Meloni commemora Borsellino ma non fa nulla per scoprire i mandanti politici del suo assassinio
Ambiguità sulla lotta alla mafia
Il 19 luglio Giorgia Meloni è volata a Palermo per presenziare alla commemorazione del giudice Paolo Borsellino, ucciso 31 anni fa in via D'Amelio insieme a cinque poliziotti della sua scorta da un'autobomba della mafia. Una visita rapida e blindatissima che ha evitato ognuna delle due manifestazioni di piazza programmate - quella del pomeriggio dei movimenti antimafia e delle “Agende rosse” di Salvatore Borsellino e la fiaccolata serale organizzata da FdI - per chiudersi prima nella caserma Lungaro della polizia, vietata ai giornalisti, dove ha reso omaggio alla targa commemorativa dei poliziotti caduti della scorta, per poi far visita alle tombe di Falcone e Borsellino e chiudere la mattinata presiedendo in prefettura una riunione del Comitato per l'ordine e la sicurezza, a cui è seguito un breve incontro coi giornalisti prima di riprendere l'aereo per Roma.
Eppure solo pochi giorni prima, parlando a Pompei in occasione dell'inaugurazione in pompa magna dell'inutile linea diretta tra Roma e il sito turistico, lei che si vanta sempre di aver iniziato da giovanissima la sua militanza politica per l'emozione suscitata dalla morte di Borsellino, aveva proclamato che avrebbe senz'altro partecipato “come ogni anno” alla tradizionale fiaccolata delle associazioni giovanili “antimafia” del suo partito, che invece ha giudicato più prudente evitare temendo contestazioni di piazza che avrebbero potuto trasformare la sua passerella in una nuova Cutro.
Un timore fondato, il suo, perché l'anniversario di via D'Amelio è caduto nel bel mezzo delle polemiche e dello sdegno suscitato tra i parenti delle vittime e tra i movimenti antimafia dall'attacco che il suo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, aveva lanciato sul fogliaccio neofascista “Libero” al reato di concorso esterno in associazione mafiosa, da lui definito non un vero reato ma solo “un'interpretazione della giurisprudenza”, che deve essere quindi “rimodulato”. Si tratta del reato creato a metà degli anni '80 su impulso proprio di Falcone e Borsellino per colpire le complicità e le connessioni tra colletti bianchi e mafiosi, e in base al quale sono stati condannati in via definitiva personaggi contigui alla criminalità organizzata come l'ex senatore di FI e braccio destro di Belusconi, Marcello Dell'Utri (7 anni), l'ex sottosegretario Nicola Cosentino per i suoi rapporti col clan dei Casalesi (10 anni) e l'ex senatore Antonio D'Alì (6 anni): “Il concorso esterno non esiste come reato, è una creazione giurisprudenziale, quasi un ossimoro”, aveva invece ripetuto caparbiamente il Guardasigilli parlando poi ad una festa di FdI, tra gli applausi entusiastici della renziana Maria Elena Boschi, che lo esortava ad “avere più coraggio” nel portare fino in fondo la sua “riforma” della giustizia; quella appena avviata col ddl che intanto abolisce l'abuso d'ufficio, svuota il reato di traffico di influenze illecite e castra il diritto di informazione sulle intercettazioni di pubblico interesse.
Fermare i pm che indagano sui mandanti delle stragi del 1992-93
Insomma, un attacco a testa bassa ad un pilastro giuridico della lotta a Cosa nostra che rischiava di offuscare gravemente la credibilità della sbandierata vocazione antimafiosa della premier. Anche perché l'uscita di Nordio veniva subito difesa e impugnata a spada tratta dai berlusconiani di FI, e faceva perfettamente da sponda alla lettera inviata da Marina Berlusconi a “Il Giornale” del 17 luglio, in cui la figlia del defunto neoduce attaccava la procura di Firenze per la recente perquisizione dell'abitazione milanese di Dell'Utri in ordine all'inchiesta sui mandanti delle stragi politico-mafiose del '93, esortando implicitamente il governo “amico” a disporre un'azione disciplinare contro i giudici fiorentini (già chiesta ufficialmente infatti da un deputato di FI) e ad accelerare sulla “riforma” della giustizia.
