Realizzando il disegno del MSI, della P2 e dei neofascisti, Meloni lancia la terza repubblica
Il varo del presidenzialismo certifica il completamento ufficiale del regime capitalista neofascista
Il presidente della Repubblica Mattarella dà il via libera
Meloni la definisce la “madre di tutte le riforme” neofasciste
“Abbiamo sulle nostre spalle una responsabilità storica: consolidare la democrazia dell'alternanza e accompagnare finalmente l'Italia nella Terza Repubblica con la riforma costituzionale che questo governo intende portare avanti”. È con questo proclama di stampo mussoliniano che Giorgia Meloni ha annunciato che era finalmente pronto il disegno di legge costituzionale per l'istituzione della repubblica presidenziale in questa legislatura, come scritto nel programma elettorale del suo governo neofascista che proprio in quel giorno compiva un anno dal suo insediamento.
La bozza di ddl era stata preparata dalla ministra delle Riforme Elisabetta Casellati, che ha tenuto a far sapere di averla “condivisa” con il Quirinale mediante “un'interlocuzione costante”. E malgrado Mattarella si sia ben guardato dal confermarlo trincerandosi dietro un silenzio assoluto, secondo quanto riportato dal quotidiano “La Stampa” del 31 ottobre informato da “due fonti” del governo, “il confronto con gli uffici giuridici e con il presidente Sergio Mattarella – costituzionalista ed ex membro della Consulta – è durato settimane”. Ciononostante, dopo l'annuncio di Meloni, la bozza ha richiesto una discussione supplementare e altre limature tra i leader di governo prima di essere approvata dal Consiglio dei ministri del 3 novembre, segno di rivalità e diversità di interessi che pure non mancano anche in una coalizione che ostenta compattezza e unità assolute.
Cosa prevede il ddl costituzionale Meloni-Casellati
Il ddl porta l'intestazione “Introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia”, e si compone di cinque articoli che modificano quattro articoli della seconda parte della Costituzione, cambiando il meccanismo elettorale e i poteri del Presidente del Consiglio dei ministri e del capo dello Stato in modo tale da mutare l'assetto della Repubblica da parlamentare a presidenziale, nella forma del premierato. Cioè del rafforzamento dei poteri del premier, eletto a suffragio universale diretto e non più nominato dal presidente della Repubblica e sottoposto al voto di fiducia delle Camere, elevandolo così in una sfera nettamente superiore al parlamento, come appunto in una repubblica presidenziale a tutti gli effetti.
L'articolo 1 abroga il potere del presidente della Repubblica di nominare senatori a vita (art. 59 della Costituzione) e in tutta evidenza è stato ispirato dal precedente della nomina di Monti da parte di Napolitano per sostituire in corsa Berlusconi durante la crisi del 2011. L'articolo 2 toglie un altro potere al capo dello Stato, che è quello di sciogliere anche una sola camera (art. 88), mentre l'articolo 5 fissa norme transitorie come la durata in carica degli attuali senatori a vita fino al termine del loro mandato e l'applicazione della legge a decorrere dal primo scioglimento delle camere dalla sua approvazione.
Gli articoli chiave sono il terzo e il quarto, e in particolare il terzo, che modifica l'articolo 92 della Carta stabilendo che: “Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri il 55 per cento dei seggi nelle Camere. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura.
Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei Ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri”.
Un premier “eletto dal popolo” con una legge truffa
Come si vede si tratta di uno stravolgimento completo dell'assetto istituzionale, dal momento che il premier sarebbe “eletto dal popolo” invece di essere nominato come adesso dal capo dello Stato, che si limiterebbe a “conferirgli” l'incarico svolgendo una funzione puramente notarile e obbligata. Gli rimarrebbe formalmente il potere di nomina dei ministri, ma è chiaro che in un braccio di ferro simile a quello del 2018, quando Mattarella si oppose alla nomina a ministro dell'euroscettico Paolo Savona anche a prezzo di una richiesta di impeachment da parte di Di Maio e della stessa Meloni, il premier cercherebbe e sicuramente otterrebbe di imporre la sua autorità nella scelta dei ministri in quanto “eletto dal popolo”, di fronte ad un capo dello Stato eletto dal parlamento.
