Mai pago di vomitare calunnie contro Mao, Stalin e Lenin
L'ossessione anticomunista di Mieli
Paolo Mieli, da sessantottino pentito e anticomunista militante e ben pasciuto al servizio del regime capitalista neofascista, per guadagnarsi la ricca pagnotta svolge diligentemente il suo compito che consiste nell'attaccare e screditare il comunismo e i grandi maestri del proletariato. Lo fa quasi quotidianamente sul canale Rai Storia
della terza rete Rai, servendosi delle rubriche da lui dirette “Passato e presente” e “Correva l'anno”, dove non perde occasione per riscrivere la storia del '900 in chiave revisionista, liberale e anticomunista e attaccare in particolare Lenin, Stalin e Mao; e lo fa sistematicamente anche dalle colonne del “Corriere della Sera”, di cui è un assiduo editorialista come il suo compare sessantottino pentito, liberale e anticomunista, Ernesto Galli della Loggia.
Ne è un recente esempio il suo intervento del 23 gennaio, dove in due pagine nella sezione Cultura del quotidiano filogovernativo milanese, si serve della recensione a una cosiddetta “biografia” di Mao scritta dallo storico presso l'Università Ca' Foscari, Guido Samarani, per attaccare il grande maestro del proletariato internazionale presentandolo come un despota dedito unicamente a coltivare il suo potere personale, e per incensare viceversa i suoi avversari revisionisti e rinnegati Liu Shaoqui e Deng Xiaping.
L'assurda versione sulla difesa di Stalin da parte di Mao
In questo articolo dal titolo “L'ossessione di Mao Zedong, il dittatore era alla continua ricerca di 'deviazioni' dalla sua linea politica”, la tecnica di Mieli consiste nell'estrarre frasi dal libro recensito e nel citarne altre da parte di “storici” e sinologi internazionali, per comporre il ritratto di Mao che si è prefisso di dipingere (che lui, a scanso equivoci, chiama subito “il despota cinese
”), vantando per tale composizione non si sa quali “nuovi dettagli e considerazioni inedite” ricavate dal libro per dare una veste “storicistica neutrale” al suo velenoso attacco a Mao.
Ecco quindi che esordisce con il tipico argomento dei sessantottini borghesi trotzkisti, quale egli fu all'epoca, cioè del presunto antagonismo tra Stalin e Mao, il quale, nella visita a Mosca del dicembre 1949, “dovette accorgersi immediatamente che Stalin aveva nei suoi confronti un che di scostante
”. E subito dopo sottolinea il fatto che pure “nessuna traccia di questa sensazione emerge dai quattro documenti ufficiali che fanno riferimento a quel prolungato incontro”, come se ciò fosse la dimostrazione più lampante della presunta diffidenza di Stalin nei confronti di Mao.
Questo per introdurre il quesito sul perché allora Mao e i comunisti cinesi dopo il '56 non seguirono i revisionisti kruscioviani e difesero invece Stalin, “un uomo al quale non hanno mai ispirato fiducia
” (secondo le parole prese a prestito da un saggio della sinologa Marie-Claire Bergère) e che, ai loro occhi, “aveva la responsabilità di un certo numero di errori e di fallimenti cruenti nella condotta del movimento rivoluzionario cinese
”? Perché, si risponde Mieli con le parole dell'autore, “un giudizio troppo negativo su Stalin avrebbe inevitabilmente avuto riflessi sul suo
(di Mao, ndr) ruolo in quanto leader del partito e dello Stato
”.
Il fatto è, insiste Mieli mescolando le sue parole con quelle di Samarani, che in quel periodo divenne sempre più marcata la “tendenza
” di Mao ad una “quasi ossessiva osservazione e analisi delle tendenze politico-ideologiche che sempre più erano inclini a distaccarsi dalla sua visione dei tempi. In particolare, su come dovesse procedere la sua rivoluzione
”, promuovendo campagne di rettifica per “correggere gli errori di chiunque non si adeguasse al suo pensiero. Accompagnando il tutto, ove necessario e utile, con un sostegno esterno al partito stesso. Vale a dire facendo ricorso all’impegno delle masse laddove le resistenze politico-burocratiche interne lo richiedevano
”.
Lotta di potere o lotta di classe antirevisionista?
È evidente che tutto ciò, la lotta di Mao alle deviazioni revisioniste borghesi di tipo kruscioviano nel Partito e il ricorso al proletariato e alle masse per smascherarle e sconfiggerle, così come la frase (di Samarani, attribuita a Mao, contro le tesi culturali revisioniste di Hu Feng), “il nostro regime non consente a nessun controrivoluzionario di avere libertà di parola, permette questa libertà solo all’interno del popolo”, sono per Mieli altrettante prove del dispotismo personale di Mao, invece che conferme della giusta linea di classe marxista-leninista di Mao e della sua inflessibile e coerente difesa della rivoluzione socialista dalla borghesia annidata ai vertici del PCC.
