In vista del Consiglio europeo
Destra e sinistra del regime neofascista si scontrano in parlamento sui problemi attuali dell'Ue
Meloni illustra la visione di destra dell'Europa e riconferma l'appoggio all'Ucraina. La demagogia di Conte sull'Ucraina fa il gioco di Putin
Il 28 giugno Giorgia Meloni si è recata in parlamento per comunicare la linea del governo in vista del Consiglio europeo del 29-30 giugno, con all'ordine del giorno i temi del sostegno all'Ucraina, le migrazioni, le relazioni con la Cina, la sicurezza, la difesa, l'economia e la governance dell'Ue. La premier neofascista si è presentata più agguerrita che mai, prima alla Camera e poi al Senato, con due obiettivi ben chiari in mente: illustrare e imporre al parlamento la sua visione di destra dell'Europa, soprattutto sui temi per lei più cruciali dell'immigrazione, dell'economia e del governo dell'Unione, e infierire su un'opposizione divisa e balbettante mostrando tutta la debolezza e la confusione di PD, M5S e Verdi-Sinistra italiana: cosa che ha fatto prendendoli a schiaffoni, soprattutto nelle due repliche.
In sostanza, cioè, ha colto questa occasione per aprire la sua campagna elettorale in vista delle elezioni europee del 2024, con le quali punta a spostare a destra gli equilibri di potere nella Commissione europea e nel parlamento di Strasburgo, proponendosi come leader di tutta la destra europea cosiddetta “sovranista” in vista di un'alleanza di governo con la destra “moderata” e democristiana per rompere l'attuale maggioranza Ppe-Socialisti europei. Un progetto ambizioso che sta costruendo da tempo, e che il vento in poppa della vittoria alle politiche dello scorso settembre e della solida maggioranza parlamentare le dà ottime opportunità di attuare.
Il disegno egemonico meloniano sulla destra europea
A questo proposito le è caduta a puntino la sua rielezione a presidente del gruppo parlamentare europeo di cui il suo partito fa parte, il gruppo dei Conservatori e Riformisti, proposta nel Consiglio dell'Ecr Party tenutosi a Roma il 26 giugno. Gruppo a cui appartengono tra l'altro, insieme a FdI, i franchisti spagnoli di Vox e i sanfedisti polacchi del Pis. I due vice della Meloni sono appunto dei dirigenti di questi partiti. Tra i “partner globali” del suo gruppo europeo spicca il nazisionista Likud. Anche il messaggio di congratulazioni per la vittoria elettorale che la premier italiana ha inviato quello stesso giorno al premier greco di destra Mitsotakis, in cui ha sottolineato che “Italia e Grecia insieme possono ottenere importanti risultati a beneficio dei nostri popoli”, rientra nella sua strategia di coalizzare la destra europea, dai “sovranisti” ai “moderati”, per dare una spallata all'attuale assetto di potere con l'occasione delle prossime europee.
Meloni punta a coinvolgere in questo disegno Forza Italia del defunto Berlusconi, partito oggi guidato da Tajani, utile per aprirle la strada verso il Ppe. Non a caso Salvini, che rischierebbe di restare isolato nel gruppo della destra estrema di Identità e Democrazia (ID), di cui fanno parte il Rassemblement National della fascista Le Pen e i neonazisti tedeschi di AfD, si è rifatto avanti con un'intervista al Corriere della Sera
(ormai diventato il “salotto buono” di questo governo neofascista), per proporre un'alleanza di tutto il “centro-destra” italiano ed europeo, dal Ppe a Ecr e ID, per sconfiggere la “sinistra” europea. Ma per il momento è stato gelato da Tajani, che è anche vicepresidente del Ppe, per il quale un'alleanza di FI e Ppe con Le Pen e AfD è da considerare improponibile. A vantaggio di Meloni e della sua strategia di avvicinamento al Ppe giocano invece le lodi ricevute dal suo presidente in visita a Roma, Weber, nonché gli ottimi rapporti personali coltivati con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e con la presidente del parlamento europeo, Roberta Metzola.
È cosciente di questo suo solido retroterra di relazioni politiche, che ne fanno un leader tutt'altro che isolato in Europa come si illudono le forze dell'opposizione, che la premier neofascista si è presentata alla Camera per leggere le sue comunicazioni (tra l'altro già anticipate a Mattarella in un pranzo al Quirinale per concordare la linea da tenere al Consiglio europeo), con una sicumera e un'aria di sfida che ricordano l'atteggiamento strafottente di Craxi nei confronti dell'aula “sorda e grigia” di mussoliniana memoria. Non esitando ad usare spesso e volentieri toni e gesti da comizio missino, sostenuti da un tifo da stadio delle sua maggioranza di governo; del tutto incurante del suo ruolo istituzionale, anzi rivendicando compiaciuta che “non mi vedrete mai paludata, come magari vi aspettereste”.
