Il Documento di economia e finanza del governo neofascista Meloni all'insegna dell'austerità, dei tagli e della moderazione salariale
Niente per il Mezzogiorno, le pensioni, la sanità, la sicurezza sul lavoro, l'abolizione del lavoro precario. Non toccata la legge Fornero, misero taglio al cuneo fiscale. Provocatoria riunione del governo il 1° Maggio per varare il decreto “Lavoro” che taglia il Rdc e aumenta il precariato
Ci vuole lo sciopero generale unitario per il lavoro, l'aumento dei salari e delle pensioni medio-basse, il blocco dei prezzi dei beni di prima necessità, l'abrogazione della legge Fornero
L'11 aprile il Consiglio dei ministri ha approvato il Documento di economia e finanza (DEF) che definisce gli indirizzi di politica economica del governo per l'anno in corso e per i successivi due anni, e in particolare stabilisce le linee guida della Legge di bilancio da presentare entro il 20 ottobre di ogni anno.
Secondo una nota del ministero dell'Economia e delle finanze retto dal leghista Giorgetti emessa dopo l'approvazione del documento, esso “conferma l’approccio prudente e realistico, finalizzato a mostrare serietà e affidabilità sia ai mercati sia all’Unione Europa, e punta a raggiungere risultati più ambiziosi” se il quadro economico internazionale migliorerà. Il governo non si discosta dal solco già tracciato da Draghi, in sostanza. Infatti, come chiede l'UE che sta per ripristinare i parametri del Patto di stabilità sospeso durante la pandemia, e come emerge dal quadro della finanza pubblica adottato nel DEF, il governo Meloni si impegna a ridurre drasticamente il rapporto tra il deficit dello Stato e il PIL, che negli anni scorsi era cresciuto fino al 9,5% del 2020 ed era ancora all'8% nel 2022. Scenderà quindi al 4,5% programmato per quest'anno e al 3,7% nel 2024; fino a rientrare nel 2025 nella soglia obbligatoria del 3% delle regole pre-pandemia. Nel 2026 è previsto addirittura scendere al 2,5%.
Una progressione ancor più marcata, fra l'altro, di quella prevista nel quadro tendenziale, quello che si determinerebbe secondo le tendenze attuali e in assenza di interventi programmatici. È proprio la differenza tra il 4,5% programmatico e il 4,35% tendenziale del deficit di quest'anno che ha fornito al governo il trucco contabile per ritagliarsi i 3,4 miliardi per il provvedimento demagogico del taglio del cuneo contributivo per gli stipendi medio-bassi. E lo stesso dicasi per i circa 4,5 miliardi nel 2024 da destinare al taglio delle tasse, ottenuti sfruttando gli 0,2 punti di differenza tra programmatico e tendenziale del rapporto deficit/PIL.
Il ritorno dell'avanzo primario
Anche il rapporto tra il debito complessivo dello Stato e il PIL, dopo aver sfiorato il 155% nel 2020 a causa delle misure in deficit per far fronte all'emergenza Covid, è previsto scendere progressivamente fino al 140,9% nel 2025, sostanzialmente in accordo col quadro tendenziale. Il Prodotto interno lordo, ovvero il valore complessivo prodotto annualmente, che nel 2022 è calcolato in 1.909 miliardi, è previsto crescere in termini reali dell'1% nel 2023 (0,9% tendenziale), di parecchio inferiore ai valori raggiunti nel 2021 e 2022 col rimbalzo economico post-pandemia, ma superiore comunque allo 0,6% previsto nella Nota di aggiornamento al DEF del novembre scorso. Nel 2024 è previsto salire all'1,5% e nel 2025 all'1,3%.
Ma se la crescita del PIL nel prossimo triennio, per quanto ottimistica, è nettamente inferiore al calo sia del deficit che dell'indebitamento della Pubblica amministrazione, chi pagherà il riallineamento dei conti dell'Italia al Patto di stabilità europeo, già impostato da Draghi e confermato da Meloni e Giorgetti? È chiaro che a farlo non potrà essere che la spesa pubblica, con tagli lineari a tutti i ministeri e ai principali capitoli di spesa, a partire da sanità, istruzione, pensioni, assistenza sociale, rinnovi dei contratti nella Pa. La riduzione del deficit al 3% nel 2025 significa infatti una stretta fiscale di circa 70 miliardi, e non per nulla col DEF a firma Giorgetti-Meloni ritorna in pieno l'“avanzo primario”, ovvero il saldo positivo tra entrate e uscite dello Stato al netto degli interessi sul debito, tipico della politica di austerity degli anni precedenti la pandemia. Che infatti, dopo essere stato decisamente negativo nel triennio 2020-2022, già quest'anno si ridurrà ad un -0,8%, per tornare positivo nel 2024 e raggiungere il +1,2% nel 2025, e addirittura il +2% nel 2026. Per un totale di 50 miliardi sottratti alla spesa pubblica in beni e servizi. E questo senza tenere conto degli interessi sul debito, che per effetto dell'inflazione e del rialzo dei tassi viaggiano già oltre i 100 miliardi l'anno, il cui reperimento imporrà altre strette fiscali.
