato esteso da 12 mila a 15 mila euro di reddito Isee. Per queste famiglie è stata annunciata anche una “Carta Risparmio Spesa”, una specie di riedizione della “social card” di Tremonti per sconti in negozi convenzionati, con una dotazione di 500 milioni. Un'elemosina dal sapore propagandistico che nulla ha a che vedere con una seria misura antinflazione.
 

5 miliardi per le grandi Infrastrutture
Viene riattivata la società per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina, che era in liquidazione, con uno stanziamento di partenza di 50 milioni. Per il ministro delle Infrastrutture Salvini “in un paio d'anni possono cominciare i lavori”. Andrà a Bruxelles a chiedere che l'Europa partecipi al progetto, perché questa “non è la Messina-Reggio Calabria, ma la Palermo-Berlino” (sic). Ma intanto la manovra stanzia ben 5,1 miliardi in tre anni per le grandi infrastrutture, tra cui la Tav Torino-Lione i cui lavori verranno accelerati, e altri 400 milioni per le costosissime olimpiadi invernali di Milano-Cortina.
 

Fine del Reddito di cittadinanza
Il Reddito di cittadinanza coinvolge circa 2,4 milioni di persone per 1 milione di famiglie; meno della metà dei 5,6 milioni di poveri assoluti censiti dall'Istat, per il 67% risiedenti al Sud. Alla premier non è riuscito abolirlo da subito come aveva promesso in campagna elettorale, per recuperare quasi 2 miliardi da destinare invece a ciò a cui più tiene, imprese, partite iva e incentivi alla natalità: troppo alto il rischio di “tenuta sociale”, considerando la recessione alle porte e l'impossibile ricollocazione di percettori che per tre quarti hanno al massimo la licenza media e per il 73% sono disoccupati da almeno tre anni. Senza contare che col loro sussidio (551 euro in media, senza nessuna indicizzazione al costo della vita, con una previsione di inflazione al 17-18% per il 2023) spesso vengono mantenuti familiari inabili al lavoro, minori e anziani ultrasessantenni.
Tolti quindi questi ultimi casi, il governo ha individuato circa 660 mila cosiddetti “occupabili” tra i 18 e i 59 anni per i quali il sussidio sarà erogato per un massimo di 8 mensilità, anziché le 18 rinnovabili attuali. Questo in attesa di una “riforma” complessiva che abolirà del tutto il Rdc dal 2024 per ripristinare il vecchio Reddito di inclusione di Renzi e Gentiloni. E il lavoro? “Se lo dovranno trovare”, come ha sentenziato il sottosegretario fascioleghista Durigon.
Da questa infame misura e da altri non meglio precisati controlli Meloni si ripromette di rastrellare almeno 800 milioni. Anche perché adesso il Reddito si perderà non più al secondo ma al primo rifiuto di un'offerta di lavoro “congrua”. Col quale termine si intende un'offerta di lavoro a tempo indeterminato nel raggio di 80 km, o comunque raggiungibile in 100 minuti con i mezzi pubblici. O addirittura su tutto il territorio nazionale, se il sussidio è percepito da oltre 18 mesi. In quest'ultimo caso devono accettare anche un lavoro a termine nel raggio di 80 km. Per venire incontro alle richieste degli imprenditori di mano d'opera a basso costo, tuttavia, ai percettori sono consentiti i lavori stagionali fino a un massimo di 3 mila euro l'anno.
Tutto questo a fronte di un raddoppio della povertà dal 2012 certificato dall'Istat. Mentre lo Svimez ha avvertito che per effetto dell'inflazione e dei rincari energetici ci saranno altri 500 mila nuovi poveri al Sud, e oltre 700 mila in tutta Italia. Ma Giorgia Meloni ha rivendicato con orgoglio il suo accanimento contro questa parte particolarmente fragile della popolazione, esibendolo come uno scalpo ai convegni delle organizzazioni padronali, che per questo l'hanno applaudita freneticamente.
 

