Attraverso un emendamento alla legge di Bilancio
Il governo vuole scippare il TFR per destinarlo alla previdenza complementare
I sindacati confederali, con il sostegno ai fondi pensione, accettano la privatizzazione

Un altro tentativo per sfilare il Trattamento di Fine Rapporto dalle mani dei lavoratori. Visto che dopo quasi 20 anni solo una parte di loro ha deciso di cederlo “volontariamente” ai fondi privati che gestiscono la previdenza complementare, il governo neofascista della Meloni cerca di trovare tutti i modi possibili per obbligarli a farlo.
Il TFR è definito salario differito, perché non si tratta di un premio aziendale, un benefit, o quant'altro, ma appunto una quota (approssimativamente una mensilità all'anno) accantonata, fino a 50 dipendenti in azienda, oltre in un fondo gestito dall'Inps. Senza voler farne tutta la storia, ricordiamo solo che il primo embrione di Tfr prese forma durante la prima guerra mondiale, come indennità per impiegati mandati al fronte. Successivamente fu esteso a tutti quelli che rimanevano senza lavoro, ma non a chi se ne andava volontariamente. Una specie di sostegno alla disoccupazione, oppure all'attesa del conferimento della pensione. Solo nel 1966 assunse la forma attuale: un accantonamento finanziario obbligatorio da erogare al termine del rapporto di lavoro.
Con l'ultima riforma sostanziale del 2007 si è stravolto la natura del TFR, fino ad allora gestito dalle aziende per conto dei lavoratori, cercando di dirottarlo verso fondi pensioni privati. Non è stata una scelta a caso ma fortemente correlata alle controriforme pensionistiche: da quella Amato del 1992 e Dini 1995, dopo quelle volute da Prodi, da Maroni, fino alla Fornero, che hanno alzato l'età pensionabile trasformando il sistema previdenziale da retributivo (calcolo dell'assegno sulle buste paga degli ultimi anni) a contributivo (sulla base dei contributi versati e sull'aspettativa media di vita).
Queste “riforme”, unite all'aumento esponenziale del lavoro precario e intermittente, hanno portato le pensioni delle lavoratrici e dei lavoratori italiani ad un livello così basso da mettere in discussione non solo una vecchiaia dignitosa, ma persino la sopravvivenza. Per questo si dovevano trovare delle risorse per integrare questi miseri assegni, e dove si è pensato di reperirle? I governi della destra e della “sinistra” borghese hanno pensato bene di andarli a prendere dai lavoratori.
È così che hanno tentato in tutti modi di affiancare alla previdenza pubblica il cosiddetto “secondo pilastro”, rappresentato dalla previdenza complementare collettiva. Si tratta di una forma previdenziale complementare a quella pubblica obbligatoria, a cui i lavoratori avrebbero dovuto aderire su base volontaria mediante la contribuzione ai fondi pensione. Infine il “terzo pilastro” della previdenza complementare individuale, che ognuno può costituire mediante forme di risparmio individuali al fine di integrare sia la previdenza pubblica obbligatoria che quella realizzata in forma collettiva.
Nonostante un'alleanza eterogenea, formata da partiti di governo e d'opposizione, sindacati confederali e Confindustria, organi d'informazione ed economisti di regime ne abbiano osannato le mirabolanti proprietà positive, i numeri restano inferiori alle aspettative: attualmente, gli iscritti a piani di previdenza integrativa sono circa 9,6 milioni, rappresentando solo il 36,9% dell’intera forza lavoro, ma nel 2023 solo il 26,7% vi ha versato i contributi. Numeri quindi piuttosto bassi, e per questo i lavoratori sono stati tacciati di ignoranza finanziaria, imprevidenza, mancanza di coraggio e via insultando.
Ma i lavoratori sono davvero cosi ingenui? Non sembrerebbe, semmai sono prudenti perché il TFR in azienda viene adeguato per il 75% all'inflazione e in più assicura un rendimento annuo dell'1,5%. I fondi previdenziali fluttuano in base al mercato e possono avere dei picchi di resa, ma avere anche il segno negativo, senza contare che possono andare incontro al fallimento con la conseguente difficoltà a recuperare i soldi. Ad esempio il 2022 ha azzerato tutti i guadagni precedenti perché secondo i dati della Commissione di Vigilanza sui fondi pensione (Covip), al netto dei costi di gestione e delle imposte, la rivalutazione del TFR ha reso l’8,3% nel 2022, contro un rendimento generale negativo del -9,8% per i fondi negoziali (riservati a specifiche categorie di lavoratori) il -10,7% dei fondi pensione aperti.