Non a caso il comunicato del Cdm che ha approvato il DEF parla di riduzione della pressione fiscale nel triennio anche attraverso “una significativa revisione della spesa pubblica e una maggiore intesa tra fisco e contribuente”. Il che significa, a parte quel poco che potrà raggranellare con i vecchi e nuovi condoni fiscali per il suo elettorato, che il governo intende mettere mano alla scure per trovare i soldi che mancheranno: da una parte per tornare alla politica di austerity nei conti pubblici come chiede l'Europa; e dall'altra per realizzare le promesse fatte sull'abbassamento delle tasse ai redditi medi e alti, agli autonomi e alle imprese. Come la flat tax, l'autonomia differenziata, gli incentivi alla natalità (Giorgetti ha proposto di detassare completamente i redditi delle famiglie con almeno due figli, senza limiti di reddito, e proposte simili sono avanzate anche da Lega e FdI), le “infrastrutture di preminente interesse nazionale” come il ponte sullo Stretto (il cui costo è già salito a 15 miliardi, tutti da trovare), e così via.
In arrivo nuovi tagli alla spesa pubblica
La Spending review
nei ministeri prevede già tagli di 1,5 miliardi nel 2024, 2 miliardi nel 2025 e altri 2,2 miliardi a partire dal 2026. Inoltre nel DEF non è previsto nessun aumento di spesa per le pensioni, men che meno qualsiasi accenno ad una revisione della legge Fornero, e non c'è un euro nemmeno per il rinnovo dei contratti del Pubblico impiego. E intanto l'inflazione continua a mangiarsi salari, stipendi e pensioni, visto che quest'anno è prevista al 5,4%, per scendere al 2,1% solo nel 2025. Con una perdita per salari e pensioni di almeno 5 punti nel 2022 e di altri 4 punti nel triennio 2023-2025. Ma questa è solo l'inflazione ufficiale programmata. Quella reale è ben superiore, soprattutto quella sulla spesa alimentare e per i beni primari. Anche perché non è dovuta ad un eccesso della domanda interna, bensì all'aumento dei costi dell'energia e delle materie prime, che non torneranno più ai livelli pre-pandemici.
Per quanto riguarda poi la spesa sanitaria, essa è prevista in 136 miliardi nel 2023, con un aumento nominale del 3,8% rispetto al 2022. In termini reali si tratta invece di un taglio, visto che l'aumento è nettamente inferiore al tasso d'inflazione. Ciononostante nel 2024 subirà un taglio anche in termini nominali del 2,4%, scendendo dal 6,7% del PIL al 6,3%. E pur recuperando in valore assoluto l'1,7% nel 2025 e il 2,5% nel 2026, scenderà invece ancora in percentuale del PIL al 6,2%, a fronte di una media UE dell'8%. Si conferma così la volontà del governo di proseguire lo smantellamento del SSN, già falcidiato dai tagli per 36 miliardi in 10 anni, e poi dalla pandemia e dall'inflazione, per favorire la progressiva privatizzazione della sanità pubblica.
Lo stesso intollerabile andazzo è previsto per l'istruzione, dove si delinea un aumento della spesa solo nel periodo 2022-2026, in coincidenza con l'incorporazione (per ora solo teorica) delle risorse del PNRR (circa 22 miliardi), per poi tornare al livello medio del 3,4% del PIL, senza alcun incremento strutturale. E anche per il Mezzogiorno il DEF non prevede alcun investimento, a parte quelli disegnati nel PNRR, sicché gli investimenti pubblici ordinari vengono sostituiti da quelli del suddetto piano. Sempre ammesso che vengano fatti, vista l'incapacità del governo nel realizzare i progetti finanziati, vedi il piano per gli asili nido.
