Condannati imprenditore e caporale che costrinsero un bracciante sudanese a lavorare sotto il sole a 40 gradi
Mohammed morì nel luglio 2015 raccogliendo pomodori nei campi, lavorava in nero 10 ore al giorno per pochi euro
La Corte d’assise di Lecce lo scorso 24 novembre, al termine del processo per la morte nel 2015 del lavoratore sudanese Mohammed Abdullah, ha reso noto il dispositivo della sentenza, da cui risultano pesanti condanne inflitte a coloro che si sono rivelati i suoi aguzzini: i giudici hanno infatti dato 14 anni e 6 mesi di reclusione per riduzione in schiavitù e omicidio colposo a Giuseppe Mariano di Porto Cesareo, marito della titolare dell’azienda agricola dove morì il lavoratore e di fatto amministratore esclusivo dell'azienda, e la stessa pena per gli stessi reati al sudanese Mohamed Elsalih, riconosciuto dalla Corte d'assise come il caporale che aveva materialmente condotto Mohammed Abdullah al lavoro in quell'azienda dove avrebbe poi trovato la morte.
Per entrambi i condannati è stato anche disposta la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, oltre che il risarcimento del danno, da quantificarsi in un separato processo civile, a favore della moglie (alla quale è stata attribuita, a titolo di provvisionale, la somma di euro 50.000) e della figlia della vittima, della Cgil di Lecce, del Centro internazionale diritti umani, di Mutti spa e di Conserve Italia spa, che si erano costituti parte civile.
La Corte d'assise ha anche trasmesso gli atti all'ufficio del Pubblico ministero affinché quest'ultimo possa valutare il reato di falsa testimonianza nei confronti di quattro persone ascoltate durante il processo, che sono state ritenute dai giudici reticenti e mendaci.
Mohammed Abdullah era morto d’infarto, dopo un malore, intorno alle 14 del 20 luglio 2015 nelle campagne di Nardò, in provincia di Lecce, mentre la temperatura era prossima ai 40 gradi.
Le successive indagini hanno poi potuto accertare le condizioni di disumano sfruttamento alle quali erano costretti i lavoratori che lavoravano nell'azienda, formalmente intestata alla moglie di Giuseppe Mariano ma di fatto diretta soltanto da lui stesso, che produce tuttora pomodori destinati ad importanti imprenditori attivi nell’industria conserviera, sia in Puglia che in altre regioni italiane.
Mohammed Abdullah, hanno chiarito le indagini, condivideva la sorte di tutti gli altri lavoratori dell'azienda, ossia almeno dieci ore di lavoro giornaliero senza un contratto legale e senza garanzie sanitarie, e doveva lavorare anche sotto il sole cocente e in condizioni usuranti e disumane, senza pause né riposi settimanali, per una paga che non arrivava a 50 euro a giornata, parte della quale doveva darla al caporale condannato.
Se il lavoratore fosse stato sottoposto a controlli sanitari di legge prima dell'avvio al lavoro, come poi si sarebbe scoperto a seguito dell'autopsia effettuata dal medico legale, dott. Alberto Tortorella, sarebbero emerse patologie incompatibili con quelle condizioni lavorative, perché Mohammed Abdullah il giorno del decesso aveva la febbre alta provocata da una polmonite virale contratta da almeno una settimana e vane erano state le sue lamentele con il gestore dell'impresa e il caporale i quali, anziché farlo sottoporre a visita ed esonerarlo dal lavoro, lo costrinsero a lavorare. Del resto Mohammed lavorava in nero, e il timore sia del gestore dell'impresa agricola sia del caporale era che, a seguito di una visita, emergesse la sua condizione di lavoratore irregolare, e ciò ha decretato la sua condanna a morte.
7 dicembre 2022