Il governo neofascista arraffa tutte le poltrone, comprese quelle della Rai
Meloni fa la parte del leone
Il 12 aprile, dopo tre giorni di estenuanti trattative in cui non sono mancate liti furibonde e colpi bassi, i tre partiti della maggioranza, FdI, Lega e FI, si sono accordati per spartirsi le nomine ai vertici delle grandi aziende di Stato e ai relativi consigli di amministrazione: Enel, Eni, Leonardo, Poste italiane e Terna. Una prima grande abbuffata che ha avuto un secondo tempo il 12 maggio con la nomina dei vertici di Trenitalia e Rete ferroviaria italiana (Rfi), e completata con la nomina del nuovo vertice meloniano della Rai.
Per quanto abituati a questo squallido rito del regime capitalista neofascista, secondo il quale ogni maggioranza che si avvicenda al governo, tanto della destra che della “sinistra” borghese, una delle prime cose che fa è mettere i propri uomini più fedeli e i servitori più zelanti (spesso gli stessi della vecchia maggioranza che hanno accortamente cambiato casacca per tempo) ai posti di comando delle grandi aziende di Stato e delle altre centinaia di partecipate per spartirsi i miliardi pubblici, nonché della Rai per farne il proprio strumento di propaganda, stavolta si è battuto il record della voracità e della sfacciataggine nell'arraffare senza ritegno tutte le poltrone più importanti, non lasciando neanche le briciole all'opposizione, salvo Italia Viva di Renzi a cui sono stati lasciati alcuni strapuntini in riconoscimento della sua funzione di ruota di scorta del governo neofascista.
Meloni pigliatutto (col placet di Mattarella e Draghi)
La neofascista Meloni ha fatto la parte del Leone, prendendosi Eni, Leonardo, Poste, Terna, Trenitalia e Rfi, oltre naturalmente la nuova dirigenza Rai, e avrebbe fatto cappotto se Lega e FI non avessero fatto asse per cercare di frenarla strappandole alla fine dalle unghie almeno l'Enel su cui aveva già messo un'ipoteca. A dirigere l'Eni come amministratore delegato (ad) sarà infatti Claudio Decalzi, già nominato da Renzi e confermato con Gentiloni, il Conte 2 e Draghi, riconfermato ora alla guida dell'ente energetico di Stato per il suo quarto mandato con la spinta della premier e del Quirinale, come riconoscimento per l'essersi dato da fare in giro per il mondo a cercare gas alternativo a quello russo. Al suo fianco come presidente avrà l'ex comandante generale della guardia di finanza, Giuseppe Zafarana, gradito anche a Salvini.
A dirigere Leonardo, l'ex Finmeccanica, industria di valore strategico internazionale nel campo degli armamenti e dell'aerospaziale da 15 miliardi di ricavi nel 2022, Meloni ha chiamato nel ruolo di amministratore delegato Roberto Cingolani, già manager di Leonardo ed ex ministro della Transizione ecologica, da ottobre consigliere personale della premier per l'energia. Una nomina più che blindata, avendo come indiscutibili sponsor anche il Quirinale e Draghi. Al suo fianco come presidente ci sarà Stefano Pontecorvo, ex ambasciatore in Pakistan e alto rappresentante Nato per l'Afghanistan, in quota FdI, nominato per consolare Crosetto dalla scelta di Cingolani al posto del suo candidato Lorenzo Mariani, da lui ritenuto più esperto nel settore delle armi.
Alla guida di Poste italiane resta confermato l'attuale ad Matteo Del Fante (ex manager di JP Morgan a Londra, ex direttore di Cassa depositi e prestiti ed ex ad di Terna), la cui nomina è stata appoggiata anche da Gianni Letta (e da Renzi, suo amico di vecchia data). Presidente di Poste sarà la presidente di Assoimmobiliare Silvia Rovere, sponsorizzata dal sottosegretario e consigliere meloniano, Giovanbattista Fazzolari, e dall'ex ministro Tremonti. Riferendosi alle nomine di Descalzi e Del Fante, Renzi ha commentato gongolante: “Mi fa sorridere che sono nomi che abbiamo individuato e promosso noi”.
A dirigere Terna, la società pubblica che gestisce la rete elettrica, Meloni ha chiamato Giuseppina Di Foggia, ad e vicepresidente di Nokia Italia, molto amica di sua sorella Arianna. La premier la esibisce come un suo fiore all'occhiello, presentandola come la realizzazione della sua promessa fatta in occasione dell'8 marzo di nominare una donna come amministratore (al maschile) delegato di una grande azienda di Stato. Come se da questo si misurasse il grado di emancipazione delle donne in Italia. Presidente dell'ente sarà Igor De Biasio, attuale consigliere in quota Lega del Cda Rai.