Infatti, sviluppando ulteriormente questa sua tesi liberale e anticomunista, Mieli rievoca l'VIII Congresso del PCC del settembre 1956 in cui il revisionista Liu Shaoqui teorizzò che il contrasto tra proletariato e borghesia fosse “sostanzialmente risolto
” e che la contraddizione principale sarebbe stata da allora in poi non la lotta di classe ma quella “tra le relazioni socialiste di produzione relativamente avanzate e le forze di produzione arretrate
”, mentre il suo compare revisionista Chen Yun “si oppose con forza alle campagne politiche che, a suo giudizio, interferivano con la produzione economica
”; quello stesso Chen Yun le cui tesi “avrebbero costituito il nucleo portante delle riforme avviate in Cina dopo la morte di Mao
”. “Il che
– chiosa sornionamente Mieli - spiega molte delle cose che accaddero nei decenni successivi
”.
Insomma, Per Mieli, la lotta di classe contro il revisionismo per impedire il ritorno della borghesia al potere in Cina come era già successo in URSS, alla quale Mao chiamava tutto il proletariato, i giovani e le masse a partecipare in prima fila, è vista come un suo pretesto per mantenersi al potere a tutti i costi, compreso il ricorso a “quel grande sconvolgimento del 1966 che avrebbe preso il nome di Rivoluzione culturale
”, con la quale “il regime comunista cinese conobbe l’apice della tragedia
”, e che “va ricordato, sedusse una gran parte della gioventù occidentale dell’epoca
” (lui compreso, anche se si guarda bene dal confessarlo). “Ma l'incubo
– conclude Mieli rivelando alfine dove voleva andare a parare il suo arzigogolato attacco a Mao e al comunismo - si era intravisto già molto prima. Negli anni immediatamente successivi all’uscita di scena di Stalin, quelli in cui la Cina avrebbe potuto prendere la via indicata, sotto il profilo culturale da Hu Feng, sotto quello politico ed economico, da Chen Yun e, più timidamente, da Liu Shaoqi. Ma, per risollevarsi, dovette attendere gli Anni Ottanta, la stagione di Deng Xiaoping
”.
Una squallida carriera da pennivendolo anticomunista
Non pago di ciò, a distanza di una settimana, sempre sulle pagine culturali del CdS
, ha scritto un altro intervento anticomunista (“Il fondatore imbalsamato”), prendendosela stavolta con Lenin. Stesso intento malevolo e denigratorio dell'articolo su Mao, anche se in questo caso ha preferito non attaccare frontalmente l'artefice della Rivoluzione d'Ottobre e creatore con l'URSS del primo stato socialista della storia, ma più furbescamente attaccandone il cosiddetto “culto
” postumo del corpo conservato nel mausoleo sulla Piazza Rossa e delle molte statue e vie a lui intitolate ancora esistenti malgrado tutto negli ex paesi socialisti. Un modo truffaldino per evitare di confrontarsi con questo gigante del pensiero e dell'azione e screditarne subdolamente la memoria, nella ricorrenza del Centenario della sua scomparsa celebrata degnamente dal PMLI e da “Il Bolscevico”.
Questi attacchi velenosi a Mao, Stalin e Lenin, malamente dissimulati dietro un atteggiamento da “ricercatore storico imparziale”, mostrano fino a che punto Mieli si sia venduto al sistema capitalista neofascista, lui che nel '68 sfoggiava idee maoiste, aderiva a Potere operaio e si vantava di fare da tramite tra i movimenti studenteschi e l'Espresso
di Scalfari per il quale scriveva, sotto la supervisione di Mario Scialoja, amico di Piperno e Scalzone, sulla sua rubrica fissa “Diario extraparlamentare”: “Svolgevo insomma questo ruolo di cinghia di trasmissione tra il movimento e L'Espresso , cui portavo qualsiasi battito d'ali
”, scriveva infatti su MicroMega
del gennaio 2018 in celebrazione del cinquantenario del '68, vantandosi del suo ruolo di apprendista stregone e manipolatore del movimento, come l'aver contribuito alla nascita e allo sviluppo del gruppo trotzkista del Manifesto
.
Sulla sua squallida carriera e di altri “rivoluzionari” pentiti e pennivendoli anticomunisti, come lui al servizio del regime capitalista neofascista, ha detto parole definitive il Segretario generale di PMLI, Giovanni Scuderi, nel suo discorso del 2001 per il XXV Anniversario della morte di Mao, sul tema “Mao e le due culture”: “In questa canea anticomunista ultimamente si distingue Paolo Mieli, ex militante del gruppo "ultrasinistra" e filoterrorista Potere operaio e attuale direttore editoriale della Rizzoli-Corriere della sera, che anziché incentrare i suoi "studi" sui misfatti dei fascisti e dei nazisti impiega il suo tempo a calunniare il socialismo, per dimostrare che tutto il male viene da esso e non dal fascismo, dal nazismo e dal capitalismo.
È inevitabile che gli "ultrasinistri" finiscano a destra. Ne abbiamo visti tanti fare questa parabola e altri ne vedremo anche nel prossimo futuro. Succede sempre così quando un'ondata rivoluzionaria defluisce o quando gli agenti della borghesia infiltrati nei movimenti rivoluzionari esauriscono la loro funzione.”
20 marzo 2024