9 gennaio 1950
Strage di operai in sciopero a Modena compiuta dai carabinieri e dalla polizia di Scelba
Onoriamo la memoria dei caduti combattendo il governo neofascista Meloni
In una fredda mattina del 9 gennaio 1950 a Modena, durante uno sciopero generale sindacale contro i licenziamenti alle Fonderie riunite, 1.500 uomini, tra poliziotti e carabinieri agli ordini di Mario Scelba, il famigerato ministro dell'Interno del governo democristiano De Gasperi, inviati in città da tutta la regione con armamento pesante e persino autoblindo da guerra armate di mitragliatrici, compirono uno tra i più efferati tra i tanti eccidi di lavoratori inermi che insanguinarono i primi anni del dopoguerra a partire da quello del 1° maggio 1947 a Portella della Ginestra: a cadere falciati dai mitra dei celerini, dai moschetti dei carabinieri e dal fuoco delle mitragliatrici furono 6 lavoratori, almeno altri 200 rimasero feriti e altri 34 furono arrestati e processati, mentre non uno degli agenti assassini né dei loro superiori furono mai accusati di alcunché.
La lotta sindacale era sorta per rispondere alla decisione del proprietario delle Fonderie riunite, Adolfo Orsi, di licenziare tutti i 560 operai per poi riassumere solo quelli non sindacalizzati e non iscritti alla Cgil e al PCI. Orsi, che aveva fatto i soldi sotto il fascismo arrivando a possedere anche la Maserati e un'altra fabbrica elettromeccanica a Modena, non era nuovo a simili soprusi. Il suo piano era quello di diminuire i premi di produzione, abolire il Consiglio di gestione, addebitare il costo della mensa nella busta paga degli operai, rimuovere ogni bacheca sindacale o politica all'interno della fabbrica e discriminare le donne, eliminando perfino la stanza dove le operaie potevano allattare i figli che si portavano in fabbrica.
Del resto quella di licenziare e riassumere lavoratori per eliminare quelli più coscienti e combattivi era pratica diffusa tra gli imprenditori, per stroncare le resistenze sindacali al bestiale sfruttamento che la ripresa economica e l'accumulazione capitalista richiedevano dopo le distruzioni della guerra. Resistenze che erano tanto più forti in regioni come l'Emilia dove più alta era la coscienza sindacale e politica dei lavoratori temprate nella lotta di Liberazione dai nazi-fascisti. Tra i 560 operai delle Fonderie riunite ben 550 erano iscritti alla Fiom, 370 al PCI e 100 tra loro erano stati partigiani.
Tra l'altro Modena era al centro del cosiddetto “triangolo della morte” che, proprio in quegli anni in cui cominciava la lunga stagione della “guerra fredda”, fu evocato dalla propaganda governativa e di destra per intentare un pubblico “processo alla Resistenza” fabbricando presunti “eccidi” in massa di fascisti e collaborazionisti da parte dei partigiani nei mesi seguiti alla Liberazione. Negli anni tra il 1947 e il 1949, infatti, nella sola città di Modena erano stati arrestati 485 partigiani per vicende legate alla Resistenza, mentre circa 3.500 braccianti agricoli erano stati denunciati per l'occupazione delle terre.
Il clima anticomunista e antioperaio del dopoguerra
Nel 1947 si era chiuso il periodo dei governi di unità nazionale antifascista, e i partiti della sinistra, PCI e PSI erano stati ricacciati all'opposizione, tanto più dopo le elezioni del 18 aprile 1948 che segnarono il trionfo della DC e degli altri partiti di destra. Da allora tutte le lotte sindacali e di piazza furono considerate dal governo De Gasperi come illegali ed eversive; e di conseguenza da reprimere sempre e ovunque con la massima decisione. A questo scopo furono improntate espressamente da Scelba le ricostituite forze di polizia, non rimuovendo ma anzi promuovendo i vecchi prefetti, questori e funzionari fascisti, allontanando e perseguitando gli agenti e gli ufficiali partigiani e antifascisti.
È in questo clima revanscista, che non aveva uguali per durezza nel resto d'Europa, che padroni come Orsi ansiosi di riprendersi gli spazi di autorità assoluta e insindacabile di cui avevano goduto nel regime corporativo fascista, potevano attuare piani di ristrutturazione aziendale dell'arroganza da lui mostrata. Agli scioperi proclamati in risposta ai licenziamenti aveva risposto infatti a sua volta con una serrata di un mese. Solo una trentina di operai avevano però fatto domanda di essere riassunti.