Flat tax, Condoni e altre agevolazioni fiscali
“Già dalla prossima legge di bilancio, anzi prima, il prossimo anno, vogliamo porre basi per una legge delega di riforma del sistema fiscale per cambiare il rapporto tra fisco e contribuente e permettere all'Italia di essere in una posizione allineata con gli altri paesi dell'Europa”, ha detto nella conferenza stampa il viceministro all'Economia, Maurizio Leo, spacciando per vera la tesi che l'Italia è prima in Europa per la pressione fiscale, mentre è certamente vero per quanto riguarda l'evasione fiscale e la corruzione. Intanto il governo si porta avanti in questo “cambiamento” a favore del contribuente (evasore) estendendo la flat tax al 15% a professionisti e partite iva dagli attuali 65 mila euro a 85 mila euro di ricavi, e con una raffica di agevolazioni, condoni e colpi di spugna a favore di chi ha accumulato debiti con l'erario chiamata furbescamente “tregua fiscale”.
Con l'estensione della flat tax, che Salvini avrebbe voluto portare subito a 100 mila euro, è stato calcolato che un professionista con ricavi pari a 85 mila euro, ovvero un reddito imponibile di circa 54 mila, pagherebbe quasi 10 mila euro di tasse in meno di un lavoratore dipendente o di un pensionato col medesimo reddito. Una sperequazione che non ha alcuna giustificazione razionale.
La “tregua fiscale” mette poi a disposizione dei contribuenti infedeli e morosi una decina di norme studiate apposta per agevolarli in tutti i modi con sconti e rateizzazioni: dalla cancellazione delle multe sotto i 1.000 euro per il periodo 2000-2015, all'azzeramento delle sanzioni e interessi per quelle di importo superiore; dalle riduzioni degli importi alle dilazioni per le violazioni tributarie; dal colpo di spugna sulle liti pendenti alla sanatoria degli errori nelle dichiarazioni, e così via.
Bisogna sapere che il viceministro Leo, di FdI, da tutti considerato come il vero ministro delle Finanze, è un tributarista con tanto di studio professionale, i cui clienti sono tenuti accuratamente nascosti. È stato assessore della giunta Alemanno ed è consigliere della Meloni, che lo ha voluto espressamente per quella importantissima carica. È lui a scrivere nel dettaglio i provvedimenti economici e fiscali, tra cui i condoni della “tregua fiscale”, che sembrano tagliati su misura per la sua clientela. Al punto che avrebbe voluto condonare anche le cartelle al di sopra degli importi per cui scattano sanzioni penali. Rinunciandovi solo per gli allarmi che si erano levati dopo le indiscrezioni.
E che dire dell'elevamento del tetto al contante dagli attuali mille a 5 mila euro, e solo perché la maggioranza ha dovuto rinunciare ai 10 mila per le tante proteste? Un bel regalo di Natale a evasori e riciclatori di denaro sporco, che Meloni ha avuto la faccia tosta di presentare come un “aiuto ai poveri”. E c'è poi lo stop alle multe per gli esercenti che non accettano i pagamenti con il bancomat, fissando una soglia di 30 euro, raddoppiati poi a 60 euro, al di sotto della quale si può esigere il pagamento in contanti senza rischiare una multa. Anche se su questa norma scandalosa è in corso una trattativa con Bruxelles.
 

Cuneo fiscale, aiuti alle imprese e voucher
La riduzione del cuneo fiscale, cioè dei contributi a carico dei lavoratori (quelli a carico delle imprese non sono stati ridotti, lo saranno più avanti), è la misura più costosa della manovra, 4,2 miliardi. Ed anche la più demagogica, perché viene spacciata per un aumento del netto in busta paga, mentre invece ricade sulle spalle degli stessi lavoratori per effetto delle minori prestazioni sociali conseguenti alle minori entrate dello Stato. Quello di cui hanno bisogno invece i lavoratori è un aumento reale dei salari a carico dei profitti dei capitalisti, e non dei servizi alla collettività. Nella fattispecie si tratta della conferma della riduzione del 2% del cuneo già applicata dal precedente governo per i redditi fino a 35 mila euro, più un ulteriore punto percentuale per i redditi sotto i 20 mila euro. E' stato stimato che ciò si tradurrà in aumenti da 24 a 45 euro al mese per i redditi tra 15 mila e 35 mila euro: assolutamente insufficienti anche solo a recuperare il deprezzamento dei salari dovuto all'inflazione.
Anche la detassazione dal 10% al 5% dei premi di produzione ed altre elargizioni aziendali, col limite aumentato da 600 a 3.000 euro, è solo apparentemente a favore dei lavoratori, ma serve in realtà a spingere la contrattazione aziendale e individuale a detrimento dei contratti collettivi, nell'ottica di desindacalizzare e dividere i lavoratori e aumentare il potere contrattuale del padronato.
Il mancato taglio del cuneo alle imprese, di cui si è lamentato Bonomi (che però ha apprezzato che Meloni abbia tenuto “la barra dritta sulla finanza pubblica”), è ben compensato da altre misure a loro favore: a cominciare dalla decontribuzione totale per l'assunzione di donne e giovani fino a 36 anni (che si risolverà come al solito in assunzioni che si sarebbero fatte comunque ma a costo zero), dal rifinanziamento della Sabatini per l'acquisto agevolato in leasing di beni strumentali, dal rifinanziamento per 1 miliardo del fondo per le Pmi, dal rinvio di un altro anno (in vista della futura cancellazione definitiva) della plastic tax e della sugar tax alle imprese inquinanti, che gli fa risparmiare circa 660 milioni, e altri lauti finanziamenti al sostegno del Made in Italy e al nuovo fondo da 25 milioni l'anno per la “sovranità alimentare”.
Infine c'è la reintroduzione dei famigerati voucher, i “buoni lavoro” da 10 euro venduti dai tabaccai previsti dalla legge Biagi ed entrati in vigore nel 2008 per il lavoro occasionale e le prestazioni saltuarie. Ma diventati col tempo strumenti di sfruttamento di mano d'opera a basso costo e di legalizzazione del lavoro nero, fino a raggiungere con il Jobs act di Renzi dimensioni spropositate, passando dai 536 mila del 2008 ai 134 milioni del 2016. Per poi essere aboliti sotto il governo Gentiloni nel 2017 per evitare il referendum promosso dalla Cgil. Ora il governo Meloni li ripropone per i settori hotel, ristoranti e bar e per i servizi della cura alla persona. Ma già le organizzazioni imprenditoriali si fregano le mani e chiedono siano estesi a tutto il comparto del turismo.
 