Dati che spiegano perché solo un dipendente su 4 toglie il TFR dall'azienda o dall'Inps, rendendo poco sostenibile il sistema dei due pilastri previdenziali pubblico-privato. Ecco allora che l'attuale governo torna all'attacco con alcune norme da inserire nella manovra di bilancio 2025 per estorcerlo con la forza. Prima con un emendamento del sottosegretario leghista al Lavoro Claudio Durigon, che ha proposto il trasferimento in forma obbligatoria del 25% del TFR ai Fondi Pensione per i neoassunti. L’obiettivo è l'ennesimo intervento sulle pensioni per fare cassa, dirottando il TFR dei lavoratori ai gestori dei fondi pensione.
Poi la stessa Ministra del Lavoro ha fatto la sua proposta, con una nuova fase di “silenzio-assenso”, con tutta probabilità semestrale come in occasione di quella scattata nel 2007. Una metodo “al contrario” per cui la scelta principale diventa il fondo ed il lavoratore deve opporsi per scegliere di lasciare il TFR in azienda. Infine la terza opzione, destinata ai neo-assunti, punta a prevedere un arco di tempo di sei mesi per consentire al lavoratore di effettuare la scelta di destinare il 25% della liquidazione ai fondi pensione. Diverse ipotesi che, oltre all'obiettivo di dirottare risorse al mercato finanziario, hanno nel mirino l'attivazione immediata, per tutti i lavoratori dipendenti, di un percorso di risparmio in un fondo pensione.
I sindacati confederali, come ben sappiamo, non sono contrari ai fondi pensione integrativi anzi. Essi rappresentano una fonte di sostentamento perché Cgil-Cisl-Uil partecipano alla gestione dei fondi negoziali (quelli legati alle categorie professionali). Le critiche che rivolgono al governo sono esclusivamente indirizzate al metodo e alla forma. In particolare verso il “il metodo Durigon”, ossia il prelievo forzato di una parte di TFR, perché oltre a presentare evidenti aspetti di incostituzionalità, i lavoratori sentendosi costretti, per reazione potrebbero “tenere al sicuro” la restante quota e non cederla ai fondi integrativi,. Inoltre perché effettivamente verrebbe a mancare alle aziende sotto i 50 dipendenti una notevole risorsa, e in sua alternativa dovrebbero rivolgersi alle banche. Infine la Cgil sottolinea che chi ha contratti brevi, non potrà avere il TFR da utilizzare come ammortizzatore sociale tra un lavoro e l'altro.
Ma la Cgil, assieme a Cisl e Uil, vuole incentivare i fondi pensione, naturalmente quelli gestiti dai sindacati, che però, ricordiamolo, investono i soldi nel mercato azionario e finanziario esattamente come i fondi gestiti da assicurazioni ed enti privati. Questa “voglia matta” di fondi integrativi non nasconde solo gli interessi economici dei sindacati, ma evidenzia il fatto di come i confederali oramai danno per scontato che in Italia si vada irreversibilmente verso la previdenza privata e invece di contrastarla in tutte le maniere cercano di assecondarla. Altro che abolire la Fornero, meglio chiederne la modifica e trarne vantaggio, ma per le burocrazie sindacali, non certo per le lavoratrici e i lavoratori.
I problemi delle pensioni basse e del TFR stanno anzitutto nel sistema previdenziale pubblico sempre più disarticolato, trasformato da retributivo a contributivo, nel lavoro povero con stipendi da fame, nel precariato e nel lavoro intermittente, che inevitabilmente riducono i versamenti a favore di TFR e pensioni, nelle norme che sequestrano il TSR (il TFR dei dipendenti pubblici) che può essere liquidato dopo 2 anni (5 in caso di quota 101, 102 e 103). Il TFR deve restare nelle disponibilità del lavoratori, semmai va allargato il ventaglio di causali per potervi attingere, al momento assai restrittivo, e abbassarne la tassazione.

 

11 dicembre 2024