La manovra antipopolare ignora l'emergenza salariale e beffa lavoratori e pensionati
Per il governo neofascista Meloni quella della riduzione delle tasse è una partita importante, sulla quale ha investito il grosso delle scarse risorse, ritagliate all'interno della gabbia del Piano strutturale di bilancio da 13 miliardi l'anno di tagli che ha accettato dalla Ue, per carpire il consenso alla manovra antipopolare da parte dei lavoratori dipendenti e dei ceti medi. E ciò attraverso la riconferma, anche per il prossimo triennio, di misure già concesse “una tantum” nel 2024: come il taglio del cuneo fiscale per i redditi da lavoro dipendente e la riduzione delle aliquote Irpef da quattro a tre, che insieme valgono circa il 60% delle spese previste in manovra per il 2025 (17,6 miliardi su un totale di 28,5). Con l'aggiunta della beffa secondo cui le coperture sarebbero venute dalla tassazione degli extraprofitti delle banche, delle compagnie d'assicurazione, delle industrie farmaceutiche e dei fabbricanti di armi come Leonardo Spa.
“Colpisce i forti e fa felici i pescatori e gli operai che si alzano alle 4 di mattina”, aveva sparato infatti in conferenza stampa il ministro dell'Economia Giorgetti. Mentre a sua volta la premier neofascista, nel dichiararsi “molto soddisfatta della manovra”, ne sottolineava la concentrazione delle risorse “sui redditi, sui salari, sul lavoro, sul sostegno alle imprese, sulla salute dei cittadini, sulla famiglia, senza aumentare le tasse per i cittadini, tenendo i conti in ordine”. Una panacea per lavoratori e masse popolari, stando alle loro ineffabili facce toste.
In realtà le coperture per la riduzione del cuneo e delle tasse provengono per ben 9 miliardi da nuovo debito (che graverà sulle giovani generazioni) e per 5,6 miliardi dal fondo già esistente per la “riforma fiscale”, e solo per la parte residua dalla tassazione di banche e assicurazioni, a parte qualcosa anche dai giochi d'azzardo. Che poi non è nemmeno una vera tassazione dei loro giganteschi profitti realizzati in questi anni, senza contare che Giorgetti si è perso per strada le roboanti promesse di tassare quelli dell'industria farmaceutica e delle armi. I 2,5 miliardi nel 2025 e gli altri 1,5 nel 2026 chiesti alle banche, infatti, non sono altro che crediti d'imposta che gli istituti di credito accettano “volontariamente” di incassare tra due anni: in sostanza un prestito biennale allo Stato che sarà restituito tra due anni senza interessi. Una farsa, insomma, come del resto quella degli 1,8 miliardi di gettito in 4 anni (1 miliardo nel 2025, con effetto retroattivo) attesi dalle compagnie d'assicurazione, rendendo annuale (e non una tantum alla scadenza) l'imposta di bollo del 2 per mille sui premi versati per le polizze vita: soldi che quindi saranno pagati dagli assicurati e non dalle compagnie, che si limiteranno a fare da sostituto d'imposta.
Zero aumenti nel 2025 ai salari medio-bassi, segnali di resa agli evasori
Per i lavoratori dipendenti la riduzione del cuneo fiscale, ovvero la detassazione dei contributi previdenziali fino a 35 mila euro di reddito Irpef, viene trasformata adesso in un meccanismo a tre fasce, con un bonus monetario esentasse fino a 20 mila euro di reddito (calcolato a sua volta in percentuale su tre sotto scaglioni), una detrazione fissa da 1.000 euro per i redditi tra 32 mila a 35 mila, e la stessa detrazione a calare per i redditi fino a 40 mila euro. In sostanza l'anno prossimo i lavoratori entro 35 mila euro non prenderanno un euro in più rispetto a ora. Anzi paradossalmente, per effetto del nuovo meccanismo, una parte potrebbero avere addirittura una perdita. A guadagnare qualcosa saranno solo gli 1,3 milioni di lavoratori con redditi tra i 35 e i 40 mila euro, con aumenti di 83 euro lordi al mese per chi guadagna 35 mila euro, e a calare fino a 38 euro per chi ne prende 40 mila.