Incentivi alle famiglie (prolifiche)
Sempre in conferenza stampa la premier ha detto che due sono le linee guida di questa manovra: la crescita, con gli aiuti alle imprese, e “l'attenzione particolare alle famiglie”. Quella famiglia che per lei, come ha detto nel discorso alle Camere, “è il nucleo primario della nostra centralità”. E non importa che sia povera o magari anche ricca. Così è stato stanziato un sostanzioso pacchetto famiglia da 1,5 miliardi, di cui 610 milioni per potenziare l'assegno unico per i figli a carico fino a 21 anni; che spetta a tutti e che per il primo anno di vita aumenta del 50% , e di un ulteriore 50% e per tre anni per le famiglie con 3 figli e oltre. Ci sarà anche un mese in più di maternità, retribuito all'80% dello stipendio, da fruire entro il compimento del 6° anno del figlio.
Anche i bonus edilizi saranno concessi in base alla prole, come il bonus del 90% per ristrutturare le villette unifamiliari previsto nell'Aiuti 4, che varrà fino a un reddito di 15 mila euro. Quota però calcolata col nuovo e più favorevole quoziente familiare, che si ottiene dividendo direttamente il reddito per il numero di figli e non tiene conto del patrimonio. Sistema che quindi avvantaggia non poco le famiglie più abbienti e con più figli, e che il governo neofascista in carica ha in progetto di generalizzare al posto dell'Isee, anche per quanto riguarda l'Irpef e le prestazioni sociali. Una vera manna per gli evasori fiscali, che non avranno nemmeno più bisogno di nascondere i patrimoni nella dichiarazione Isee per truffare la collettività.
 

Pensioni usate come bancomat e prepensionate in base alla prole
Anche sulle pensioni il governo neofascista ha voluto mettere il suo marchio demagogico e familistico. Non ha abolito la Fornero e nemmeno dato la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi per tutti come strombazzato da Salvini e come chiedevano anche i sindacati, ma ne ha solo rinviato il ritorno con l'adozione di Quota 103: ovvero per il 2023 serviranno 41 anni di contributi ma anche 62 anni di età. Ha mantenuto l'Ape sociale per i lavori usuranti, con la quale si può andare in pensione a 63 anni e 36 di contributi, ma con un assegno non superiore a 1.500 euro fino a 67 anni; e ha confermato Opzione donna, che consente alle lavoratrici di andare in pensione anticipata con una decurtazione del 30% dell'assegno, ma legando l'età di pensionamento al numero di figli della lavoratrice.
Nella prima versione tutte le donne potevano andare in pensione con almeno 35 anni di contributi e 58 di età, se dipendenti, e 59 se autonome, ma solo se si hanno due o più figli; mentre con un figlio solo a 59 anni e senza figli a 60 per tutte. Nell'ultima versione sono state aggiunte altre condizioni stringenti e peggiorative che limitano la possibilità di usufruire di Opzione donna a 60 anni, se non si hanno figli, alla cura da almeno 6 mesi di familiari gravemente malati o disabili. Solo le lavoratrici licenziate o di aziende in crisi possono richiedere un anticipo di due anni, abbassando quindi l'età a 58 anni se hanno due o più figli, o a 59 con un figlio. Tutto ciò dovrebbe produrre una drastica riduzione della platea di lavoratrici interessate, si calcola dalle 29 mila di quest'anno a 2.900 l'anno prossimo, con una riduzione anche della spesa, che passa da 1,8 miliardi a 400 milioni.
Per “onorare” la promessa elettorale di alzare le pensioni minime, il governo ha concesso un'elemosina applicando su queste il 120% dell'adeguamento all'inflazione previsto del 7,3% (mentre l'inflazione reale è sopra il 12%). Cosicché le pensioni integrate al minimo avranno “ben” 7 euro extra rispetto ai 38 di aumento previsto, arrivando a circa 570 euro. Ma per attuare questo e gli altri interventi come Quota 103, Opzione donna e Ape, il governo ha pensato bene di fare cassa riducendo progressivamente il coefficiente di rivalutazione per le pensioni al di sopra dei 2.100 euro lordi (4 volte il minimo, circa il 72% della platea pensionistica). Ottenendo con ciò un risparmio di 3 miliardi sui 9 previsti per adeguare al 7,3% tutte le pensioni, e causando una perdita media ai pensionati colpiti dai 446 ai 2.700 euro l'anno (1.200 di media): “I pensionati italiani sono trattati come bancomat”, ha protestato la segreteria dello Spi-Cgil.
 