La perquisizione, che Marina Berlusconi attribuiva ad una volontà di persecuzione nei confronti del padre che proseguirebbe anche dopo la sua morte da parte di “una sia pur piccola parte della magistratura” trasformatasi in “casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari, veri o presunti”, era avvenuta il 12 luglio e aveva riguardato anche gli uffici dell'ex senatore, in cui erano stati sequestrati elementi utili alle indagini. Secondo quanto riportava il quotidiano “La Repubblica”, sui motivi contenuti nell'ordinanza di perquisizione, Dell'Utri avrebbe istigato e sollecitato il boss Graviano “ad organizzare e attuare la campagna stragista e, comunque, a proseguirla, al fine di contribuire a creare le condizioni per l'affermazione di Forza Italia, fondata da Silvio Berlusconi, al quale ha fattivamente contribuito Dell'Utri, nel quadro di un accordo, consistito nello scambio tra l'effettuazione, prima, da parte di Cosa nostra, di stragi, e poi, a seguito del favorevole risultato elettorale ottenuto da Berlusconi, a fronte della promessa da parte di Dell'Utri, che era il tramite di Berlusconi, di indirizzare la politica legislativa del Governo verso provvedimenti favorevoli a Cosa nostra in tema di trattamento carcerario, collaboratori di giustizia e sequestro di patrimoni, ricevendo altresì da Cosa nostra l'appoggio elettorale in occasione delle elezioni politiche del marzo 1994”. Le stragi del 1993, secondo gli inquirenti fiorentini, puntavano a “indebolire il governo Ciampi”, allora alla guida del Paese, e a “diffondere il panico e la paura tra i cittadini in modo da favorire l'affermazione del progetto politico di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri”.
Per inciso il PMLI aveva individuato e denunciato già allora che le stragi della mafia del 1992-93 avevano ideatori e mandanti politici e lo scopo di creare le condizioni favorevoli all'avvento della seconda repubblica neofascista e piduista, cosa che si è puntualmente realizzata con la discesa in campo di Berlusconi. L'inchiesta fiorentina lo conferma, e le recenti notizie sulla presenza del fascista golpista Delle Chiaie a Capaci nei giorni dell'attentato a Falcone e il coinvolgimento attivo del fascista di Avanguardia nazionale e piduista, condannato per la strage di Bologna, Paolo Bellini, quale “suggeritore” delle stragi politico-mafiose, ne sono un'altra lampante conferma.
L'ipocrita imbarazzo della premier sugli attacchi ai pm antimafia
Dare la sua copertura politica all'attacco di Nordio al concorso esterno e a quello di Marina Berlusconi ai pm fiorentini avrebbe inevitabilmente smascherato la retorica antimafia della premier neofascista in una giornata così simbolica, tant'è che Salvatore Borsellino aveva bollato la sortita di Nordio avvisandola che “così facendo il ministro colpisce Falcone e Paolo, sconfessando il loro lavoro. Depotenziare il concorso esterno vuol dire colpire i nostri martiri, quelli che il governo di destra dice di voler commemorare”. E parlando in via D'Amelio al termine della manifestazione delle “Agende rosse”, partite dall'Albero Falcone insieme a Cgil, Arci, Usb, Libera e altri movimenti di sinistra e antimafia al grido di “fuori la mafia dallo Stato”, il fratello del giudice ucciso ha detto: “Perché Giorgia Meloni ha avuto paura di venire qui? Noi contestazioni non ne facciamo, manganellate non ne diamo, al massimo le abbiamo prese”. Il riferimento era alle manganellate ricevute da parte della polizia il 23 maggio, anniversario della strage di Capaci, che non voleva le contestazioni al sindaco di Palermo Lagalla, eletto col sostegno dei condannati per mafia Dell'Utri e Cuffaro, alla commemorazione delle autorità davanti all'Albero Falcone. “Alla presidente Meloni avrei semplicemente chiesto come concilia il suo impegno antimafia con le recenti esternazioni del ministro Nordio, fatte ogni volta in questi giorni di memoria”, ha aggiunto Salvatore Borsellino.
È per questo che a Palermo la premier neofascista si è tenuta vigliaccamente alla larga dalle piazze, per quanto istituzionali e blindate potessero essere, facendo persino finta, rispondendo ai giornalisti, di prendere goffamente le distanze dall'uscita di Nordio sull'abolizione del concorso esterno (“lo stesso Nordio ha detto che non era una cosa prevista nel programma di governo... ha risposto a una domanda da magistrato, e forse dovrebbe essere più politico in questo”), ma non senza lanciare una velenosa calunnia contro le “Agende rosse” e i movimenti antimafia di sinistra, insinuando: “E poi chi mi dovrebbe contestare? Forse la mafia”. Anche dalle pressioni di Marina Berlusconi per fermare i pm che indagano sui mandanti delle stragi ha finto di svincolarsi, sostenendo imbarazzata che “non è un soggetto politico”.