Il 9 gennaio, giorno fissato per la riapertura delle fonderie, era stato proclamato dalla Camera del Lavoro uno sciopero generale in tutta Modena e provincia. Le autorità tentarono in mille modi di intralciare e impedire la manifestazione e il comizio in piazza, tanto che il questore arrivò a minacciare i promotori con le parole “vi stermineremo tutti”. Intanto il giorno prima Scelba aveva fatto affluire in città reparti da tutta la regione, che misero la città in stato d'assedio, con blocchi in tutte le strade principali e circondando di truppe le fonderie come un fortilizio, con carabinieri appostati sul tetto armati di mitragliatrici e cecchini sui tetti delle vie adiacenti la fabbrica.
La mattanza nella città sotto assedio
La mattina verso le dieci, circa 10 mila scioperanti si diressero verso le fonderie, passando anche per i campi per evitare i blocchi. Dove li incontravano premevano per passare, qua e là ci furono qualche tafferuglio, alcune cariche e furono sparati lacrimogeni, ma senza grosse conseguenze. Un gruppo di lavoratori, del tutto disarmati se non di bandiere e cartelli di protesta, riuscì ad arrivare fino al passaggio a livello della ferrovia che passava davanti ai cancelli della fabbrica. Qualche decina di loro lo passò avvicinandosi ai cancelli, e fu a quel punto che un carabiniere, senza che nessuno avesse intimato prima alcun avvertimento, sparò con la pistola uccidendo sul colpo il trentenne metalmeccanico e partigiano Angelo Appiani. E immediatamente dopo tutti i militari iniziarono a sparare all'impazzata, dal tetto e da terra e anche con le mitragliatrici, sul gruppo e verso gli scioperanti rimasti dietro al passaggio a livello.
Rimasero falciati così Arturo Chiappelli, spazzino di 43 anni, padre di tre figli, e Arturo Malagoli, 21 anni, metalmeccanico e partigiano. A decine rimasero feriti, e furono portati via dai loro compagni sotto la pioggia di pallottole per essere medicati sommariamente in casa o da medici privati. Quanti si rivolgevano agli ospedali infatti, venivano identificati dai poliziotti e piantonati fino alla loro incriminazione dal magistrato per “attentato alle libere istituzioni per sovvertire l'ordine pubblico e abbattere lo Stato democratico”.
Nelle ore seguenti celerini e carabinieri continuarono il tiro al piccione nelle vie adiacenti dove i manifestanti erano stati imbottigliati, colpiti dai cecchini appostati sui tetti e dalle autoblindo che imperversavano con le mitragliatrici. Caddero così, a parecchia distanza dalla fabbrica e mentre cercavano solo di allontanarsi dalla vigliacca mattanza, Ennio Garagnani, di 21 anni, carrettiere, falciato dalla mitragliatrice di un autoblindo; e Renzo Bersani, anch'egli ventunenne, metalmeccanico, colpito a sangue freddo alle spalle da un carabiniere che aveva preso la mira con calma da 100 metri di distanza. Un altro operaio metalmeccanico, il trentaseienne Roberto Rovatti, forse scelto perché indossava una sciarpa rossa, fu circondato da un gruppo di carabinieri che lo scaraventarono in un fosso, lo massacrarono selvaggiamente con i calci dei fucili, e infine lo finirono con un colpo a distanza ravvicinata. Alla fine della giornata il tragico bilancio di sangue ammontava a 6 morti e probabilmente oltre 200 feriti.
La “giustizia” dello Stato borghese e il disimpegno del PCI
L'eccidio di Modena ebbe una risonanza enorme e immediata in tutto il Paese. Uno sciopero generale investì tutto il Paese: da Torino a Palermo, da Bari a Livorno, Alessandria, Milano, Genova. Dappertutto ci furono proteste e manifestazioni. A Roma una grande folla riempì piazza SS Apostoli raccogliendo l’appello della Cgil, mentre il vertice della Cisl non si associò: allora come oggi faceva il suo sporco lavoro di agente del governo infiltrato tra i lavoratori.
