A chi giova il welfare aziendale?
È un grimaldello per smantellare il welfare pubblico sostenuto e gestito dallo Stato. Se ne avvantaggiano le aziende, le società assicurative e finanziarie, la sanità privata. Anche i sindacati confederali ne traggono vantaggio attraverso gli enti bilaterali. Ci rimettono i lavoratori con quote di salario “differito” anziché in busta paga, e costretti a pagare due volte sanità e previdenza

Prima di ogni altra cosa è bene specificare che cosa s'intende per welfare. Trattandosi di una parola inglese, uno dei tanti termini di questa lingua che vengono usati, e spesso abusati, anche nel nostro Paese, la traduzione letterale (benessere) non ne dà il suo reale significato. Nell'uso comune con questa singola parola s'intende quell'insieme di prestazioni che servono a garantire, almeno in parte, l'istruzione, le spese sanitarie, la previdenza, il sostegno al lavoro o alla mancanza di esso, ossia quello che viene chiamato anche “Stato sociale”.
In Italia, e non solo, sopratutto a partire dal secondo dopoguerra, il welfare è diventato sempre più esteso, per molteplici motivi. Le pressioni, le lotte e le rivendicazioni del movimento operaio, la necessità di attenuare le forti diseguaglianze che potevano acuire le tensioni sociali, la possibilità del sistema capitalistico di poter mettere in campo delle risorse in una fase economica favorevole. Del resto le democrazie borghesi occidentali dovevano in qualche modo sostenere delle politiche sociali più sostanziose rispetto al passato, visto che nel “campo avverso” i paesi socialisti mettevano a disposizione dei lavoratori un sistema egualitario che garantiva lavoro, casa, cure mediche, scuola e tutto quello che serviva alla popolazione.

Welfare sociale, fiscale e aziendale
In Italia la strada intrapresa nel passato è stata sopratutto quella del welfare sociale, ovvero dell'intervento diretto dello Stato con l'intento di garantire servizi universalistici, cioè disponibili per tutti, indistintamente. Accanto al welfare sociale però ce ne sono altri, e più precisamente quello fiscale e quello aziendale. Per fiscale s'intendono misure come detrazioni, deduzioni e bonus, cioè quelle agevolazioni che servono a favorire particolari settori di popolazione. Quello aziendale invece è erogato appunto dalle aziende, sia in maniera unilaterale oppure derivante dalla contrattazione tra le parti. Certe volte questi due tipi d'intervento si sovrappongono. Un esempio calzante sono i benefit elargiti dalle aziende, che non vengono tassati o tassati in misura minore, perciò l'intervento è sia fiscale (detassazione) sia aziendale e risulta gestita in ambito occupazionale e non dallo Stato.
Se a prevalere fu il welfare sociale in Italia non è mancato nemmeno quello aziendale. Tra i casi più conosciuti ricordiamo quelli di Olivetti a Ivrea e di Marzotto a Valdagno che nelle aziende omonime lo usarono massicciamente. Si arrivò a costruire per i dipendenti e per le città dove si trovavano le fabbriche abitazioni, asili, scuole materne e case di riposo, teatri, impianti sportivi e palestre, piscine, istituti tecnici, scuole di musica, dopolavoro ricreativo e sportivo, soggiorni climatici, estivi ed invernali, per i dipendenti e le loro famiglie. Ma si trattava di casi isolati e riservati a pochissime grandi aziende, erano interventi unilaterali, un welfare paternalistico, che voleva trasmettere l'idea del “buon padrone” e al contempo allontanare gli operai dai sindacati e dalla lotta di classe. In quel caso però lo Stato stava alla finestra e le organizzazioni dei lavoratori ne erano escluse e anzi lo guardavano con sospetto.
Quello che ha preso campo negli ultimi decenni ha invece caratteristiche del tutto diverse. Anzitutto perché non è più circoscritto ad alcune grandi aziende, ma si applica a tutte le lavoratrici e lavoratori essendo regolamentato e istituzionalizzato dagli stessi contratti nazionali di lavoro, vede il protagonismo di attori esterni quali i privati, i sindacati confederali sono parte attiva e partecipano essi stessi alla sua gestione attraverso gli enti bilaterali, mentre lo Stato lo incoraggia attraverso gli interventi legislativi dei governi, siano essi di “centro-destra” che “centrosinistra”.
Quando si parla welfare aziendale si pensa subito a previdenza e sanità, che rimangono gli ambiti più importanti, ma può comprendere una serie di benefit che vanno dalla mensa ai buoni pasto, buoni spesa, contributi allo studio, fino a convenzioni con strutture per il tempo libero e lo sport (palestre, piscine). Il campo d'azione dei privati può spaziare in tutti i settori. Come si può facilmente intuire non si tratta di una questione di poco conto, ma del passaggio di competenze prima quasi esclusive dello Stato ai privati e della gestione aziendalistica perfino della vita privata dei cittadini e dei lavoratori in particolare.