Imporre la sua linea fascista antimigranti a tutta l'Europa
Meloni ha esordito col tema per lei più importante, che è quello dei migranti, mettendo subito in chiaro che considera secondaria la questione della loro redistribuzione, obbligatoria o facoltativa che sia, tra i paesi europei, al contrario dell'opposizione che le rinfaccia la sua amicizia con i paesi di Visegrad (Polonia e Ungheria soprattutto), che non vogliono saperne di accogliere quote dei migranti sbarcati in Italia. Quello a cui lei punta è impedire che arrivino in Italia, bloccandoli nei lager sulle coste africane del Mediterraneo convincendo l'Ue a pagare i governi nordafricani come Tunisia e Libia per fare da carcerieri, come sta pagando il dittatore fascista Erdogan per tenere bloccati in Turchia i migranti siriani e di altri paesi asiatici: “La migrazione è una sfida europea e, dunque, richiede risposte europee. E, sempre grazie al nostro lavoro, si fa sempre più strada l'approccio che mira a superare la storica contrapposizione tra movimenti primari e movimenti secondari e tra Paesi di primo arrivo e Paesi di destinazione. Se non si affronta, cioè, a monte il tema della difesa dei confini esterni dell'Unione europea, se non si contrasta l'immigrazione illegale prima che giunga sulle nostre coste, è impossibile realizzare una politica di migrazione e di asilo giusta ed efficace”, ha detto infatti la premier. Che poi ha aggiunto: “Il rapporto con i Paesi di origine e di transito deve essere considerato prioritario e deve concretizzarsi attraverso partenariati equilibrati, finanziati con risorse adeguate, tema che intendiamo porre nel quadro della revisione del bilancio settennale dell'Unione”. Il “modello” proposto è l'accordo di partenariato con la Tunisia (da lei fortemente perseguito ma per la verità tutt'altro che concretizzato), per fare di essa il prototipo del “concetto di Paese terzo sicuro”, dove riportare cioè i migranti intercettati in mare e quelli irregolari già arrivati in Italia. Un'Europa blindata e circondata da muri invalicabili e filo spinato: ecco il modello di Ue che vuole capeggiare la Meloni.
Quindi pugno duro contro i migranti, da trattare solo come un problema di sicurezza e da respingere in Africa prima ancora che riescano a mettere piede sul nostro suolo, puntando a farla diventare la politica migratoria di tutta l'Ue. E alle flebili proteste di deputati del PD, come Laura Boldrini che la accusava di fare patti con dittatori come il presidente tunisino che poi ci ricatta, Meloni ha risposto nella replica con una sfuriata, sostenuta dalla gazzarra delle sue truppe scatenate, urlando di non accettare “lezioni da quelli che andavano a braccetto con la Cuba comunista di Fidel Castro e con tutte le altre dittature comuniste del mondo di oggi”. Per poi farsi scudo della partecipazione alle trattative col presidente tunisino anche della von der Leyen e del premier olandese Rutte (“quindi, mi state dicendo che io sono così brava che ho convinto la Commissione europea a trattare con un dittatore”?). E in quanto alla Libia la premier ha avuto gioco facile nel rinfacciare al PD di essere stato il primo, con Gentiloni e Minniti, a firmare un memorandum con quel governo per bloccare le partenze dei migranti e riportare i naufraghi nei lager.
Ribadito il sostegno italiano all'Ucraina
Sull'Ucraina Meloni ha ribadito il sostegno italiano al governo di Kiev, anche attraverso l'invio di armamenti, e lo ha fatto in particolare polemizzando aspramente col M5S, soprattutto nelle due repliche, nella cui risoluzione così come negli interventi si chiedeva lo stop all'invio delle armi per perseguire invece “iniziative di pace”. Mentre il suo leader Giuseppe Conte, con la solita demagogia pseudo “pacifista” che fa il gioco di Putin, la attaccava in aula rinfacciandole che “da quando si è insediata, si è distinta per la sua fedele osservanza della linea bellicista di Washington”; e che “l'unico vero terreno su cui mostrate certezze e nessuna indecisione è quello della guerra e della corsa al riarmo”.
