Lo certifica il rapporto annuale 2023 dell'Istat
“Molte disuguaglianze si sono consolidate o aggravate”. Colpiti soprattutto i giovani e le donne
1,7 milioni tra i 15 e i 29 anni non studiano, non lavorano. Salari bassi
 
Presentato venerdì 7 luglio 2023 a Roma presso Palazzo Montecitorio il Rapporto annuale 2023 dell'Istat sulla situazione del Paese. Il Presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli alla Camera dei Deputati ha presentato il Rapporto illustrandone una sintesi che indica l'aumento delle diseguaglianze e della povertà oltre che la terribile situazione dei giovani e delle donne,sempre più poveri e con sempre meno diritti riconosciuti.
Nella sintesi del Rapporto presentata da Chelli si legge tra l'altro: “Molte disuguaglianze a livello economico, sociale e territoriale si sono aggravate. Nell’ultimo biennio, altri fronti di crisi si sono sovrapposti: la guerra in Ucraina, le tensioni a livello internazionale, la crisi energetica e il ritorno dell’inflazione. Si tratta di fattori che hanno condizionato la ripresa dell’economia e accresciuto il disorientamento delle famiglie e l’incertezza per le imprese... Il 2022 ha segnato l’uscita dallo stato di emergenza sanitaria nazionale. Il forte rincaro dei prezzi dell’energia e delle materie prime ha tuttavia condizionato l’evoluzione dell’economia, con aumenti rilevanti dei costi di produzione per le imprese e dei prezzi al consumo per le famiglie. Nei primi mesi dell'anno in corso, la dinamica dei prezzi alla produzione risulta in forte rallentamento e anche l'inflazione si è attenuata.
A giugno, secondo le stime preliminari, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, ha registrato una variazione nulla su base mensile e un aumento del 6,4% su base annua, molto distante dai picchi raggiunti lo scorso autunno; il rallentamento segue quello dei prezzi dei beni energetici, e in particolare di quelli non regolamentati. Nello stesso mese, l’“inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, resta sostenuta (5,6% la variazione su base annua), seppure in decelerazione. La propagazione della dinamica inflativa su alcune filiere di produzione e sui canali distributivi rimane ancora rilevante. Nell’anno passato, l’andamento dell’economia italiana è stato decisamente positivo, sia in termini di crescita sia sul fronte dell’occupazione. Nel 2022, è proseguita la ripresa del Pil, con un aumento del 3,7 per cento, superiore a quello registrato in Francia (+2,5 per cento) e Germania (+1,8 per cento) e nel complesso dell’area euro. La crescita è stata sostenuta dalla spesa delle famiglie residenti e dall’andamento degli investimenti fissi lordi, stimolati dalle agevolazioni per la riqualificazione del patrimonio edilizio e da quelle a supporto degli investimenti tecnologicamente più avanzati in impianti e macchinari. La domanda estera netta ha invece fornito un contributo negativo. Dal lato dell’offerta, i settori più dinamici sono stati le costruzioni, il commercio, i pubblici esercizi, i trasporti e le telecomunicazioni.