I proclami antimafia di Meloni non sono credibili
Ma quello della Meloni è solo un ipocrita gioco delle parti, dal momento che era stata proprio lei, il 6 luglio, a scatenare il suo mastino Nordio attaccando in prima persona i magistrati, in risposta alla pubblicazione sulla stampa di atti riguardanti la sua ministra Santanché, e soprattutto alla decisione della Giudice per le indagini preliminari che aveva respinto la richiesta di archiviazione da parte del pm e disposto l'imputazione coatta, cioè il rinvio a giudizio per il sottosegretario alla Giustizia Delmastro, indagato di violazione del segreto d'ufficio per aver mostrato documenti riservati del Dap carcerario al suo camerata di partito Donzelli al fine di attaccare il PD sul caso Cospito. E tutto ciò in concomitanza con il caso scoppiato per le inqualificabili dichiarazioni di Ignazio La Russa per screditare la ragazza che aveva denunciato per stupro suo figlio: più che abbastanza, per la premier neofascista sentitasi sotto attacco, per fare quadrato intorno ai suoi tre fedelissimi camerati e reagire inviperita, senza però metterci la faccia, con un durissimo comunicato anonimo attribuito a “fonti di Palazzo Chigi”, in cui si concludeva che “è lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”.
Un violento quanto immotivato attacco frontale alla magistratura che è suonato come un via libera a Nordio, che difatti ha copiato subito il suo metodo con un comunicato attribuito a “fonti del ministero della Giustizia” per attaccare i giudici sul caso Delmastro (“l'imputazione coatta dimostra l'irrazionalità del nostro sistema”), ventilando provvedimenti per abolire il controllo del Gip sulle decisioni del pm, e sul caso Santanché, annunciando provvedimenti per rendere completamente segreto l'avviso di garanzia fino al termine delle indagini preliminari. Dopodiché, nei giorni successivi, il ministro si è scagliato con ripetute dichiarazioni contro il concorso esterno in associazione mafiosa e a favore della separazione delle carriere dei magistrati, che “esiste in tutto il mondo” e che fa parte del programma di governo, e sarà attuata”, insieme al suo corollario della “discrezionalità dell'azione penale”.
Dunque, di cosa va cianciando la neofascista Meloni, quando proclama solennemente di essere scesa a Palermo “per capire cosa il governo può fare per aiutare chi lotta ogni giorno contro la mafia. Siamo convinti che questa battaglia si possa vincere”? Quando invece tutti gli atti suoi e del suo governo sono determinati ad eliminare l'indipendenza della magistratura, depotenziare gli strumenti di indagine degli inquirenti e modificare le leggi per rendere più difficile l'individuazione e la condanna dei politici e colletti bianchi complici o mandanti dei boss mafiosi?
Un unico disegno che lega questo governo a Berlusconi e alla P2
In un'intervista a “Il Fatto Quotidiano”, l'ex pm antimafia di Palermo Nino Di Matteo, oggi alla Procura nazionale antimafia, spiega che c'è un disegno unico nelle controriforme Cartabia e Nordio, in quanto “attuano il programma fondativo di Forza Italia e affondano le radici nel disegno della loggia P2”. E le riassume così: “Improcedibilità che fa svanire i processi in appello e cassazione, inducendo le Procure ad atomizzare l'azione penale, tralasciando i sistemi criminali complessi. Previsione di querela per perseguire reati come sequestri di persona e lesioni gravi. Criteri di priorità dell'azione penale indicati dal Parlamento. Limitazioni al diritto di cronaca anche per notizie non più coperte da segreto. Fin qui la riforma Cartabia. Poi arriva il nuovo governo. Ampia liberalizzazione delle procedure di appalto. Abrogazione dell'abuso di ufficio. Limitazione del traffico di influenze. Ulteriore stretta sulla pubblicazione di intercettazioni non più coperte da segreto. Modifiche costituzionali su separazione delle carriere e obbligatorietà dell'azione penale. Non vedo discontinuità, ma un percorso unico, che tra l'altro affonda le radici in epoche lontane”.
“In parte significativa – continua infatti il magistrato - queste riforme coincidono con i programmi dei primi governi Berlusconi. E per certi aspetti, anche piuttosto rilevanti su giustizia e informazione, con il piano di rinascita democratica della Loggia P2”. L'obiettivo, conclude il pm del maxiprocesso di Palermo che riuscì a far condannare la cupola di Cosa nostra, è quello di “ridimensionare l'indipendenza della magistratura, controllarla direttamente e indirettamente. Questa è la posta. Il sistema di potere intende blindarsi, inattaccabile dal controllo di legalità”. Ed è quanto noi da sempre andiamo denunciando.
26 luglio 2023