“Voglio ribadire la mia ferma convinzione – ha ribadito invece la premier nelle comunicazioni - che difendere l'Ucraina vuol dire, oggi, difendere l'interesse nazionale italiano, perché la capitolazione dell'Ucraina porterebbe con sé il crollo del diritto internazionale e del sistema di convivenza tra Stati, nato con la fine della Seconda guerra mondiale. Se noi non avessimo aiutato gli ucraini, come anche qualcuno in quest'Aula suggerisce, probabilmente per interessi di propaganda, se gli ucraini non avessero stupito il mondo con il loro coraggio, noi oggi ci troveremmo in un mondo nel quale alla forza del diritto si sostituisce il diritto del più forte, un mondo nel quale chi è militarmente più potente può liberamente invadere il suo vicino, un mondo molto più instabile, molto più pericoloso, e in un mondo senza regole, se non quella delle armi, l'Europa e l'Italia avrebbero solo da perdere”.
E nella replica in Senato, polemizzando col senatore del M5S Lorefice, ha aggiunto: “Lei pensa che si aprirebbe un tavolo negoziale, nel momento in cui l'Ucraina fosse più debole? O non piuttosto che avremmo quell'invasione? E allora le cose vanno chiamate con il proprio nome, non “pace”: bisogna dire allora che si vuole e si accetta un mondo nel quale chi è militarmente più forte può liberamente invadere il suo vicino. Purtroppo questo è il pensiero che il generico riferimento alla pace sottintende”. Certo, poi bisognerebbe applicare tali sacrosanti principi anche in difesa dei territori palestinesi invasi e messi a ferro e fuoco in questi giorni dall'esercito nazisionista e terrorista di Israele, cosa che la premier neofascista si guarda bene dal fare essendo invece pappa e ciccia col boia Netanyahu.
Sfoggio di “sovranismo” nazionalista su Mes, Bce e Pnrr
Per gli altri temi in agenda Meloni ha badato soprattutto a sfoggiare il suo “sovranismo” in difesa degli “interessi nazionali” in contrapposizione più o meno velata all'establishment finanziario di Bruxelles, attaccando per esempio la politica antinflazionistica della Bce basata sul rialzo dei tassi, “ricetta semplicistica” che rischia di “colpire più le nostre economie che l'inflazione” facendo si “che la cura si riveli più dannosa della malattia”. Polemica che le serve in realtà a nascondere la totale inerzia del suo governo verso il problema della drammatica caduta del potere d'acquisto dei salari e delle pensioni e a venire incontro alle richieste della Confindustria italiana.
Lo stesso vale per il rinvio della firma al Mes, il meccanismo finanziario “salva Stati” che solo il parlamento italiano, tra i 27 della Ue, non ha ancora ratificato, perché il suo rifiuto è sempre stato una bandiera elettorale della destra. A continuare a rifiutarlo a spada tratta oggi è soprattutto la Lega, ma anche Meloni, pur sapendo che la sua accettazione è inevitabile se vuole attuare il suo piano di alleanza col Ppe, cerca di salvare la faccia col suo elettorato rimandandone il più possibile la firma. E così se l'è cavata sostenendo di non reputare “utile all'Italia alimentare in questa fase una polemica interna su alcuni strumenti finanziari, come ad esempio il Mes”, subordinando arbitrariamente la sua firma ad una trattativa con Bruxelles su un intero “pacchetto” di temi che include le nuove regole della governance europea, le nuove regole del patto di stabilità, il completamento dell'unione bancaria con i relativi meccanismi di salvaguardia finanziaria e, non ultima, l'estenuante trattativa sulla rinegoziazione degli obiettivi e dei tempi di realizzazione del Pnrr, sul quale il suo governo è in colpevole ritardo. Un rinvio tattico giustificato col “rispetto del nostro interesse nazionale”, che però non ha soddisfatto il partito di Salvini favorevole ad un no puro e semplice, e che infatti non ha applaudito il passaggio, come invece hanno fatto FdI e FI.
Alla fine del suo intervento la premier neofascista è riuscita perfino a strappare un'ovazione nazionalista e patriottarda “bipartisan” di tutta la Camera in piedi, esprimendo a nome di tutti “l'indignazione italiana per l'attacco di fine maggio a danno della missione KFOR, che ha coinvolto anche militari italiani. A loro, come a tutti gli uomini e le donne in uniforme che onorano il tricolore, difendendo ovunque nel mondo pace e democrazia, va il nostro grazie a nome dell'Italia intera”.
5 luglio 2023