Anche per l'assistenza sociale si prevede per quest'anno una riduzione del 2,9%, derivante dalle misure della legge di Bilancio 2023, a cominciare dai tagli al Reddito di cittadinanza. Per il periodo 2024-2026 è previsto un incremento in termini assoluti, dovuto anche al potenziamento dell'Assegno unico universale per i figli a carico, ma in termini reali c'è una progressiva diminuzione della spesa in rapporto al PIL (dal 5,8 del 2022 al 4,9% del 2026). Niente è previsto inoltre per far fronte all'invecchiamento della popolazione e l'assistenza alle persone non autosufficienti. Il governo punta a mettere soldi nel welfare aziendale, con la detassazione dei fringe benefits aziendali
fino a 3.000 euro per i dipendenti (ma solo con figli), piuttosto che nell'investire nel welfare pubblico e universale.
Taglio al cuneo contributivo per salvare i profitti
Il taglio del cuneo fiscale contributivo da 3,4 miliardi per gli stipendi fino a 35 mila euro è l'unico stanziamento messo in campo per rendere digeribile ai sindacati e ai lavoratori questo DEF all'insegna dell'austerità, dei tagli e della moderazione salariale. Ma si tratta solo di una misura demagogica e furbesca, un'elemosina mirata a proteggere le imprese dalle rivendicazioni salariali scaricandone il costo sulla collettività. Presentata infatti nel documento come una misura contro il calo del potere d'acquisto delle retribuzioni causato dall'inflazione, si sottolinea invece che essa “può limitare la rincorsa salari-prezzi, moderando quindi le aspettative di inflazione degli operatori economici e dei mercati finanziari”.
Non per nulla Confindustria plaude al taglio del cuneo contributivo per i lavoratori e chiede anzi di integrarlo “con altre risorse” (ma da recuperare, specifica, “attraverso un'attenta revisione della spesa”), e ne approfitta per chiedere altri sostegni alle imprese (dopo che negli ultimi 7 anni hanno già intascato circa 200 miliardi di “aiuti”). Chiede perfino che i soldi non spesi del PNRR vadano alle imprese. Considerando poi che nel documento non c'è più alcun riferimento alla sbandierata tassazione degli extraprofitti delle aziende arricchitesi con pandemia e rincari energetici, la strategia del governo neofascista Meloni contro l'inflazione, già tracciata del resto da Draghi, appare chiara: non toccare i profitti ma lasciare che l'inflazione si scarichi sui lavoratori, compensandoli con un'elemosina caricata sul bilancio dello Stato: cioè, alla lunga, sugli stessi lavoratori con altri tagli alla spesa sociale.
La truffa meloniana dei 100 euro in più sulle buste paga
Dopo il Consiglio dei ministri per approvare il decreto “Lavoro” che smantella il Reddito di cittadinanza, elude sostanzialmente il problema irrimandabile della sicurezza sul lavoro e aumenta la precarietà, estendendo l'uso dei voucher e cancellando quasi ogni limite al lavoro a tempo determinato - Cdm tenuto provocatoriamente il 1° Maggio in sfida ai sindacati e ai lavoratori - invece della conferenza stampa (da cui tende ormai a sfuggire dopo quella disastrosa di Cutro), la premier neofascista ha girato un insulso video in stile film Luce mussoliniano in cui si è vantata di aver concesso ai lavoratori “fino a 100 euro al mese”, “il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”, e che per questo si sarebbe “aspettata un bravi” anziché ricevere critiche dalla “triplice”, come lei chiama sprezzantemente Cgil, Cisl e Uil. Una falsità e una furberia allo stesso tempo, perché in realtà la stessa Banca d'Italia ha quantificato in circa 200 euro lordi l'ammontare medio del taglio del cuneo, a cui si arriva dividendo 4 miliardi ad una platea di circa 19 milioni di lavoratori fino a 35 mila euro. Che scenderebbero a 180 euro se il taglio fosse di 3,4 miliardi. Distribuito su 13 mensilità esso arriverebbe a poco più di 15 euro al mese nel primo caso, e meno di 14 nel secondo. Solo che il taglio varrà solo da luglio fino a novembre di quest'anno, e distribuito su 5 mesi l'importo mensile medio si gonfia fino a 40 euro, nel migliore dei due casi. A cui poi Meloni somma anche il taglio di due punti, pari a 45 euro medi, già approvato dal governo Draghi e confermato nell'ultima legge di Bilancio (con l'aumento di un punto per le retribuzioni fino a 20 mila euro), arrivando così a calcolare un picco massimo di 98 euro lordi per le retribuzioni da 35 mila euro.
