Dati dell'Ispettorato nazionale del lavoro
Le giovani madri costrette a lasciare il lavoro
Cresce il numero delle donne che sono costrette a licenziarsi per star dietro ai figli. È il drammatico quadro pubblicato dall’Inl (Ispettorato nazionale del lavoro): nel 2022 sono 44.669 le donne che hanno presentato le proprie dimissioni, il 72,8% del totale, perché in difficoltà nel conciliare la vita familiare con il lavoro. E di queste il 63,6% sono giovani madri, che hanno abbandonato il lavoro con la stessa motivazione: la fatica di tenere insieme l'impiego con la gestione dei figli, a fronte di un 7,1% dei padri. Per gli uomini la ragione principale è il passaggio a un'altra azienda nel 78,9% dei casi.
Un dato allarmante se si confronta con quello già preoccupante del tasso di occupazione femminile fornito da Confcommercio: in Italia le donne che lavorano sono il 48,2%, nella fascia di età tra i 15 e i 74 anni, cioè a dire che più della metà delle donne nel nostro Paese non lavora, non studia, un esercito di donne costretto nelle quattro mura domestiche. Una percentuale di undici punti inferiore della media dell'occupazione femminile stimata dalla Ue che è al 59,5%.
E al Sud questa percentuale aumenta dove le donne che lavorano sono solo il 35,5% a fronte del 64,5% che è a casa. Dai dati Svimez (l'associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) il tasso di occupazione per le donne single e senza figli al Sud è del 52,3% che scende al 41,5% nel caso di donne con figli di età scolare tra i 6 e i 17 anni, e va giù in picchiata al 37,8% per le donne con figli da 0 a 5 anni.
L'età della maggior parte delle madri dimissionarie (il 79,4%) è fra i 29-44 anni che abbandonano il lavoro con l'arrivo del primo figlio. Il rapporto dell'Inl è molto chiaro nel rilevare la responsabilità, oltre alla inadeguatezza o in alcuni casi come nel nostro Mezzogiorno, la quasi totale mancanza, di servizi come gli asili nido, atti a sollevare in parte il carico della “cura” dei figli alle lavoratrici, anche al “radicamento sociale e stereotipale della funzione di cura come prettamente femminile”. Cioè in soldoni se in famiglia arriva un figlio, e se essa non può contare sull'aiuto di parenti, special modo i nonni, la scelta di rinunciare al lavoro ricade sulla madre e non sul padre, uno “sbilanciamento di genere di notevoli proporzioni” come scritto esplicitamente dall'Inl.
Un altro sbilanciamento che emerge dai dati dell'Ispettorato è che il 93% delle donne dimissionarie sono operaie o impiegate, la causa sta nella “diversa allocazione gerarchica di uomini e donne”, scrive l'Ispettorato in un sistema “che vede le donne più presenti ai livelli medio bassi della piramide organizzativa e poco presenti nelle posizioni decisionali”.
Il lavoro per le lavoratrici madri deve essere tutelato! Esse hanno il diritto di avere un lavoro vero e a tempo pieno, a salario intero, in presenza e coperto sindacalmente. Non certo flessibile come auspicato da Susanna Camusso, ex segretaria CGIL e oggi senatrice PD, insieme alla sua collega di partito Cecilia D'Elia, nella loro proposta di emendamenti alla legge di bilancio per “prevenire” le dimissioni delle lavoratrici con “percorsi di confronto/conciliazione presso gli uffici del lavoro per definire scegliere forme di flessibilità, anche incentivando le imprese che li scelgono”.
È invece necessario, e non vi è altra strada che quella di batterci con tutte le nostre forze per la costruzione di una fitta rete di servizi sociali, sanitari e scolastici in tutto il territorio nazionale, a partire dal Mezzogiorno, in grado di tutelare il lavoro delle lavoratrici madri, e di facilitare l'entrata nel mondo del lavoro anche quell'esercito di donne che oggi sono costrette, dalla politica familistica e privatistica del governo neofascista Meloni, all'interno delle mura domestiche a supportare sulle proprie spalle la mancanza di servizi per l'infanzia, per gli anziani e le persone non autosufficienti.
13 dicembre 2023