L’industria in senso stretto è rimasta stazionaria, mentre l’agricoltura ha registrato una flessione. All’andamento del Pil si è associata una dinamica favorevole dell’occupazione, che è proseguita nei primi mesi del 2023. A maggio di quest’anno, il numero degli occupati, 23 milioni 471 mila, ha superato quello della primavera del 2008. Nello stesso mese, il tasso di occupazione ha raggiunto il 61,2 per cento, superiore di oltre due punti a quello medio del 2008. Nel primo trimestre del 2023, il Pil ha continuato ad espandersi, con un aumento congiunturale dello 0,6 per cento, superiore a quello dell’area euro, arretrata di un decimale. Le nostre previsioni, che scontano un quadro di forte incertezza, vedono il Pil in crescita, sia nell’anno in corso (+1,2 per cento) sia nel 2024 (+1,1 per cento)... Le dinamiche demografiche che caratterizzano il Paese stanno avendo e avranno ancor di più effetti profondi sull’equilibrio del sistema di welfare e sulla nostra capacità di crescita. L’Istat, soprattutto negli ultimi anni, ne ha dato conto con un’attenzione crescente. Al 1° gennaio 2023, i residenti in Italia ammontano a 58 milioni e 851 mila, 179 mila in meno rispetto all’inizio dell’anno precedente.... Nel 2022, quasi un giovane su due (il 47,7 per cento dei 10 milioni e 273 mila 18-34enni) mostra almeno un segnale di deprivazione in una delle cinque dimensioni considerate rilevanti, identificate a partire dal sistema di indicatori BES dell’Istat. Il concetto di deprivazione viene qui inteso come il mancato raggiungimento di una pluralità di fattori, individuali e di contesto, che agiscono nella determinazione del benessere dei giovani. Più di 1,6 milioni di giovani (cioè il 15,5 per cento dei 18-34enni) mostrano, invece, segnali di deprivazione in almeno due domini. I livelli di deprivazione e multi-deprivazione sono sistematicamente più alti nella fascia di età 25-34 anni, la più vulnerabile, costituita da coloro che escono dalla famiglia di origine per iniziare una vita autonoma, formare una unione, diventare genitore. Per la maggioranza dei giovani, il raggiungimento di queste tappe è sempre più un percorso ad ostacoli e negli ultimi decenni si è assistito ad un loro costante posticipo.
La precarietà e la frammentarietà delle esperienze lavorative e la scarsa mobilità sociale hanno contribuito a compromettere le opportunità di realizzazione delle aspirazioni di una larga parte di giovani e a scoraggiarne la partecipazione attiva, politica, sociale, e culturale. L’accesso a tali opportunità dovrebbe essere garantito a tutti i giovani, a prescindere dal contesto familiare e sociale di provenienza. In Italia, il meccanismo di trasmissione intergenerazionale della povertà è più intenso che nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea: quasi un terzo degli adulti tra i 25 e i 49 anni a rischio di povertà, quando aveva 14 anni, viveva infatti in famiglie che versavano in una cattiva condizione economica. Il Rapporto analizza anche le voci di spesa pubblica maggiormente rivolte alle fasce di età più giovani. La spesa pubblica per istruzione in rapporto al Pil mostra che il nostro Paese investe in questa funzione meno delle maggiori economie europee (il 4,1 per cento del Pil nel 2021) e della media dei paesi dell’Unione Europea a 27 (il 4,8 per cento). L’Italia, inoltre, spende per le prestazioni sociali erogate alle famiglie e ai minori una quota molto esigua rispetto al Pil, pari all’1,2 per cento, a fronte del 2,5 per cento della Francia e del 3,7 per cento della Germania... Nel 2021, in Italia, solo il 28 per cento dei bambini tra 0 e 2 anni frequenta un asilo nido, un valore molto inferiore al target europeo del 50 per cento entro il 2030. Anche gli interventi nell’edilizia scolastica possono contribuire a migliorare il benessere dei più giovani. Circa il 60 per cento degli edifici scolastici statali in Italia non dispone di tutte le attestazioni relative ai requisiti di sicurezza. La maggior parte delle scuole è, inoltre, poco accessibile per chi ha limitazioni fisiche: è privo di barriere fisiche appena poco più di un terzo degli edifici scolastici, statali e non, con una forbice di quasi 8 punti tra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno a sfavore di quest’ultime. L’effetto del progressivo invecchiamento della popolazione, che si manifesta già oggi sul sistema scolastico e sul mercato del lavoro, sarà ancora più diffuso e accentuato nel futuro.