Meno Stato, più privato
I numeri parlano chiaro riguardo al disimpegno dello Stato. Le risorse pubbliche destinate alla sanità, ad esempio, sono in diminuzione da molti anni; tutti i governi, di ogni colore, hanno tagliato risorse o non finanziato adeguatamente il Servizio Sanitario Nazionale, portando la spesa del nostro Paese sotto la media Europea, davanti solo ad alcuni paesi dell’Europa meridionale (Portogallo, Grecia) e a quelli dell’Europa dell’Est. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: aumento dei ticket, ridimensionamento dei farmaci convenzionati, mancata assistenza domiciliare agli anziani, liste di attesa interminabili, tagli al personale, il che ha portato la spesa sanitaria a incidere pesantemente sul bilancio delle famiglie, sempre più costrette a rivolgersi ai privati. Lo stesso vale per la previdenza. Le ripetute controriforme pensionistiche, da quella Amato fino alla Fornero, hanno impoverito le ex lavoratrici e lavoratori e ancor di più impoveriranno i pensionati del futuro.
Si è cercato di giustificare queste “riforme” e i ripetuti tagli alla spesa pubblica con l'insostenibilità del sistema di welfare sociale messo alle corde dal calo demografico, dall'allungamento della vita e dalla richiesta di maggiori cure per la vecchiaia. Ma anziché rafforzare la rete di welfare pubblico o quella dei servizi sostenuti da risorse pubbliche, si è preferito utilizzare logiche e strumenti di mercato potenziando i trasferimenti monetari destinati alle famiglie, favorendo lo sviluppo del welfare aziendale e incentivando l’ingresso delle assicurazioni e delle grandi società di capitali – spesso straniere – in questo settore.
Allo Stato conviene più agire attraverso trasferimenti economici che intervenendo in maniera strutturale. Anziché investire in asili nido con adeguato personale ecco bonus bebè e bonus nido, anziché un esteso piano di edilizia popolare, bonus affitti e bonus bollette. E poi bonus 80 euro, taglio del cuneo fiscale, interventi quest'ultimi che vanno a favorire le aziende perché invece dei capitalisti sarà la collettività a sostenere gli aumenti (seppur miseri) in busta paga. Bonus che servono anche per carpire consenso elettorale.
E poi c'è il welfare aziendale, che a sentire il governo, i padroni e i sindacati confederali, sarebbe un valido e conveniente strumento per soddisfare i bisogni di lavoratrici e lavoratori. Ma stanno così le cose? A chi giova veramente il welfare aziendale? Pmoci una semplice domanda: se Il welfare aziendale è un vero e proprio mercato dove non agisce lo Stato, ma operano grandi aziende, assicurazioni, una serie di soggetti privati che riescono a lucrare su servizi come sanità, scuola, assistenza agli anziani, su chi guadagnano? Sulle lavoratrici e i lavoratori, la risposta è ovvia.
Dello Stato abbiamo già detto, taglia i costi della spesa pubblica, che ogni anno occupano un posto preminente nella legge di Bilancio, per contenere l'enorme debito pubblico, dirottare sostegni economici alle aziende e ai privati, elargire qualche mancetta elettorale. Si taglia la scuola pubblica e si sostiene maggiormente quella privata, si azzoppa la sanità pubblica per favorire quella privata. Proprio in questi giorni è scoppiato il caso del sottosegretario alla Salute e deputato di Fratelli d’Italia Marcello Gemmato, che invece di lavorare per migliorare la sanità pubblica, pubblicizza la clinica privata di cui è socio spingendo sul fatto che rivolgendosi alla sua struttura “non si dovranno attendere i tempi lunghi del sistema sanitario pubblico”. Ecco chi ci guadagna!

