Sciopero generale nelle telecomunicazioni
A rischio 20mila posti di lavoro
Nella giornata di martedi 6 giugno si sono fermati i lavoratori delle telecomunicazioni (Tlc) per lo sciopero indetto dai sindacati confederali Slc-Cgil, Fistel-Cisl e Uilmcom, a cui ha aderito anche l'Ugl. Le adesioni sono state molto alte, con punte dell'80% mentre a Roma, in Piazza Santi Apostoli si è tenuta la manifestazione nazionale, ma ve ne sono state altre nel resto d'Italia.
L'alta adesione è ben comprensibile date le criticità del settore e le preoccupazioni tra i lavoratori. Considerato “strategico” da tutti governi che si sono succeduti, che per questo motivo più di una volta hanno voluto avere voce in capitolo di fronte alle varie acquisizioni e scorpori che puntualmente si paventavano all'orizzonte, in realtà si tratta di un settore dove, almeno dalla privatizzazione dell'allora Telecom (oggi Tim) di oltre 25 anni fa, in cui la corsa al ribasso e la forte concorrenza la fanno da padrone. Tra dumping, “spezzatini” e outsourcing (appalti a società esterne), depauperazione infrastrutturale e tecnologica, le aziende del settore delle telecomunicazioni, in Italia, sono in crisi profonda.
Quasi tutte registrano delle perdite, che puntualmente le aziende cercano di recuperare sulle spalle dei lavoratori, con l'abbassamento dei salari e tagli all'occupazione e ai diritti. Vodafone chiede una riduzione dei costi pari al taglio di circa 1.000 dipendenti, WindTre cede una parte della sua infrastruttura a un fondo svedese, Tim, su cui pesa una scure debitoria di 23 miliardi di euro, punta a separare l’infrastruttura dai servizi, il che innescherebbe un effetto domino sull’occupazione; British Telecom ed Ericsson hanno formalizzato, anche loro, eccedenze.
Si tratta del primo sciopero nazionale dell'intero settore. Poco più di un mese fa avevano incrociato le braccia le lavoratrici e i lavoratori della Wind contro il piano aziendale che attraverso lo “spacchettamento” diventerà una società di multiservizi, erogatrice di telefonia mobile e fissa, ma anche di luce e gas, assicurazioni, di oggetti “intelligenti” che agiscono tramite la rete (IOT). Le resteranno le licenze con 3 quinti degli attuali dipendenti. Ma anche gli altri rischiano il posto di lavoro: “Ci chiediamo come possa resistere quel che rimarrà di WindTre, senza l’infrastruttura di rete ma con ancora 4.000 dipendenti (adesso sono 6500) in un contesto che la vedrà competere con realtà molto più snelle, per esempio gli operatori virtuali, con costi di gestione ben più bassi” afferma Riccardo Saccone, della Flc-Cgil.
Ancora più grave la situazione di Tim. Con la privatizzazione l’ex monopolista di stato ha accumulato un debito gigantesco. Per i 41 mila lavoratori del gruppo le prospettive sono sempre più fosche. Fallito e cancellato il Memorandum dell’agosto del 2020 che prevedeva la nascita di una public company, mentre la promessa elettorale della Meloni – il cosiddetto piano Minerva con un’Opa totalitaria – non si è realizzata. Lo spezzatino deciso dal nuovo Ad Labriola, con il consenso degli azionisti francesi di Vivendi. prevede la creazione di tre società diverse: quella della rete (Netco) con circa 22 mila dipendenti, la Serviceco che gestirà i servizi di telefonia con circa 12-15 mila dipendenti e la Enterprise che guiderà le innovazioni con circa 5 mila dipendenti.
In poco più di 20 anni un'azienda che nel suo settore era arrivata ad essere la settima al mondo, con i conti in attivo, è passata di mano in mano a privati e fondi d'investimento che l'hanno ridotta in condizioni comatose. Debiti a parte si stimano in 10mila gli “esuberi” soltanto in Tim. In totale sono a rischio oltre 20mila posti di lavoro diretti nel solo perimetro delle telecomunicazioni, senza calcolare gli effetti nell’intero sistema degli appalti del settore, per quanto riguarda l’impiantistica, la manutenzione, l’installazione delle reti sia fisse che mobili e il settore dell’assistenza clienti. “Una volta le telecomunicazioni erano sinonimo di modernità, invece oggi il comparto è stato sfruttato dalla finanza che – spiegano alla Slc Cgil – ha trattato le nostre aziende come dei bancomat, ossia luoghi da depredare”. E poi ci sono i call center, che minacciano di uscire dal contratto Tlc, perennemente impegnati nella corsa al ribasso dei prezzi e alle esternalizzazioni, con altri posti di lavoro in bilico.
Le Tlc, in tutti i Paesi tecnologicamente avanzati, sono uno dei pochi comparti che ancora garantiscono una occupazione di qualità. Da noi invece la politica delle liberalizzazioni e dei tagli sta gettando sul lastrico migliaia di lavoratori e ha condannato l’Italia agli ultimi posti in Europa in termini di qualità della connessione offerta alla propria cittadinanza.
14 giugno 2023