Tra il 2021 e il 2050, le nostre previsioni più recenti stimano una riduzione della popolazione in Italia di quasi 5 milioni, a cui si associa un cambiamento sostanziale nella struttura per età. Essa si manifesterà, in gran parte, nel periodo 2021-2041, quando i residenti di età fino ai 24 anni si ridurranno di circa 2,5 milioni e quelli tra i 25 e i 64 anni di 5,3 milioni, con cali di intensità superiore alla media nazionale nel Mezzogiorno e nelle aree interne. Gli effetti degli squilibri generazionali sul mercato del lavoro sono, come detto, già evidenti. Nel 2022, l’età media delle forze lavoro è di 43,6 anni, mentre quella della popolazione in età attiva 15-64 anni è di 42 anni. La bassa partecipazione alla forza lavoro di giovani e di donne, inoltre, è un elemento che aggrava l’effetto negativo del declino demografico sulla numerosità e sulla struttura della popolazione in età da lavoro. I tassi di occupazione per le diverse classi di età mostrano in particolare lo svantaggio di quelle più giovani: il tasso tra i 15 e i 34 anni si è ridotto dal 2004 di 8,6 punti percentuali, mentre è aumentato di 19,2 punti per i 50-64enni. La crescita dell’occupazione femminile nel nostro Paese è stata costante, interrotta soltanto dai periodi di crisi, in particolare nel 2020. Nonostante i progressi, il divario con la media europea rimane ampio, e l’Italia resta fra i Paesi con la più bassa componente femminile tra gli occupati. Nel 2022, il tasso di occupazione dei 15-64enni in Italia è pari al 60,1 per cento: per gli uomini arriva al 69,2 per cento (5,5 punti inferiore all’Ue 27), mentre è al 51,1 per cento per le donne, ben 13,8 punti percentuali al di sotto della media europea. Mentre l’istruzione ha certamente un ruolo importante nel favorire l’occupazione femminile, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro resta legata anche ai carichi familiari, alla disponibilità di servizi per l’infanzia e la cura dei membri della famiglia più fragili, oltre che ai modelli culturali. Nel 2022, il tasso di occupazione delle 25-49enni è l’80,7 per cento per le donne che vivono da sole, il 74,9 per cento per quelle che vivono in coppia senza figli, e il 58,3 per cento per le madri. Come documentato in diverse edizioni del Rapporto, livelli di istruzione più elevati si associano ad una maggiore partecipazione al mercato del lavoro e favoriscono la riduzione dei divari generazionali e di genere nell’occupazione. Nella classe di età 30-34 anni, per la quale si possono considerare conclusi anche i percorsi di studi post-laurea, il 12,1 per cento delle persone dichiara di non aver mai lavorato. Tale incidenza varia molto per genere, territorio e soprattutto livello di istruzione: tra i laureati è pari a circa un terzo rispetto a chi possiede al massimo la licenza media, 7 per cento contro 21,4 per cento. Gli effetti negativi prodotti sulla forza lavoro dalla marcata riduzione attesa della popolazione residente in età di studio e di lavoro nei prossimi 20 anni potranno essere mitigati da un aumento dei tassi di partecipazione all’istruzione e al mercato del lavoro.
Occorrerà assicurare, però, anche un incremento della qualità dell’istruzione e della formazione e il loro orientamento verso i fabbisogni di competenze della società e del sistema produttivo, elementi essenziali per migliorare la qualità e la produttività del sistema economico...
Il Rapporto analizza anche il fenomeno degli espatri dei giovani laureati, un’esperienza di crescita professionale o lavorativa che arricchisce il bagaglio culturale e di competenze dei nostri giovani, ma, se irreversibile, si traduce in una perdita di capitale umano che impoverisce il potenziale di crescita del Paese. Nel 2021, il tasso di espatrio per i laureati di 25-34 anni in Italia, noto come “fuga di cervelli”, è del 9,5 per mille tra gli uomini e del 6,7 per mille tra le donne. I tassi migratori medi 2019-2021 dei giovani laureati verso l’estero indicano perdite di risorse qualificate in tutte le province, con valori superiori al tasso migratorio medio nazionale (-5,7 per mille) nel Nord e nelle Isole. I tassi migratori dei giovani laureati tra le province italiane mostrano, invece, una chiara direttrice spaziale a sfavore del Mezzogiorno, dove la perdita di capitale umano dovuta alla mobilità interna è netta e persistente. In sintesi, la prospettiva demografica di medio lungo periodo rende ancora più gravi gli attuali problemi di sottoutilizzo del capitale umano già evidenziati con particolare riguardo alla fuga di cervelli ed al ben noto fenomeno dei NEET. Naturalmente, in una società che invecchia, una maggiore partecipazione al mercato del lavoro di giovani e donne deve andare di pari passo con un allungamento della vita lavorativa anche delle generazioni più mature. Uno dei temi che l’Istat ha affrontato con maggiore continuità nelle ultime edizioni del Rapporto Annuale riguarda lo stato dell’ambiente del nostro Paese e le connessioni con l’economia e la società. Le indagini sulle famiglie mostrano che la preoccupazione per i cambiamenti climatici è crescente tra i cittadini. Tali timori sono alimentati anche dal verificarsi, con sempre maggiore frequenza e intensità, di eventi meteorologici estremi, che aumentano il rischio di calamità connesse al dissesto idrogeologico e alla siccità, con conseguenze drammatiche in termini di vite umane e danni economici. Il 2,2 per cento della popolazione residente in Italia vive in aree a pericolosità da frana considerata elevata o molto elevata e l’11,5 per cento in territori con pericolosità da alluvione da media a elevata. Oltre alle conseguenze del cambiamento climatico, persistono, a livello nazionale e locale, emergenze non ancora risolte. Ne voglio sottolineare due. La prima riguarda l’acqua e le condizioni delle nostre infrastrutture idriche. La seconda è la povertà energetica.