Uno strumento da cui traggono vantaggio le aziende
I guadagni per le aziende sono molteplici, sia di tipo economico che di “raffreddamento” dei conflitti e contraddizioni. Sui servizi di welfare aziendale erogati come fringe benefit (considerati come remunerazione aggiuntiva) non c'è alcuna tassazione, con limite di spesa, per il 2024, di 2mila euro per ogni singolo. Se erogati sotto forma di flexible benefit (considerata remunerazione complementare, prevista dai CCNL o da accordi sindacali) non è previsto il pagamento delle tasse tranne per la previdenza complementare e le mutue sanitarie, con limiti rispettivamente pari a 5.164,57 euro e 3.615,20 euro. La tendenza però è ad aumentare considerevolmente questi tetti. Le grandi aziende e i grandi gruppi non di rado ci guadagnano due volte, perché sono anche soci delle società che gestiscono i servizi del welfare aziendale.
Ma c'è un altro vantaggio per le aziende, più “nascosto” e sottile, ma per certi versi anche più pericoloso. È quello della fidelizzazione del lavoratore, ossia lo stringe in un legame corporativo depotenziando lo spirito di classe, spingendolo a collaborare alla produttività aziendale e convincendolo che gli interessi padronali coincidono con i propri. Gli stessi sindacati, attraverso gli enti bilaterali, vanno a gestire i soldi del welfare aziendale assieme a quella che dovrebbe essere la controparte padronale, a discapito della rappresentanza degli interessi dei lavoratori, quindi anche Cgil, Cisl e Uil hanno il loro interesse economico nella sua diffusione.
Non è quindi un caso che il welfare aziendale sia ormai il protagonista di molti rinnovi contrattuali. Un recente rapporto su previdenza integrativa e enti bilaterali contava 536 fondi previdenziali con un giro di oltre 100 miliardi di euro (6% del Pil) e 260 fondi di sanità integrativa. Enti privati difficilmente controllabili, in cui risultano impiegate più di 10 mila persone. Tra questi molti sono sindacalisti o ex sindacalisti. Il sindacato da ciò incassa i gettoni di presenza per la partecipazione ai Consigli d’Amministrazione o di Gestione, che ammontano a milioni di euro all'anno.
Consideriamo inoltre come l'inserimento del welfare aziendale e la sua continua espansione quasi sempre avviene a discapito degli aumenti salariali reali, in particolare quello sullo “stipendio minimo” o “minimo tabellare”, la parte più importante della retribuzione stabilita dal CCNL sulla cui base si calcolano tutti gli altri elementi. In alcuni contratti il lavoratore non ha nemmeno la possibilità di scegliere il pagamento in contanti, ma è obbligato ad accettare il welfare altrimenti perde tutto o in parte l'aumento. È vero che il lavoratore usufruisce di una tassazione agevolata e se sceglie di convertire il premio di risultato in welfare aziendale ottiene la sua deduzione (non viene considerato nel cumulo del reddito), ma i vantaggi si fermano qui, quelli più sostanziali vanno alle aziende.
Non lo diciamo solo noi marxisti-leninisti che il welfare aziendale giova sopratutto ai padroni, ma lo affermano anche chi fa i loro interessi. Sul siti dei più noti studi di consulenza del lavoro (quindi al servizio delle aziende) si possono leggere messaggi esplicativi di questo tipo: “Cosa ci guadagna l’azienda con il welfare? Un incremento della produttività della forza lavoro per i vantaggi ai propri lavoratori derivanti dall’erogazione di servizi personalizzabili; dipendenti più motivati e sereni; riduce l’assenteismo sul posto di lavoro; un vantaggio competitivo nei confronti delle aziende che non li concedono; la totale detassazione o parziale degli importi investiti”.
Il “vantaggio competitivo” è un punto che apre un altro capitolo. Le diseguaglianze che il welfare aziendale, anziché ridurre, va ad ampliare, non solo tra le aziende, ma tra i lavoratori. Anche se abbiamo detto che oramai stiamo andando verso l'estensione del welfare aziendale nelle piccole aziende, la sua applicazione diversificata produce un aumento della forbice economica tra i lavoratori: tra quelli dei grossi gruppi industriali e quelli delle micro imprese, tra il Nord e il Sud, tra i settori dell'economia trainanti e in espansione e quelli in difficoltà e in crisi, tra gli inquadramenti di alto livello e quelli bassi.
Il tema è molto ampio, qui abbiamo trattato solo alcuni punti. Sono tuttavia più che sufficienti per capire che si tratta di due impostazioni e due modelli completamente diversi. Scegliendo il welfare aziendale lo Stato automaticamente disinveste sul welfare pubblico, anche perché avrà meno entrate per la detassazione e le agevolazioni verso le imprese e, in misura minore, verso i lavoratori, ma con una sostanziale differenza. Le prime oltre al risparmio economico potranno avere dipendenti più fedeli e meno conflittuali, stipulare accordi vantaggiosi con le assicurazioni e i fondi finanziari, mentre le lavoratrici e i lavoratori pagheranno due volte perché senza copertura assicurativa sarà difficile accedere alla sanità, così come senza pensione integrativa sarà più difficile avere redditi durante la vecchiaia, arricchendo sanità e finanza privata. Per contro questa detassazione finisce per essere pagata dall'intera collettività invece che dai padroni.

13 novembre 2024