A Salvini e Berlusconi il controllo dell'Enel
Sul vertice di Enel l'hanno spuntata invece Salvini e i suoi alleati per l'occasione, Tajani e Gianni Letta, riuscendo ad imporre come ad Flavio Cattaneo, ex direttore generale della Rai ed ex ad di Terna e di Telecom e attuale vicepresidente di Italo, amico personale di Salvini e anche di La Russa, che ha avuto anch'egli un ruolo nella sua nomina, a dispetto della premier che per l'ente elettrico aveva tutt'altri piani. Alla presidenza dell'ente elettrico è stato nominato infatti Paolo Scaroni, il discusso ex presidente di Eni ed Enel, ex vicepresidente della Banca Rotschild e oggi presidente del Milan, con forti relazioni nella finanza internazionale e nel business dell'energia, screditato per aver legato l'Italia al gas di Putin ma fortemente voluto da Berlusconi e da Gianni Letta e sponsorizzato anche dal faccendiere Bisignani. La premier avrebbe voluto invece per quel posto l'ad di Terna Stefano Donnarumma, nominato a suo tempo dal M5S e spostatosi per tempo su FdI, ma la Lega ha fatto muro e il risultato è che adesso è restato fuori da tutte le partite.
Meloni ha dovuto fare buon viso dichiarando che “sono nomine basate sulla competenza e non l'appartenenza”, e che comunque è stato fatto “un gran lavoro di squadra”, anche perché quattro grandi aziende su cinque sono un bottino più che soddisfacente per lei. Specie considerando che un mese dopo si è aggiudicata anche le nomine dei vertici di Trenitalia e Rfi, sulle quali aveva messo gli occhi Salvini che in quanto ministro delle Infrastrutture pretendeva di imporre dei manager esterni di sua fiducia. Invece l'hanno avuta vinta Meloni e il ministro degli Affari europei Fitto, confermando l'ad Luigi Corradi a Trenitalia e nominando il manager della controllata Mercitalia, Gianpiero Strisciuglio, come ad della rete ferroviaria; che dovrà gestire fra l'altro i 24 miliardi stanziati col PNRR.
Della estenuante tre giorni di trattative ha fatto parte anche la spartizione tra FdI, Lega e FI, stavolta rigorosamente col manuale Cencelli, delle 18 poltrone di consiglieri di amministrazione senza deleghe di Enel, Eni, Leonardo e Poste, tra cui almeno un paio sono andate a due donne di area renziana. E nelle prossime settimane la grande abbuffata continuerà per le oltre 600 aziende minori controllate dai suddetti grandi gruppi.
La defenestrazione di Tridico (Inps) e l'assalto alla Rai
Nella partita delle nomine dei grandi enti di Stato rientrano anche la Rai e le presidenze di Inps e Inail. Per queste ultime due il governo ha fatto un decreto ad hoc lo scorso 4 maggio per commissariare i due attuali presidenti, e soprattutto quello dell'Inps Pasquale Tridico, nominato nel 2018 dal M5S e particolarmente inviso alla premier perché sostenitore del Reddito di cittadinanza e della tesi che i contributi degli immigrati sono decisivi per finanziare il sistema pensionistico. Entro fine maggio FdI e Lega potranno così nominare i loro rispettivi presidenti scegliendoli tra gli uomini di loro fiducia. Per l'Inps Meloni penserebbe a Mauro Nori, oggi capo di gabinetto della ministra del Lavoro Calderone. Sarebbe stato lui anzi a scrivere il decreto per silurare Tridico. Per l'Inail il sottosegretario e fedelissimo di Salvini Durigon, quello che voleva dedicare un parco di Latina al fratello di Mussolini togliendolo a Falcone e Borsellino, starebbe pensando al segretario del sindacato neofascista Ugl, dal quale anche lui proviene.
Intanto il 10 maggio, con la nomina di Roberto Sergio a nuovo amministratore delegato al posto del dimissionario Carlo Fuortes, Meloni ha avviato l'operazione per l'occupazione militare della Rai da parte delle sue truppe politico-culturali capeggiate dal ministro ed ex direttore del Tg1 e Tg2 Gennaro Sangiuliano, quelle che secondo i suoi stessi proclami dovranno “cambiare la narrazione del Paese”. Fuortes, nominato ad e direttore generale della Rai da Draghi nel 2021, aveva ancora un anno di mandato davanti, ma si è dimesso per spianare la strada al golpe meloniano in cambio della promessa della direzione del Teatro San Carlo di Napoli, dopo che per creargli il posto il Consiglio dei ministri aveva approvato un decreto ad hoc per sloggiare l'attuale direttore abbassando i limiti di età per i direttori di teatri: una legge contra personam,
in questo caso.
Roberto Sergio, di estrazione democristiana e molto amico di Pierferdinando Casini, è direttore di Rai Radio dal dicembre 2016, carica che continua a ricoprire, ed era considerato da tempo un candidato della destra, pur avendo coltivato buoni rapporti anche con il PD. Il suo compito in realtà è quello di aprire la strada al vero plenipotenziario nero della Meloni in Rai, che è Giampaolo Rossi, tenendogli in caldo la poltrona di ad quando tra un anno scadrà l'attuale cda. Intanto Rossi entra nelle vesti di direttore generale (dg), e insieme a Sergio ha messo subito mano al cambiamento dei programmi e dei direttori di reti e di testate per la nuova Rai meloniana.