La scarsità dell’acqua rappresenta una minaccia per la sostenibilità della vita sociale e dei processi produttivi. La riduzione delle precipitazioni, accompagnata dall’aumento delle temperature, ha portato a una minore disponibilità media annua della risorsa idrica, che nel trentennio 1991-2020 si è contratta del 20 per cento rispetto alla media del trentennio 1921-1950. La disponibilità idrica nazionale ha raggiunto il suo minimo storico nel 2022, quasi il 50 per cento in meno rispetto al periodo 1991-2020. A tale grave problema si associa una condizione di persistente dissesto dell’infrastruttura idrica. Nel 2020, infatti, il 42,2 per cento dell’acqua immessa nelle reti di distribuzione dell’acqua potabile non arriva agli utenti finali. Una quantità considerevole, che – stimando un consumo di 215 litri per abitante al giorno – sarebbe sufficiente a garantire i fabbisogni idrici di oltre 44 milioni di persone per un anno. Nel 2020, le situazioni più critiche si sono verificate nel Centro e nel Mezzogiorno. Inoltre, la siccità e i problemi di approvvigionamento di acqua hanno influito pesantemente sull’annata agricola appena trascorsa, facendo registrare, nei conti economici nazionali, una riduzione della produzione, del valore aggiunto e dell’occupazione del settore agricolo... In Italia, nel 2022, il 17,6 per cento delle famiglie a rischio di povertà ammette di non essere in grado di riscaldare adeguatamente l’abitazione, e il 10,1 per cento dichiara arretrati nel pagamento delle bollette. Si tratta di valori elevati, anche se inferiori alla media europea. Le famiglie che lamentano una spesa energetica troppo elevata e quelle il cui reddito, una volta fatto fronte alle spese energetiche, scende sotto la soglia di povertà, sono l’8,9 per cento delle residenti in Italia e il 27,1 per cento di quelle che ricevono in bolletta i bonus sociali, potenziati negli ultimi anni per mitigare l’impatto sociale della crescita dei prezzi dei beni energetici. Negli ultimi anni, il persistere di un quadro di forte incertezza e il susseguirsi senza soluzione di continuità di crisi di carattere sanitario, economico, politico ed ambientale hanno messo a dura prova il sistema produttivo italiano...
Anno dopo anno, il Rapporto dell’Istat accompagna il Paese e ne ritrae con attenzione, partecipazione e rispetto, e con strumenti sempre più accurati, le trasformazioni, i traguardi raggiunti, i nuovi fermenti, i problemi da risolvere, e le domande che aspettano risposte. Sono strumenti che servono a valorizzare, e talvolta anche scoprire, le risorse di cui il Paese può disporre: e mi riferisco, in primo luogo, ai giovani, come abbiamo voluto mettere in luce in questa edizione del Rapporto, e ai segmenti più innovativi del sistema produttivo. Sono, soprattutto, strumenti necessari a ridurre le disuguaglianze di opportunità e competenze, che penalizzano i più giovani, le disuguaglianze di accesso ai servizi, che colpiscono le donne e i più anziani, le disuguaglianze di reddito, che si traducono in minor benessere o povertà per migliaia di famiglie, le disuguaglianze fra territori, che sommano tutte le altre. Molte di queste disuguaglianze sono purtroppo consolidate o stanno crescendo, mentre nuove forme di povertà possono emergere, e questo richiede anche, per affrontarle al meglio, di continuare a potenziare i nostri sistemi di rilevazione, di analisi e di conoscenza...”.