Il governo ha inserito anche una stretta sulle detrazioni per carichi familiari, tra cui un vincolo “anti bamboccioni” che esclude i figli sopra i 30 anni che non siano disabili, e i figli residenti all'estero di genitori non cittadini italiani o della Ue. Nel primo caso saranno penalizzate tante famiglie che usufruiscono della detrazione per figli maggiorenni con disagi di natura psichica, magari non riconosciuti come disabilità ma disabilitanti di fatto. Il secondo vincolo ha un chiaro intento discriminatorio di stampo razzista rivolto contro i lavoratori immigrati in Italia. Così come del resto l'esclusione dal mussoliniano “bonus nuove nascite” (1.000 euro per ogni nuovo figlio nato o adottato a partire dal 2025 per le famiglie con Isee fino a 40 mila euro) delle donne straniere alle quali è riconosciuta la protezione internazionale. Nonché l'esclusione dalla riduzione della quota contributiva delle lavoratrici madri con almeno due figli, se hanno un contratto a termine e rapporto di lavoro domestico, vale a dire di assistenza agli anziani, che pure ne usufruivano con la scorsa legge di Bilancio.
Nel 2025 viene reso “strutturale” per il prossimo triennio anche l'accorpamento al 23% delle prime due aliquote Irpef per il sistema a tre scaglioni già applicato nel 2024; e cioè 23% fino a 28 mila euro, 35% tra 28 e 50 mila euro, e 43% oltre 50 mila euro di reddito annuo lordo. La misura costa 4,8 miliardi per il 2025; 5,5 nel 2026 e 5,2 nel 2027: un altro passo avanti verso l'abolizione definitiva del principio costituzionale di progressività impositiva e l'adozione per tutti della tassa piatta unica fatta su misura per i ricchi e gli evasori. E' significativo che con questa manovra il governo riduca del 1,3% lo stanziamento per la “tutela della finanza pubblica nel 2025”, e del 1,6% nel triennio (vedi tabella): un chiaro segnale agli evasori, tant'è che la manovra non mette a bilancio per il periodo 2025-2027 aumenti significativi delle imposte provenienti da “attività di accertamento e controllo”.
Cuneo fiscale ed emergenza salariale
La riduzione del cuneo fiscale, già adottata da Draghi e ora trasformata in un sistema di bonus e detrazioni e che vale 12,8 miliardi per il 2025, è emblematica della politica demagogica del governo Meloni verso i lavoratori e la questione salariale. Essa non risolve che in minima parte il grave e annoso problema dei bassi salari e della loro forte erosione a causa dell'inflazione degli ultimi anni, gli unici ad aver arretrato in Europa.
Secondo i dati presentati recentemente dal presidente della Fondazione Di Vittorio, Francesco Sinopoli, “l'Italia è maglia nera quanto ad aumenti salariali” tra i paesi industrializzati dell'Ocse: “dal 1990 al 2020 in Italia il potere d’acquisto è calato del 2,9% contro un aumento medio del 18,4%, e del 22,6% in area Euro. La riduzione del cuneo potrà frenare solo in parte questa tendenza, visto che nel periodo 2021-2029 le proiezioni danno una perdita salariale di oltre 25 mila euro del salario medio, coperta solo per il 40% dagli effetti del taglio contributivo. “L’aumento dell’occupazione ha paradossalmente abbassato i salari: ci sono più posti precari e part time e in settori a basso valore aggiunto”, sottolinea Sinopoli.
Neanche le cifre stanziate in bilancio, di cui si vanta il governo per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici, 700 milioni per i contratti 2025-2027, e i pochi spiccioli in più al mese per portare dal 5,78% già in vigore al 6% l'aumento in busta paga per i contratti 2022-2024 (peraltro compensate in bilancio dalla riduzione della spesa dei ministeri per “acquisto di beni e servizi”), potranno certamente cambiare questo vergognoso andazzo. Nelle motivazioni dello sciopero generale del 29 novembre, Cgil e Uil denunciano infatti oltre 10 punti percentuali di scarto con l'inflazione, arrivata a oltre il 16%. Lo stesso ministro Zangrillo ha ammesso che per rimborsare tutta la perdita degli stipendi pubblici dovuta all'inflazione sarebbero serviti 32 miliardi.
La truffa della politica decontributiva
E quel che è ancor peggio, la politica degli sgravi fiscali e contributivi del governo neofascista, per eludere la questione salariale a vantaggio suo e dei padroni, saranno gli stessi lavoratori a pagarla con gli interessi attraverso corrispondenti tagli alla previdenza, all'assistenza e ai servizi pubblici e sociali. Nel numero scorso abbiamo già parlato dei robusti tagli lineari alla spesa di tutti i ministeri e degli Enti locali, per 12 miliardi complessivi nel triennio. Che in realtà ammontano a ben di più, se si aggiungono anche i tagli dovuti al “taglia e cuci” dei rifinanziamenti, definanziamenti e riprogrammazioni dei vari capitoli di spesa. Non per nulla la legge di Bilancio riduce di circa 30 miliardi la spesa totale nel 2025 rispetto al 2024, scendendo come risulta dalla tabella da 1.229,7 miliardi a 1.199,4 miliardi (-2,5%).