Chi sono Giampaolo Rossi e Gian Marco Chiocci, fedelissimi della Meloni
La votazione in Cda, che ha ratificato il golpe meloniano che anticipa di un anno il cambio al vertice, la dice lunga sui nuovi equilibri politici che si stanno creando intorno alla Rai. Dei 5 consiglieri hanno votato a favore Simona Agnes di FI e Igor De Biasio della Lega, contro solo Francesca Bria del PD. Si sono invece astenuti Riccardo Laganà, consigliere delegato dal sindacato interno Usigrai, “per responsabilità verso l'azienda”, e il consigliere del M5S Alessandro Di Majo. Sull'astensione di quest'ultimo pesa infatti il sospetto di una trattativa di Conte con la destra per il futuro dell'ex direttore del Tg1 Giuseppe Carboni, nominato dal M5S, e per l'ottenimento di un soddisfacente numero di poltrone. Ma a fare la differenza è stato il voto a favore, che vale il doppio, della presidente del Cda Marinella Soldi, in quota Renzi, spiattellando alla luce del sole l'inciucio tra destra e renziani, visto anche il buon rapporto tra Sergio e l'ex premier, autore tra l'altro della controriforma del 2015 che ha portato la Rai sotto il diretto controllo del governo.
Il nuovo dg Giampaolo Rossi è un fedelissimo della Meloni, cresciuto insieme a lei nei “gabbiani” di Rampelli del MSI di Colle Oppio, con una lunga carriera in Rai da quando Fini lo piazzò come direttore di Rainet nel 2004, per poi entrare da consigliere nel Cda con il Conte 1 e 2 a sostegno dell'ad Fabrizio Salini, nominato dal M5S, di cui si dice fosse il suggeritore. Non ha mai nascosto troppo le sue posizioni complottiste e sovraniste e le sue simpatie per Putin, Trump e Orban. Del nuovo zar diceva nel 2018 sui social che “la colpa di Putin è di non volere sottomettere la Russia ai dettami del Nuovo ordine mondiale preconizzato da Soros, speculatore globalista con il vizietto di destabilizzare i governi eletti”.
In Rai si ricorda un suo intervento all'Agcom contro un'inchiesta di Report
sui soldi di Mosca alla lega, così come i suoi interventi per spingere i suoi protetti come l'attuale ministro Sangiuliano, il giornalista Angelo Mellone e l'ex direttore del Tg2 Nicola Rao. Ora toccherà a lui, insieme a Sergio, decidere la sorte di Report
e di quei pochi programmi e giornalisti che ancora non si erano già conformati alla “nuova narrazione del Paese”.
Sergio e Rossi non hanno perso tempo, e a passo di carica, il 24 maggio, hanno presentato e fatto approvare dal cda la lista dei nuovi direttori di reti e di testate giornalistiche, ovviamente con la distribuzione dei posti chiave a fedelissimi della premier e dei suoi alleati. A capo della testata ammiraglia, il Tg1, arriva Gian Marco Chiocci, meloniano di ferro, attuale direttore dell'agenzia Adn Kronos. Di simpatie neofasciste per vocazione familiare (suo padre da direttore de Il Tempo
decretò in prima pagina “Mussolini uomo dell'anno”), ha scritto un libro con Vincenzo Canterini, il famigerato ex capo della celere al G8 di Genova, sulla strage di Bologna sostenendo la tesi fuorviante della “pista palestinese” per scagionare i terroristi neri, ed è stato sospettato di favoreggiamento dell'ex Nar Massimo Carminati rivelandogli l'inchiesta a suo carico di “Mafia Capitale”. Non è sgradito nemmeno a Conte, di cui sarebbe amico personale fin da quando con la sua Adn Kronos seguiva l'ascesa del M5S.
Fratelli d'Italia si tiene anche Rai News 24 con Paolo Petrecca (che ripaga subito con la scandalosa diretta del comizio elettorale di Meloni a Catania), e soprattutto piazza un suo direttore, Paolo Corsini, agli Approfondimenti, la testata che controlla tutti i talk show. Il Tg2 va a Forza Italia con Antonio Preziosi, mentre il PD conserva la direzione del Tg3 con Mario Orfeo, così come Radio 3, Rai Cultura e Rai Fiction. La Lega non ha Tg nazionali, ma in compenso si prende tutti i telegiornali regionali con Alessandro Casarin e i Giornali Radio con Francesco Pionati, più l'intrattenimento del Prime Time (che comprende anche Sanremo), che confisca al PD piazzandoci il suo fedele Marcello Ciannamea, il Day Time e Rai Sport. Il M5S si deve accontentare di Rai Parlamento per Giuseppe Carboni, ma ottiene anche qualche altra poltrona come quelle della Direzione Cinema e Serie Tv (esternalizzate), Radio 2 e RaiCom.
31 maggio 2023