Rojava, Stati Uniti, Turchia e nuovo governo siriano
Gli avvenimenti recenti siriani con la caduta del regime di Assad e la conquista del potere da parte delle forze jihadiste hanno riportato all’attenzione generale la questione curda, il Rojava, il ruolo nella Regione dell’imperialismo americano e di quello turco, che si inseriscono in un concatenamento di eventi che passano dal genocidio nazisionista israeliano in corso in Palestina e l’aggressione al Libano, nell’espansione militare sionista nelle alture del Golan occupate, nella guerra tra Israele e Iran e il ridimensionamento del ruolo di Teheran nell’area, nei bombardamenti dell’imperialismo occidentale dello Yemen per debellare la resistenza degli Houthi. Fino alla costituzione del nuovo governo siriano.
Nei commenti degli antimperialisti nonché dei partiti che si definiscono comunisti abbiamo riscontrato tanta confusione e una difficoltà di fondo ad analizzare e comprendere cosa sta accadendo in questa parte di pianeta, da sempre considerata strategica negli equilibri imperialisti. Cercheremo di dare un contributo in tal senso ai nostri lettori, ribadendo che da parte nostra auspichiamo un accordo politico della nuova dirigenza islamica della Siria con i curdi. In ogni caso l’esistenza e l’integrità del Rojava deve essere fuori discussione, al di là del suo assetto politico, economico e ideologico in sostanza democratico borghese, basato sul “Confederalismo democratico”, che non possiamo sposare come modello in quanto in antitesi col socialismo, quello vero.
Il 12 dicembre scorso intanto le forze curdo-siriane hanno annunciato la decisione di issare su tutte le istituzioni della Regione di fatto autonoma del nord-est la bandiera della rivoluzione con le tre stelle rosse sventolata dagli insorti islamisti che hanno preso il potere a Damasco e deposto il regime corrotto e oppressore di Bashar al Assad servo di Putin. "Siamo parte della Siria unita e del popolo siriano", si leggeva nel comunicato delle forze curdo-siriane diffuso ai media.
Rojava
I curdi sono un popolo senza patria riconosciuta. Questo popolo, che si nominò tale nel 600 dopo Cristo, abita tuttora nella regione montana dove è sempre vissuto, la regione del Kurdistan, popolata da più di 30 milioni di persone che si estende su un vasto territorio di 550 mila chilometri quadrati riguardante sei Stati dell'area mediorientale e asiatica: Turchia (sudest), Iraq (nordest), Siria (nordest), Iran (ovest), Armenia (sud) e Azerbaijan (sudovest). La maggior parte del Kurdistan è situato all'interno dei confini turchi per un'area di circa 230 mila kmq (30% del territorio turco). Si tratta di un territorio strategicamente rilevante per la ricchezza del petrolio e le risorse idriche. Il 75% del petrolio iracheno proviene da qui, gli unici giacimenti della Turchia e i più importanti della Siria si trovano in Kurdistan, anche nella zona di Kermanshah, territorio iraniano ma abitato dai curdi, si produce petrolio. È altresì il passaggio obbligato di alcune importanti vie di comunicazione, ad esempio tra le repubbliche centroasiatiche, l'Iran e la Turchia e si trova nel cuore di uno dei punti più caldi della politica mondiale. Una posizione geopolitica che ha sempre condizionato le vicissitudini di questo popolo.
Nella storia del Medio Oriente i curdi sono regolarmente usati dall’imperialismo e poi traditi. La loro epopea parte da molto lontano. Nel 1920 il trattato di Sèvres, che smantellò l’impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale imperialista, riconobbe ai curdi il diritto a un’ “autonomia” che potesse sfociare nella nascita di uno Stato indipendente. Da allora è passato un secolo e stanno ancora aspettando, dispersi attraverso sei Paesi.
Rojava è una regione autonoma de facto nel nord e nord-est della Siria. Nel 2012, nel corso della guerra civile siriana, le forze governative di Damasco si sono ritirate da tre aree abitate dai curdi rilasciando il controllo militare alle milizie curde dell'YPG (Unità di Difesa del Popolo). Il Comitato supremo curdo (DBK) è stato istituito con il Partito dell'Unione Democratica (PYD) e il Consiglio nazionale curdo (KNC) come organo di governo del Kurdistan siriano nel luglio 2012. Il Consiglio è composto da un numero uguale di membri del PYD e KNC. Nel novembre 2013 il PYD ha annunciato un governo ad interim diviso in tre aree autonome non contigue, i cantoni, Afrin, Jazira e Kobane.