La fotografia del Paese che è stata scattata dall'Istat evidenzia un Paese dove le disuguaglianze si sono consolidate o aggravate e vede tra le prime vittime soprattutto il Meridione, i giovani e le donne. Un Paese alla deriva dove sono 1,7 milioni i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano e dove è sempre forte il flusso migratorio dal Sud al Nord e verso altri Paesi che garantiscono sì lavoro e condizioni di lavoro decisamente migliori ma finiscono per impoverirlo e strappare i nostri giovani dalla terra di origine. Un Paese dove i salari bassi sono bassi e particolarmente per lo sterminato esercito di precari.
Il lavoro dell'Istat è certamente importante come fotografia della situazione del nostro popolo, ma non possiamo accettare intanto l'auspicio all'allungamento dell'età lavorativa, anzi rivendichiamo il ripristino dell'età pensionabile a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne.
Non accettiamo poi i toni positivi circa l'aumento dell'occupazione contenuti nel Rapporto, non neghiamo la crescita degli occupati, ma i nuovi posti di lavoro creati sono quasi tutti sottopagati, precari e iperflessibili, cosa per noi inaccettabile.
Come inaccettabile è la soddisfazione dell'Istat nel ritorno del tasso di occupazione poco al di sopra dei livelli del lontano 2008, il 61,2%, perché è lontano anni luce dalla piena occupazione, anche l'aumento del PIL ci pare poca cosa e non rappresenta affatto un aumento della ricchezza per le masse, che infatti continuano ad impoverirsi, tanto in termini assoluti che “relativi” anche per effetto della privatizzazione di ogni servizio pubblico a cominciare dalla Sanità.
Il Rapporto sottovaluta troppo l'impatto reale nella vita delle persone dell'inflazione, che nell'area euro appare indomabile e sta impoverendo le fasce più povere del nostro popolo.
Infine come abbiamo detto fin dai tempi del governo Conte II e poi di Draghi non nutriamo alcuna fiducia nell'erogazione dei famigerati fondi del PNRR, concepiti ad uso e consumo della borghesia e dei grandi gruppi industriali e delle mafie, i quali pur essendo frutto del lavoro delle masse e quindi della tassazione, vedono le masse stesse completamente escluse dalla loro gestione, essendo infatti negato loro diritto di parola e di gestione, peraltro questi fondi sono comunque insufficienti rispetto ai reali bisogni delle masse italiane e dei migranti e una parte di essi sono erogati a debito e non certo a fondo perduto.
Quindi l'analisi dell'Istat è certamente condivisibile, ma non le ricette per il miglioramento delle condizioni di vita del nostro popolo, miglioramento che non può prescindere dalla lotta senza quartiere per il lavoro stabile, a tempo pieno, a salario intero e sindacalmente tutelato per tutti i lavoratori e i disoccupati, così come urge fare fuoco e fiamme per la Sanità pubblica, gratuita, senza ticket, cogestita dai pazienti e dai lavoratori del settore e libera da ogni influenza clericale, antifemminile e antiLGBTQUIA+, per lo sviluppo del nostro martoriato Meridione e così via.
In generale per migliorare le condizioni del nostro popolo occorre una lotta sempre più qualificata e serrata per l'appagamento di ogni bisogno,per quanto possibile vigente il capitalismo, tenendo ben dritta la barra nella lotta totale per buttare giù da sinistra e dalla Piazza questo nero governo e questo regime neofascista, per il socialismo e la conquista del potere politico da parte del proletariato, che è poi la madre di tutte le questioni.

19 luglio 2023