L'italia rischia il completo smantellamento del settore automotive
Nemmeno un euro a Stellantis se non assicura di non licenziare i suoi dipendenti e quelli dell'indotto
In meno di 4 anni distribuiti agli azionisti dividendi per 23 miliardi di euro

La crisi del mercato dell'auto diventa sempre più critica. Una crisi che investe sopratutto i marchi europei, e tra questi non fa eccezione Stellantis, il gruppo nato dalla fusione tra FCA (Fiat Chrysler) e PSA (Peugeot Citroen). I motivi sono molteplici, che non intendiamo approfondire in questo articolo, dove invece vogliamo sottolineare come la casa automobilistica che ha insediamenti produttivi nel nostro Paese, non può essere continuamente foraggiata con soldi pubblici e poi puntualmente spostare le produzioni all'estero e tenere in cassa integrazione migliaia di lavoratori.
Alcune cose però sono evidenti: l'Unione Europea si è data degli obiettivi (la riduzione delle emissioni di CO2 e la decarbonizzazione) che oramai non sono più rimandabili, senza però pianificare in che modo. Le case europee, in particolare sulle auto elettriche, soffrono la concorrenza di Cina e Usa, nazioni che finanziano pesantemente le loro industrie automobilistiche mentre la UE è di nuovo indirizzata sulla strada del “rigore economico”, i lavoratori e le masse popolari del nostro continente hanno salari da fame che non gli permettono l'acquisto dell'elettrico che ha un costo ancora molto alto, le infrastrutture (come le colonnine di ricarica) sono carenti.
E poi la transizione energetica non può essere lasciata nelle mani delle case automobilistiche, attori privati che fanno e disfanno nel nome del profitto fregandosene altamente dei lavoratori e del cosiddetto “interesse sociale” delle aziende. Stellantis ne è un caso esemplare. Il CEO Carlos Tavares è stato “licenziato” recentemente da John Elkann, presidente del gruppo ( anche se poi Tavares ha detto che la decisione è stata presa di comune accordo). Ebbene, pur avendo diretto un azienda che non ha ottenuto certo risultati brillanti, in forte calo di vendite, con stabilimenti fermi o in cassa integrazione, ha ottenuto una buonuscita di 100 milioni di euro.
Tanti hanno gridato giustamente allo scandalo, essendo un'azienda in crisi, ma lo è per i dipendenti, non certo per gli azionisti e i manager. In meno di quattro anni infatti, Tavares ha distribuito ai soci ben 23 miliardi di euro di dividendi, a scapito degli investimenti in ricerca e sviluppo e nonostante un drastico calo dei volumi di vendita, compensati con un aumento dei prezzi delle auto compreso tra il 30% e il 40%. In sostanza la gestione Tavares ha sacrificato posti di lavoro e volumi di produzione per aumentare i profitti e i dividendi, favorito in questo anche dalle crescenti delocalizzazioni che hanno trasferito la produzione in Paesi dove il costo della manodopera è più basso.
Il tutto è avvenuto mentre la società degli Elkann ha ottenuto ingenti aiuti di Stato e continua a pretendere sovvenzioni pubbliche, tanto che Tavares, solo alcuni mesi fa, ha avuto il coraggio di chiedere ancora soldi, minacciando di ridurre ancor di più la produzione in Italia, già adesso ai minimi storici. Intanto nuovi stabilimenti promessi come la gigafactory di Termoli per produrre batterie elettriche rimangono un miraggio. Non sono certo delle novità, in Italia ci siamo abituati. Si stima che dal dopoguerra a Fiat-Fca siano stati concessi aiuti per circa 500 miliardi di euro; compresa l’acquisizione del gruppo Alfa Romeo a condizioni di saldo (500.000 €), lo stabilimento di Melfi pagato dallo Stato per il 50% (1,5 miliardi di €); 4,5 miliardi per Termini Imerese.
Mentre per quanto riguarda le promesse, ricordiamo che nel 1990 Fiat presentò il progetto Melfi con il presupposto di produrre milioni di vetture all’anno. Con la nascita di Melfi vennero però chiusi gli stabilimenti di Desio, Rivalta, Arese e più avanti anche Termini Imerese. Dal 2005 con l’avvento di Marchionne sono stati presentati ben 7 piani strategici, ultimo dei quali il Piano Italia del 2014, che puntavano a produrre 3,5 milioni di auto per giustificare lo spostamento delle produzioni all’estero. Questi obiettivi non sono mai stai realizzati, ma gli aiuti statali quelli sì che sono stati elargiti.
La Fiat di Marchionne era poi uscita da Confindustria per avere le mani più libere nell'imporre ritmi di lavoro più massacranti in fabbrica e meno vincoli contrattuali. Nonostante “le mani libere” è aumentato solo lo sfruttamento, mentre le produzioni di auto in Italia sono passate da 1,4 milioni nel 2005 a 650 mila nel 2009 a 485 mila nel 2011 a 473mila nel 2022 mentre anche per il 2024 si stima una cifra inferiore alle 500mila. Se nel 2000 i lavoratori Fiat in Italia erano 74.300 nel 2023 i lavoratori Stellantis sono 45.000 di cui 26.000 nell’auto. La maggior parte è in cassa integrazione una o due settimane al mese e gli stabilimenti lavorano a metà della propria capacità. A farne le spese sono anche le fabbriche dell’indotto che occupano oltre 150 mila lavoratori, molte stanno chiudendo e altre riducono il personale.
Stellantis si è oramai dedicata alla speculazione finanziaria, cercando fortuna in altri ambiti, tra cui quello sanitario e farmaceutico. Il suo primo azionista, Exor, società finanziaria olandese di John Elkann, rappresentante della famiglia Agnelli e presidente esecutivo di Stellantis, ( se lo ricordino chi dà esclusivamente la colpa al management francese) ha impiegato 800 milioni di euro per l’ingresso nel gruppo francese Institut Mérieux e 2,6 miliardi per quello nel gruppo olandese Philips. Successivamente ha deciso di puntare sulle miniere d’oro acquistando, a fine giugno 2023, azioni della compagnia sudafricana Harmony Gold Mining per 104 milioni di dollari. Il tutto a scapito dell’economia reale e di una efficace strategia produttiva per rilanciare il comparto industriale automobilistico, soprattutto in Italia.
Per questo i ricatti di Stellantis vanno rispediti al mittente. Nemmeno un euro deve andare nelle tasche di questi pescecani capitalisti se non vengono assicurati in toto i livelli occupazionali, indotto compreso. Semmai fin da subito lo Stato italiano deve almeno avere una quota nella società ma per poterla condizionare, come già sta facendo lo stato francese. Crediamo però che l'unica strada strada per poter realizzare una complicata transizione energetica, senza che questa venga fatta sulla pelle dei lavoratori, sia quella di toglierne la gestione ai capitalisti nazionalizzando le industrie automobilistiche italiane, che oltretutto sono state costruite e sviluppate con il sudore di migliaia di operai e con i soldi della collettività.

18 dicembre 2024