A partire dal 2015, in seguito alla rottura dell’assedio di Kobane da parte dello Stato Islamico le forze curde cominciarono a espandersi a regioni arabe. Nel dicembre dello stesso anno venne istituito l'organo legislativo, rappresentato dal Consiglio Democratico Siriano (DSC), mentre le Forze Democratiche Siriane (SDF) ne rappresentano l'ala militare. Il 17 marzo del 2016 ufficiali curdi, arabi, assiri turcomanni proclamarono la nascita nei territori da loro controllati della Federazione Democratica del Rojava-Siria del Nord. L'evento venne apertamente osteggiato sia dalle milizie leali al governo di Damasco, sia dalla Coalizione Nazionale Siriana, l’opposizione al regime di Assad foraggiata e legata agli Stati Uniti.
Il 18 marzo del 2018 la Turchia avviò l’operazione “Ramoscello d’Ulivo, che sottrasse il distretto di Afrin alla federazione. Nel 2019 le forze armate turche, in collaborazione con milizie dell'opposizione siriana, lanciarono l’operazione “Sorgente di pace”, costituendo una zona cuscinetto, lunga trenta chilometri, al suo confine meridionale, spezzando la contiguità territoriale curda, e collocandosi altresì in una situazione in cui gli interessi di Turchia, Russia e Iran convergevano sulla spartizione delle zone di influenza del nord-ovest della Siria, dopo che lo stesso regime di Assad si era impegnato militarmente a eliminare la presenza dei combattenti antimperialisti islamici di Tahrir al-Sham di Al Jolani (l’ex al-Nusra), attuale leader siriano, dal suo centro principale di Idlib.
Negli ultimi 5 anni si è assistito ad una resistenza forte, coesa e ammirevole dei curdi del Rojava, con alla testa i giovani e le donne, che hanno superato la guerra con lo Stato Islamico, che mettendo sotto assedio Kobane e altri territori curdi in Siria ha commesso un grave errore, quando invece sarebbe stato necessario ricercare un’alleanza con i curdi contro i comuni nemici imperialisti. L’IS ha violato la sovranità del Kurdistan siriano e calpestato i diritti dei curdi nelle loro terre, compiuto stragi indiscriminate verso i curdi yazidi nella lotta generata dalle rivalità per il controllo dei territori con popolazione mista arabo-curda, finendo per spingere le varie forze curde nelle grinfie dell’imperialismo, in particolare degli Stati Uniti.
I curdi del Rojava sostengono che il loro è un governo ufficialmente laico, con ambizioni “democratiche dirette”, basate su un'ideologia “socialista libertaria” che promuove il “decentramento, l’uguaglianza di genere, sostenibilità ambientale e tolleranza pluralistica per la diversità religiosa, culturale e politica” come indicato nella sua Costituzione, ritenuta un modello per una Siria federale nel suo insieme, ma in realtà lontano da una vera indipendenza. Su questo ne parleremo più avanti.
Il 3 gennaio migliaia di persone con lo slogan “Lunga vita alla resistenza del Rojava” hanno marciato verso il confine di Kobane in solidarietà con la resistenza del Rojava, protestando contro gli attacchi dello Stato turco e dei mercenari alleati dell’Esercito nazionale siriano (SNA) contro il nord-est della Siria e chiedendo la protezione dell’amministrazione del Rojava.
Gli Stati Uniti e i curdi
Nella Siria nord-orientale, gli Stati Uniti, e dietro di loro l’imperialismo dell’Ovest, hanno guidato una coalizione internazionale per combattere l’ISIS, una santa alleanza imperialista, e garantire che non ritorni in territorio siriano.
Washington ha usato questa guerra come pretesto per giustificare la sua presenza militare nella Regione e sostenere le Forze Democratiche Siriane come alleato chiave sul terreno, il che ha portato a un rapporto teso con la Turchia, fedele alleato della NATO. Inoltre, le priorità strategiche di Washington erano quelle garantire la sicurezza di Israele, limitare l’influenza iraniana e indebolire la Russia e impedirle di ottenere il pieno controllo della Siria. D’altra parte, per la Russia, la Siria è stata una piattaforma vitale per rafforzare la sua influenza in Medio Oriente e dimostrare il suo potere di superpotenza sulla scena internazionale, fornendo un sostegno assoluto al regime di Assad, militarmente e politicamente, in cambio di due basi militari, una navale e una aerea strategiche sul Mediterraneo.