Il governo spinge la sanità pubblica verso il disastro
Meloni si è vantata di aver messo 2 miliardi nella sanità, nascondendo dietro questo altisonante annuncio che si tratta in realtà di un taglio alla spesa, visto che 1,4 miliardi sono vincolati a far fronte al caro bollette; e il resto, destinato a medici e infermieri, sarà mangiato dagli aumenti dei costi dovuti all'inflazione, come hanno denunciato anche diversi presidenti di Regione, anche della destra di governo. Lo ha certificato il leghista Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli e della Conferenza delle Regioni, in una lettera sottoscritta da tutti i presidenti e inviata al ministero della Salute, dove si legge che “tra caro energia, super-inflazione e spese per il Covid, nella sanità si è aperto un buco da 3,4 miliardi di euro”. E si esprime preoccupazione per lo scenario delineato dalla Nadef “che indica un ridimensionamento della spesa sanitaria per il triennio 2023-2025”.
C'è quindi in realtà un taglio di 1,4 miliardi solo rispetto alla situazione di quest'anno, e non c'è niente per i contratti del personale sanitario, per le nuove indispensabili assunzioni e per cominciare a realizzare la tanto promessa sanità territoriale, senza la quale non servirà a niente il pannicello caldo di 200 milioni “concessi” in manovra per il personale dei pronto soccorso.
In queste condizioni si prospetta una fuga in massa di medici e infermieri dagli ospedali pubblici, come denunciano congiuntamente in un documento tutte le loro organizzazioni sindacali: “Le fughe di massa dei professionisti, insieme con l’insoddisfazione e lo scontento di chi non fugge suonano un allarme che, però, non arriva alle orecchie del ministro della Salute e del governo che non vedono organici drammaticamente ridotti al lumicino al punto da mettere a rischio l’accesso dei cittadini alla prevenzione e alle cure, insieme con la loro qualità e sicurezza”, scrivono i sindacati, che aggiungono: “Servono investimenti per le retribuzioni e per le assunzioni, perché la carenza di specialisti non può essere colmata dalle cooperative dei medici a gettone, pagati per lo stesso lavoro il triplo dei dipendenti e gratificati di una flat tax che porta a livelli intollerabili anche il differenziale contributivo”.
Secondo l'Agenzia pubblica per i servizi regionali (Agenas), mancheranno 30 mila medici negli ospedali nei prossimi 5 anni. E tra i 70 e gli 80 mila da qui a 8 anni. In 5 anni mancheranno pure 11 mila medici di base, quasi 20 mila considerando anche pediatri, medici del 118 e di ambulatori convenzionati. E l'autonomia differenziata non farà altro che aggravare questa situazione, attirando i medici del Servizio sanitario pubblico verso la sanità privata delle regioni più ricche.
 

Soldi solo per le scuole private
La scuola pubblica è completamente assente nella manovra, come se non esistesse. Nella bozza alla voce scuola c'è scritto solo che “per le scuole paritarie è previsto il ripristino del contributo statale di 70 milioni”, più 24 milioni per il trasporto dei disabili. Ripristino, perché la somma fu lasciata in sospeso da Draghi visto il calo degli iscritti che ha colpito le paritarie negli ultimi cinque anni e che si è acuito con la pandemia. Una vergogna, visto che ai 70 milioni si aggiungono i 550 milioni già stanziati da Draghi, portando il pacchetto di finanziamenti pubblici alle scuole private a ben 620 milioni per il prossimo anno. Specie considerando che nel 2012 i finanziamenti alle private assommavano a 280 milioni di euro. Uno scandalo: si tratta della cifra più alta di sempre regalata alle scuole private
L'Unione degli studenti (Uds), ha denunciato questa scelta sfacciatamente classista dichiarando che “non è accettabile che i soldi pubblici siano investiti per aiutare le strutture private invece di rendere accessibili quelle pubbliche”. In compenso il ministro fascioleghista dell'Istruzione e del “merito”, Valditara, ha annunciato un piano di “riorganizzazione” degli istituti scolastici che potrebbe portare ad un taglio di 700 istituti.

30 novembre 2022