Ma si tratta, lo ripetiamo, di un provvedimento che vale solo per 5 mesi, e per quel che è dato sapere non sarà confermato per il prossimo anno, visto che i 4,5 miliardi ritagliati dal deficit per il 2024 sono destinati dichiaratamente a finanziare la delega fiscale del governo (riduzione delle aliquote ai redditi medio-alti, flat tax, “pace fiscale e contributiva” e così via). Una furbata rivestita con una truffa, insomma. Secondo un calcolo dello stesso quotidiano confindustriale Sole 24 ore
del 17 aprile, infatti, “solo per mantenere in vita l'esistente e mettere mano al minimo sindacale degli interventi già annunciati” (tagli del cuneo, incentivi per l'assunzione di giovani, contratti scaduti della Pa, Quota 103 e le altre pur minime misure sulle pensioni, il promesso taglio antiprogressivo dell'Irpef, nuovo rinvio di plastic e sugar tax, maggiori spese militari ecc, la prossima legge di Bilancio dovrebbe contare su almeno 23-26 miliardi, mentre ad oggi a disposizione per il 2024 ce ne sono appena 5,7: chiaro che il taglio del cuneo per i lavoratori rimarrà una misura una tantum mirante solo a scongiurare un'esplosione di lotte salariali nel prossimo autunno. Gli unici tagli saranno piuttosto quelli alla spesa pubblica.
Beffati sindacati e lavoratori, occorre lo sciopero generale
Nella tarda vigilia del 1° Maggio i segretari di Cgil, Cisl e Uil, insieme a quello del sindacato fascista Ugl, sono stati convocati a Palazzo Chigi, solo per sentirsi recitare un riassuntino a voce del decreto “Lavoro” già approvato e da varare ufficialmente qualche ora dopo. Un doppio affronto, considerando anche la data scelta per l'annuncio ufficiale, eppure non hanno rifiutato l'inutile e umiliante incontro. Anzi il segretario Cisl, Sbarra, si è detto parzialmente soddisfatto del taglio del cuneo, dichiarando che “Il giudizio è sospeso in attesa dei testi, considero utile l'incontro se veramente riuscirà a determinare un nuovo cammino di dialogo”. Proprio quello che si aspettava la premier neofascista dalla sua mossa per dividere il fronte sindacale, puntando le sue carte su Cisl e Ugl contro il duo Landini-Bombardieri. Cosicché il segretario della Cgil raccoglie ora i cocci dell'incredibile apertura di credito concessa alla premier neofascista invitandola perfino al Congresso della confederazione.
Del resto neanche lui ha smascherato il bluff della Meloni sul taglio del cuneo, limitandosi a mugugnare che “la mossa che fa il governo va nella direzione delle proposte che abbiamo avanzato. Il limite è che è temporaneo, non ha una prospettiva, dura qualche mese”. Dopodiché, sull'ipotesi di uno sciopero generale, ha nicchiato confermando soltanto le 3 giornate di mobilitazione già indette in precedenza, il 6 maggio a Bologna per le regioni del Centro, il 13 a Milano per le regioni del Nord e il 20 a Napoli per le regioni del Sud, “perché c'è bisogno di un cambiamento vero della politica di questo governo, a partire anche da una vera riforma fiscale e sulla salute e sicurezza''. É evidente il timore di rompere l'unità con la Cisl, che non vuole neanche sentir parlare di uno sciopero generale contro il governo. Sciopero generale proclamato invece dall'Usb per il 26 maggio, a partire dalla rivendicazione di 300 euro in busta paga per tutti i lavoratori contro l'aumento del costo della vita.
Lo sciopero generale unitario dei sindacati confederali e di base è invece quantomai necessario e urgente, per rispondere all'arroganza antioperaia, antisindacale e neocorporativa di stampo mussoliniano della Meloni. Occorre che i lavoratori più coscienti e avanzati si attivino dal basso per sturare le orecchie ai vertici sindacali affinché si decidano a proclamarlo. Cos'altro c'è da aspettarsi di peggio ancora da questo governo neofascista, per decidersi a proclamare una mobilitazione generale con al centro il lavoro, l'aumento dei salari e delle pensioni medio-basse, il blocco dei prezzi dei generi di prima necessità e l'abrogazione della legge Fornero?
10 maggio 2023