L'11 gennaio ci furono i solenni funerali dei sei operai trucidati. 300 mila lavoratori e cittadini vi parteciparono da Modena e da tutta l'Emilia, in un mare di bandiere rosse e di gonfaloni dei comuni antifascisti della regione. Le sei bare portate a spalla dagli operai in tuta, da ferrovieri e da contadini, sfilarono in un corteo durato due ore per le vie della città, tra due ali di folla silenziosa e attonita. Erano presenti l'intera direzione della Cgil e tutti i principali dirigenti dei partiti della sinistra. Fu il segretario Togliatti a tenere il discorso, anticipando già con le sue parole, pur piene di sdegno, quella che sarebbe stata la linea del Partito revisionista nei giorni successivi, tesa a spegnere nelle masse ogni intento di risposta alla ferocia padronale e poliziesca.
Già la Cgil si era adoperata per calmare gli animi ed evitare che gli operai rispondessero all'aggressione. Nei giorni successivi, mentre in pubblico esaltava l'eroismo della lotta degli operai modenesi, dietro le quinte il PCI criticava aspramente la direzione della vertenza delle Fonderie riunite e arrivò anche a commissariare la federazione di Modena. Cominciò da allora a manifestarsi, con una crescente “moderazione” delle lotte sindacali e di piazza e l'emarginazione dell'ala “massimalista” di Secchia, l'accentuazione della tendenza riformista e non conflittuale, divenuta poi la linea ufficiale del partito revisionista all'VIII congresso del 1956, che sancì la “via italiana al socialismo” e la strategia delle “riforme di struttura” improntate alla Costituzione del 1948.
Anche la vicenda giudiziaria seguìta alla strage fu influenzata da tale linea di “pacificazione”: il processo penale iniziato nel 1952 vide alla sbarra solo la trentina di operai arrestati, accusati di “invasione di edificio” (ci ricorda qualcosa?), “resistenza aggravata” e “lesioni”. Essi furono tutti assolti con sentenza confermata in appello. Ma gli autori della strage rimasero “ignoti”, né mai nessuno di essi venne chiamato a risponderne in un processo. E del resto anche Cgil, PCI e PSI non cercarono più di riaprire il caso. Fu intentata solo una causa civile che portò nel 1964 ad un misero risarcimento delle famiglie delle vittime, ma come “riconoscimento solo morale” da parte dello Stato, perché secondo la sentenza “le forze dell'ordine usarono legittimamente le armi”.
Gli insegnamenti della strage di Modena
A distanza di 73 anni quella efferata strage di lavoratori inermi che lottavano per affermare i loro diritti e l'amara conclusione della sua coda giudiziaria, ancora bruciano come una ferita non rimarginata, ma ci danno anche degli insegnamenti più attuali che mai: il primo è che in una società divisa in classi tutto l'apparato dello Stato, dalle istituzioni politiche, alle forze armate e di polizia e alla magistratura, è sempre al servizio della classe dominante borghese e nemico spietato del proletariato e delle masse sfruttate e oppresse.
Il secondo è che nemmeno la Costituzione nata dalla Resistenza e “fondata sul lavoro” è un baluardo efficace per difendere gli interessi e la vita delle classi sfruttate davanti agli interessi e ai soprusi della borghesia sfruttatrice, dato che sancisce la sacralità della proprietà privata capitalista e preclude al proletariato l'accesso al potere per cambiare radicalmente la società e instaurare il socialismo. Senza contare che essa è stata nel tempo stravolta e fatta a pezzi anche in quelle parti che garantivano un minimo di diritti e libertà democratico-borghesi.
Il terzo insegnamento è che il fascismo non ha più bisogno, come 100 anni fa, di impiantarsi nel Paese dall'“esterno” dello Stato liberale borghese attraverso una marcia su Roma cruenta, ma fin dall'indomani della Liberazione è diventato una forza endemica nel Paese al servizio dello Stato borghese, rafforzandone il potere sia con il terrorismo e le stragi sia con la lotta parlamentare; fino a completare oggi la sua nuova marcia su Roma elettorale con l'instaurazione del governo neofascista Meloni. Governo che si può combattere e abbattere solo costruendo urgentemente un fronte unito il più ampio possibile, costituito dalle forze anticapitaliste, a cominciare da quelle con la bandiera rossa, dalle forze riformiste e dai partiti parlamentari di opposizione, sull'esempio e con lo spirito unitario di lotta che ci viene ancora dalla Resistenza e dai martiri di Modena e delle tante altre stragi fasciste del dopoguerra.
18 gennaio 2023