Certo, pesano non poco in questo calo i 5,5 miliardi in meno nel 2025 di incentivi alla competitività delle imprese (-6,7% nel 2025 e -40% nel triennio, che pure ricevono altri tipi di incentivi e decontribuzioni), ma contano molto di più i 14,4 miliardi di buco nei conti previdenziali previsti nel 2025 (più altri 8,8 nel 2026 e 3,3 nel 2027): un taglio del 10,6% (e del 18,9% nel triennio) al bilancio dell'Inps sul quale ha acceso i riflettori la stessa Banca d'Italia, causato appunto dalla politica governativa delle decontribuzioni, che ricadrà inevitabilmente sugli stessi lavoratori in termini di minori prestazioni previdenziali e assistenziali e servizi sociali.
Solo pochi spiccioli per le pensioni
Se ne vedono chiaramente gli effetti in manovra sul capitolo pensioni, e più ancora se ne vedranno nei prossimi anni. Altro che “superamento” della Fornero! in manovra ci sono appena 400 milioni in più nel 2025, quel tanto che bastava per ripristinare la perequazione delle pensioni parzialmente bloccate quest'anno e confermare le misure della legge precedente: Quota 103, con la possibilità di andare in pensione anticipata con 62 anni di età e 41 di contributi versati, ma solo con il più penalizzante sistema contributivo; Ape sociale, che consente di andare in pensione anticipata a 63 anni di età e 30 di contributi ad alcune categorie di lavoratori svantaggiati, e a 63 anni di età e 36 di contributi a lavoratori di attività usuranti; Opzione donna, che consente alle lavoratrici di accedere al pensionamento anticipato con 35 anni di contributi e 61 anni di età, ridotti a 60 per le mamme con un figlio e a 59 se hanno più figli (secondo la solita discriminante mussoliniana della “prolificità” voluta dappertutto dalla Meloni), oppure alle licenziate o dipendenti di aziende in crisi: tutte opzioni usate comunque solo da poche migliaia di lavoratrici e lavoratori ciascuna, anche per via delle forti penalizzazioni economiche, oltre che per le tante condizioni richieste.
In compenso il governo rinnova, aumentandolo, il cosiddetto bonus Maroni per incentivare il rinvio della pensione a chi ha già maturato i requisiti, che finora era stato poco richiesto perché offriva solo una maggiorazione del 10%, pari ai contributi versati; e soprattutto fa decadere l'obbligo per i dipendenti pubblici di andare in pensione al raggiungimento dell'età massima della propria categoria, che ora potranno restare al lavoro fino a 70 anni: misura questa che serve chiaramente da apripista ad un prossimo aumento dell'età pensionabile per tutti.
Ignorati i problemi delle lavoratrici discontinue e dei giovani precari
C'è poi la ridicola elemosina di 3,2 euro al mese per le pensioni minime, che salgono da 614,7 a 619,9 euro, fatta più che altro per accontentare FI in quanto l'aumento delle minime era una vecchia promessa elettorale di Berlusconi. Anche se ci sarebbe da dire che si tratta prevalentemente di pensioni di artigiani e commercianti che non hanno versato i contributi, mentre il governo non concede un euro di aumento alle pensioni contributive più basse, in gran parte di lavoratrici che hanno subito il part time involontario o versato meno contributi per la cura dei figli e altre cause familiari.
Per non parlare del problema delle pensioni per i giovani falcidiate in anticipo dal precariato, che il governo finge di ignorare anche stavolta. Anzi, no: c'è un emendamento in commissione Bilancio alla Camera, a firma Rizzetto (FdI) e Nisini (Lega), per riaprire un semestre di “silenzio-assenso” per regalare ai fondi privati il Tfr dei lavoratori giovani e precari che non effettuano la scelta se tenerlo in azienda o destinarlo ai fondi pensione, visto che questi ultimi piangono miseria perché solo un lavoratore su tre li usa, e solo un precario su quattro ha fatto versamenti nel 2023.
Infine, il governo si vanta di non aver riproposto in questa manovra il blocco della perequazione all'inflazione delle pensioni superiori a quattro volte il minimo, ossia 2.460 euro lordi mensili, stanziando a copertura 290 milioni per il 2025. Bontà sua, ma non è un aumento, bensì un atto dovuto. E comunque queste pensioni, non da fame ma certo neanche da ricchi, non recupereranno più i soldi persi nel 2024 con la precedente manovra. Senza contare che il blocco rimane per i pensionati all'estero, con un taglio di 13,3 milioni dai loro assegni.
27 novembre 2024