Cop 29 a Baku in Azerbaijan
I Paesi in via di sviluppo chiedono 1.300 miliardi e ne ottengono appena 300
I combustibili fossili permangono. Meloni sostiene il nucleare
Dopo Dubai, la conferenza dell'ONU sul clima approda in un altro Paese votato al petrolio. L'Azerbaijan, piccolo Paese ex-sovietico del Caucaso oggi fedele a Mosca, con la Russia sotto sanzioni è diventato il principale fornitore di gas all’Europa. Attualmente esporta l’80% delle sue fonti fossili, petrolio e gas, che il suo presidente Ilham Aliyev in carica da venti anni definisce un “dono di Dio” al punto di aver già disposto un consistente aumento della produzione entro il 2027 per esaudire le richieste dell’UE che vorrebbe importare 20 miliardi di metri cubi di gas azero all’anno. Eppure, lo stesso Aliyev e l'attuale ministro dell'ambiente Babayev che non a caso per 25 anni è stato un dirigente della Socar, l'azienda petrolifera statale azera, anche il suo Paese punterebbe sul “green” promettendo di generare il 40% del fabbisogno energetico nazionale con le rinnovabili entro il 2030.
Una conferenza incentrata sui finanziamenti
Con queste premesse – e senza particolari speranze degli ambientalisti - si è aperta la COP 29 di Baku i cui tredici giorni di negoziati sono stati incentrati sul tema della finanza climatica con un tira e molla continuo sulle cifre di aggiornamento degli obiettivi economici fissati a Copenhagen nel 2009.
Si trattava insomma, in poche parole, di ridefinire quei 100 miliardi di dollari all'anno utili a finanziare le azioni di abbattimento delle emissioni e di adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo stimati appunto quindici anni fa e raggiunti solo nel 2022, e che in larga parte finora sono stati utilizzati più per ripulire l'immagine delle aziende energivore che a diminuire effettivamente il rischio climatico.
Una cifra che oggi a causa dell'escalation esponenziale di criticità climatiche è irrisoria, e ridefinita delle Nazioni Unite a settemila miliardi di dollari, 70 volte tanto.
A Baku rilanciato l'utilizzo delle fonti fossili
In questa COP la questione finanziaria ha sostanzialmente escluso dal dibattito lo stop all'estrazione e all'utilizzo delle fonti fossili, al punto che si è spacciato per “rivoluzionario” un banale impegno volontario, naturalmente senza vincoli, da parte di Regno Unito, Canada, Francia, Germania ed Australia, di non aprire mai più centrali a carbone. Fra l'altro a Baku, l'unica a chiedere l'abbandono completo delle fonti fossili, in maniera definitiva e senza scappatoie, è stata l'Alleanza delle Piccole Isole Stato (AOSIS), Paesi che rischiano la loro stessa esistenza dall'intensificarsi dei fenomeni meteorologici estremi direttamente connessi al riscaldamento globale.
Il plauso per questo colossale arretramento per le sorti del nostro pianeta, che parallelamente significa anche illimitata libertà di inquinare e profitti per i petro-Stati, va all’Arabia Saudita, loro capofila, che è riuscita a far togliere definitivamente dal documento ogni riferimento anche puramente nominale alle fonti fossili.
Una miseria ai Paesi più colpiti dalle catastrofi climatiche
In estrema sintesi, nel documento finale stavolta non è stato partorito nemmeno il solito “topolino”. Ciò che determina senza appelli il fallimento del summit è infatti la distanza disarmante fra l'offerta dei Paesi sviluppati — Ue, Gran Bretagna, Usa,
Canada, Australia, Giappone, Nuova Zelanda — che hanno messo sul tavolo un pacchetto da 300 miliardi di dollari all’anno (greenwashing incluso), tra finanza pubblica e privata, e la richiesta iniziale dei Paesi in via di sviluppo (Cina incredibilmente ritenuta ancora tale e pertanto inclusa) che ne chiedevano 1.300, tutti pubblici e a fondo perduto per affrontare gli effetti della crisi climatica e ridurre le proprie emissioni senza aumentare il loro debito.
Peraltro i trecento miliardi sulla carta arriveranno entro il 2035, e non si sa ancora come, poiché la provenienza non è stata volutamente definita, lasciando spazio solo a impegni vaghi e non vincolanti.
Il portavoce dell’African Group, Ali Mohamed, ha bocciato la proposta finale definendola “una barzelletta”, mentre i Paesi del sud del mondo hanno definito compattamente la COP di Baku, “una delle peggiori della storia”. L’alleanza dei piccoli Stati insulari e il gruppo che riunisce i 45 Paesi meno sviluppati a un certo punto hanno lasciato le stanze negoziali sbattendo la porta. “Non abbiamo alcuna garanzia che la misera somma fornita arriverà ai nostri Paesi, mentre altri continuano a trarne vantaggio a nostre spese”, ha accusato Tina Stege, inviata delle isole Marshall.
D'altra parte le kermesse dell'ONU sul clima potrebbero ormai definirsi ridicole, se i loro risultati non incidessero così duramente sulle condizioni di vita delle popolazioni del mondo a partire da quelle più povere. Uno strumento nelle mani dei capitalisti internazionali dal quale hanno preso le distanze anche alcuni tra gli organismi più avanzati dal punto di vista ambientale e della lotta alle disuguaglianze climatiche come Fridays For Future che continuano a disertarla. “Non resta che la rabbia”, ha affermato infatti la sua fondatrice, la svedese Greta Thunberg alla lettura della bozza finale.