Ad aumentare ancora i poteri del premier concorre inoltre il meccanismo elettorale maggioritario che assegna il 55% dei seggi alle sue liste, che così come l'articolo è scritto è incostituzionale, perché la Consulta ha già stabilito che occorre fissare una soglia minima di voti, altrimenti si arriverebbe all'assurdo che nel 2018 il M5S avrebbe potuto governare da solo, e lo stesso sarebbe valso per il partito della Meloni nel 2022. Il principio di rappresentatività del parlamento, già gravemente demolito dalla riduzione dei parlamentari, verrebbe definitivamente cancellato da un meccanismo maggioritario come questo ispirato palesemente alla legge fascista Acerbo e alla “legge truffa” della DC di De Gasperi, e più di recente all'Italicum di Renzi e Berlusconi.
E in ogni caso non può essere accettato che una maggioranza politica si faccia una legge elettorale su misura e la faccia diventare inamovibile fissandola nella Costituzione, che non a caso la lascia invece alla libera scelta del parlamento. Per non parlare del fatto che non c'è alcun limite al numero di mandati del premier, al contrario del principio generale dei due mandati adottato da quasi tutti gli altri paesi europei.
Il compromesso della “norma anti-ribaltone”
Con l'articolo 4 del ddl, inoltre, si modifica l'art. 94 della Costituzione che riguarda le procedure della fiducia, per istituire quella che il governo neofascista definisce una “norma anti-ribaltone”, ma che in realtà vuole essere una blindatura del premier per tutta la legislatura; anche se poi, come vedremo meglio, è il risultato di un compromesso tra le forze della maggioranza che la rende meno ferrea di quanto la Meloni avrebbe voluto. Tale norma stabilisce che in caso di sfiducia del presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica è obbligato (al contrario di adesso che ha la più ampia facoltà di scelta) a conferire l'incarico per un nuovo governo allo stesso premier sfiduciato; oppure, come unica altra alternativa allo scioglimento delle camere, ad un altro parlamentare della stessa maggioranza del premier e per attuarne gli stessi indirizzi e impegni programmatici. Sono quindi automaticamente esclusi governi “tecnici” o di maggioranze diverse da quella del governo caduto. In tal modo, ad esempio, non sarebbero stati possibili governi come quelli di Dini nel 1994, Monti nel 2011, Conte 2 nel 2019 e Draghi nel 2021.
In realtà la premier neofascista puntava ad ottenere lo scioglimento secco delle camere in caso di sfiducia del governo da parte del parlamento, così da blindarsi al potere utilizzando l'arma di ricatto dello scioglimento nei confronti dei suoi stessi alleati. Ma Salvini l'ha stoppata per non concedergli un simile potere di interdizione, e alla fine FI ha proposto la soluzione di compromesso che è entrata nella bozza finale. Dopodiché si sono messi d'accordo sulla versione ufficiale che il compromesso sarebbe stato fatto per non intaccare troppo i poteri del capo dello Stato.
La “madre di tutte le riforme” neofasciste
Comunque il compromesso non ha impedito a Meloni di esultare in conferenza stampa per quella che ha definito “la madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia”, nonché di proclamarsi “molto fiera di questa riforma, che confido che possa esserci un consenso ampio in Parlamento, che, se invece quel consenso ampio in Parlamento non dovesse esserci, sarà agli italiani che chiederemo che cosa pensano con il referendum”. Mettendo le mani avanti che se dovesse andarle male lei non si dimetterà come accadde a Renzi nel 2016.
A suo dire con questa “riforma” il suo governo neofascista intende realizzare “due grandi obiettivi”, che sono “da una parte garantire il diritto dei cittadini a decidere a chi farsi governare”, e dall'altra “garantire che chi viene scelto dal popolo possa governare con un orizzonte di legislatura, quindi garantire sostanzialmente una stabilità del governo che è una condizione sostanziale per costruire una strategia e per avere una credibilità a livello nazionale e a livello internazionale”. Ma, come hanno sottolineato la maggior parte dei giuristi e costituzionalisti, persino quelli più vicini alla premier e non ostili in linea di principio alla sua intenzione di manomettere la Costituzione, come Cassese, Violante, Mirabelli e Clementi, la “stabilità” e la “governabilità” del sistema politico non dipende dai poteri del presidente del Consiglio, che ne ha già fin troppi e in particolare la Meloni, che gode di una maggioranza schiacciante in parlamento al punto che ormai governa solo con decreti e voti di fiducia in un parlamento ridotto a suo semplice passacarte; ma dipende piuttosto dalla incapacità dei governanti borghesi e dallo scollamento dei partiti dal paese reale, sempre più personalizzati e ridotti a comitati di affari e sempre meno rappresentativi a fronte di un astensionismo che ha assunto dimensioni di massa.
Poteri simili a quelli di Mussolini
Ma Meloni tira dritto, e anzi intende accelerare l'iter della legge per arrivare alla sua prima approvazione almeno in un ramo del parlamento prima delle elezioni europee, così da poterla sventolare come un trofeo. Anche se il suo alleato e rivale Salvini reclama di pari passo anche l'approvazione del ddl sull'autonomia differenziata, e non è affatto detto tutta la complessa operazione riesca ad andare in porto per quella scadenza. Anche perché l'ambiziosa aspirante neoduce d'Italia ha dovuto già adattare il suo progetto originario di repubblica presidenziale pura, ereditato dal suo padre politico Almirante e dalla P2 di Gelli, Craxi e Berlusconi, alla scorciatoia del premierato: sia perché teme che un presidenzialismo conclamato, che richiederebbe uno stravolgimento della Costituzione ancor più radicale del premierato, difficilmente passerebbe il vaglio del referendum popolare; sia perché ha suscitato la diffidenza e l'opposizione di Salvini che non vuole regalarle un potere troppo illimitato. Anzi, diversi costituzionalisti hanno messo in rilievo il paradosso che Salvini o chi per lui avrebbe tutto da guadagnare dal compromesso sulla “norma anti-ribaltone”, poiché come premier di riserva potrebbe essere tentato di far cadere la Meloni per governare al suo posto, e senza neanche essere stato eletto dal popolo.
Comunque tutto ciò è del tutto secondario rispetto alla gravità e alla pericolosità del cuore nero di questa controriforma presidenzialista, che è l'elezione diretta del presidente del Consiglio, e che per quanto aggiustata per non inimicarsi Mattarella lasciandogli qualche potere minore e più formale che effettivo conferisce al premier, in quanto “eletto dal popolo”, poteri del tutto simili a quelli che Mussolini riuscì a farsi dare dal parlamento liberale borghese, completando la marcia su Roma con la dittatura fascista aperta pur lasciando formalmente vivere la forma parlamentare della nazione. Infatti tutti i costituzionalisti sono d'accordo nell'osservare che tali poteri non hanno riscontro in nessun'altra democrazia parlamentare.
Unire le forze per battere il disegno meloniano
E allo stesso modo di Mussolini la terza repubblica meloniana completerebbe la marcia su Roma elettorale e parlamentare dei neofascisti, certificando il completamento ufficiale del regime capitalista neofascista secondo il disegno della P2 e di Almirante. Non a caso l'unico partito dell'opposizione parlamentare che appoggia apertamente il progetto presidenzialista meloniano è IV dell'ex neoduce Matteo Renzi, che ci aveva già provato con l'Italicum bocciato dalla Consulta, e che si è dichiarato disposto a votarlo a condizione di poter entrare nella partita con le proprie proposte per “migliorarlo”, a partire dal potere secco del premier di sciogliere le Camere se sfiduciato. Gli altri partiti dell'opposizione, PD, M5S, AVS e persino Azione di Calenda, si sono invece espressi contro con varie dichiarazioni, anche se non con la dovuta fermezza e chiarezza che la pericolosità della controriforma neofascista richiederebbe. Anche perché non sono contrari per principio a qualche forma di rafforzamento dei poteri del premier, come per esempio il meccanismo della “sfiducia costruttiva” alla tedesca. E in ogni caso c'è in generale da parte dell'opposizione parlamentare una gravissima sottovalutazione della gravità e pericolosità del presidenzialismo che intende varare il governo Meloni, come risulta dalle parole dell'opportunista antioperaio leader della Cgil Landini che lo ritiene semplicemente “un diversivo per distogliere l'attenzione” (sic).
Non bisogna dare invece nessun appiglio alla premier neofascista, che si è dichiarata disposta ad “ascoltare” le proposte dell'opposizione per arrivare ad una soluzione condivisa che possa ottenere la maggioranza dei due terzi per evitare il referendum, ma salvaguardando in ogni caso l'elezione diretta del capo del governo. La strada non può essere che quella di unire tutte le forze possibili per stroncare il disegno presidenzialista meloniano. Intanto in parlamento e nelle piazze, e se necessario anche col referendum come accadde con successo nel 2016 per battere la controriforma costituzionale di Renzi.
8 novembre 2023