Un assetto mondiale dettato dalle lobby energetiche
Anche stavolta la COP è stata invasa dai lobbisti. In 115 sono arrivati dai soli governi dell’UE come parte delle delegazioni ufficiali. Tra questi, secondo le stime delle Ong, l’Italia è quella che ne accreditati il maggior numero, ponendosi in cima al podio europeo.
Ma l'ostentato nazionalismo di Meloni e la sua sedicente direzione autarchica, è riposta quando il capitalismo internazionale offre maggiori risorse e garanzie. Ecco infatti che il governo italiano non ha portato con sé solo lobbisti nazionali: fra i 25 di essi ben 8 sono di Italgas, partecipata da Snam e che già nei primi giorni di negoziato a Baku aveva siglato un accordo commerciale con l’azienda energetica nazionale azera Socar. Un mercato come nella più becera delle fiere. C’erano poi esponenti della Mediterranean Energy and Climate Organisation (Omec), che fanno capo a Eni, ancora Snam formalmente presentati come rappresentanti di Venice Sustainability Foundation, Enel e un membro del cda del Consorzio Toscana energia e per Seingim Group.
Quasi tutti esponenti di multinazionali i cui affari, legati alla sempre maggiore diffusione delle fonti fossili, vanno ovviamente in direzione contraria agli obiettivi dichiarati della Cop e a quelli che dovrebbero essere al centro dell'agenda climatica di ogni governo che si sciacqua la bocca con il contrasto al riscaldamento globale.
Per fermare questa vergogna, una trentina di accademici tra i quali Luca Mercalli, Mario Tozzi, Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli, hanno diffuso un appello in vista della prossima COP 30 di Belem, in Brasile, per “togliere il badge ai lobbisti”.
Italia sempre più indietro nel contrasto ai cambiamenti climatici
Per quanto riguarda il nostro Paese, nei primi giorni del summit il report Climate Change Performance Index redatto da una coalizione che raccoglie decine di realtà ecologiste da diverse parti del pianeta, ha definito l’Italia drammaticamente indietro nella transizione ecologica ed energetica. Il report inserisce l'Italia nella parte bassa di una speciale classifica di merito che riguarda 63 nazioni più l’Unione europea nel suo complesso, nel rilevare sia il trend di riduzione delle emissioni (Italia al 38esimo posto), sia lo sviluppo delle rinnovabili e dell'efficientamento energetico in generale per i cui parametri è addirittura cinquantacinquesima.
L’Italia guidata dal governo neofascista Meloni, sul fronte energetico continua ad avere una visione sostanzialmente negazionista circa il riscaldamento climatico che traduce in pratica non sviluppando rinnovabili nel Paese del sole, e creando invece nuove dipendenze energetiche fossili dall’estero.
Meloni a Baku rilancia fossili, nucleare e Piano imperialista Mattei
Nel suo intervento alla Conferenza di Baku del 13 novembre, Meloni ha infatti rilanciato quanto detto un anno fa a Dubai, richiamando a un approccio “pragmatico” e non “ideologico” sul tema del riscaldamento globale al fine di screditarne l'impatto, e confermando anche la - a suo dire - necessaria “neutralità tecnologica, perché attualmente non esiste un'unica alternativa all'approvvigionamento da fonti fossili.”.
Una negazione sostanziale della scienza che non solo ha dimostrato da anni cause ed effetti del riscaldamento globale lanciando allarmi sulle conseguenze che si stanno puntualmente verificando, ma anche l'autorevolezza e l'efficacia delle energie rinnovabili, ovviamente se ci si investe in maniera ampia ed adeguata.
Uno sviluppo “verde” che non va nell'interesse delle lobby e dei grandi capitalisti che il governo sostiene; ecco perché nella seconda parte del suo intervento Meloni va al sodo e rilancia la sua ricetta di “mix energetico” utile al processo di transizione, a suon di gas, biocarburanti, idrogeno, ma soprattutto nucleare da fusione, del quale tesse le lodi e sul quale conferma l'impegno prioritario del suo governo in barba anche al referendum del 2011.
Evidentemente troppi sono gli interessi che il governo neofascista porta avanti, a tal punto di tirare dritto in maniera così determinata su di una tecnologia costosissima (si parla di 3 miliardi e mezzo per la costruzione di una centrale e costi di manutenzione ancora più alti), “instabile” e quindi rischiosa per i problemi irrimediabili che – come il passato insegna – potrebbero verificarsi anche nella più sicura delle tecnologie, e che comunque genera scorie radioattive che hanno tempi di decadimento stimate in migliaia di anni.
Meloni non ha perso neanche l'occasione di rilanciare la falsa collaborazione tra nord e sud del mondo basata “sull'importantissimo nesso fra clima ed energia” all'interno del disegno egemonico e neocolonialista dell'imperialismo italiano in Africa qual è il Piano Mattei che lei stessa gestirà direttamente col solo obbligo di “informare” il parlamento, ed ampiamente criticato e smascherato anche dal presidente dell'Unione Africana e da decine di organizzazioni civili.
Un piano che però sarà (vedi articolo al link https://pmli.it/articoli/2024/20240221_08L_verticeItalia-Africa.html) molto utile agli interessi delle partecipate nazionali a cominciare da Eni, Enel, Terna, Cdp, Sace, Snam, Leonardo, Fincantieri, Acea ecc. , alcune delle quali presenti anche a Baku.
Un cerchio che si chiude dunque all'interno della logica capitalista del profitto ad ogni costo, principio che va gettato nella pattumiera della storia e sostituito col socialismo se davvero si vuole interrompere la causa di tutti i mali sociali dell'uomo e dell'ambiente.
27 novembre 2024