Trump, durante il suo primo mandato, ritirò parzialmente le truppe statunitensi dal nord-est della Siria, aprendo la strada a una vasta invasione turca. L’amministrazione americana contribuì poi a mediare un cessate il fuoco in cambio della cessione da parte dei curdi della zona cuscinetto al confine con la Turchia. Anche per questo motivo, i curdi siriani chiedono ora al presidente eletto che giurerà il 20 gennaio prossimo di “non essere abbandonati”, visto che la Turchia del fascista Erdogan vorrebbe approfittare del vuoto di potere per colpire la regione del Rojava. “Crediamo che lei abbia il potere - si legge nella lettera riservata inviata a Trump il 16 dicembre da Ilham Ahmed, a nome dell’Amministrazione del Rojava, – di prevenire questa catastrofe. La sua leadership può fermare questa invasione e preservare la dignità e la sicurezza di coloro che sono stati alleati fedeli nella lotta per la pace e la sicurezza”. Per Ahmed l’obiettivo della Turchia sarebbe “stabilire un controllo di fatto del nostro territorio” prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, così da obbligare la nuova amministrazione USA “a trattare con la Turchia in quanto governanti del nostro territorio”. Un’invasione turca costringerebbe nella sola Kobane alla fuga di oltre duecentomila persone.
Dalla Casa Bianca hanno fatto sapere di essere “concentrati su quanto sta succedendo, premendo per la moderazione”. Intanto i quasi mille soldati americani sul campo non si ritirano e dalle loro basi in Siria partono periodicamente attacchi aerei contro le postazioni dei miliziani dello Stato Islamico ancora attive. “Gli Stati Uniti manterranno la loro presenza nell’est della Siria e adotteranno le misure necessarie per prevenire una recrudescenza dell’IS”, ha dichiarato Daniel Shapiro, assistente segretario alla difesa degli Stati Uniti per il Medio Oriente. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha minacciato Ankara di sanzioni in caso di abusi contro combattenti curdi, pur approvando il suo progetto espansionistico. “La Turchia merita di avere una zona cuscinetto demilitarizzata tra la Siria nordorientale e la Turchia per proteggere i suoi interessi”, ha scritto sul suo account “X”. “Sosteniamo l’idea della zona cuscinetto, a condizione che vi siano dispiegate forze internazionali e che la Turchia non vi partecipi, perché il suo obiettivo è attaccare i curdi e disgregare la loro amministrazione, com’è successo ad Afrin (dove nel 2018 l’esercito turco e i suoi affiliati hanno scacciato le milizie curde delle Unità di protezione del popolo) e in più di duecento villaggi e città curde nelle campagne intorno ad Aleppo nord”, ha ricordato Ahmad Arag, segretario generale dell’Alleanza nazionale democratica siriana.
Il 29 dicembre il nuovo leader siriano Al Jolani ha auspicato azioni di buon senso da parte degli USA: “Spero che l’amministrazione Trump revochi le sanzioni contro la Siria”. Ma da Washington non firmano cambiali in bianco e attendono di capire i prossimi passi dei nuovi governanti di Damasco su cui ancora pendono le taglie e l’inserimento nelle liste nere dei “terroristi”, come indesiderati e nemici dell’imperialismo americano.
La Turchia e i curdi
Il 5 gennaio l’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale ha dichiarato che lo Stato turco sta prendendo di mira le strutture di servizio pubblico e le infrastrutture civili nei suoi attacchi e ha invitato le organizzazioni internazionali ad agire. La dichiarazione ha sottolineato che l’obiettivo della Turchia con questi attacchi è quello di fermare i servizi pubblici che raggiungono la gente della Regione, destabilizzare l’area e creare uno spazio operativo rinnovato per gruppi come l’ISIS e altre fazioni militanti. La Turchia ha violato il diritto internazionale attaccando la diga di Tishrin, il Comune di Curniye, la fabbrica di zucchero Meskene e le stazioni elettriche. “Violando gli accordi internazionali che proteggono le strutture di servizio pubblico, la Turchia sta commettendo crimini palesi. Tali attacchi sono in corso, in particolare a Manbij e nei dintorni, così come in tutta la Siria settentrionale e orientale. Durante questo storico periodo di trasformazione, i popoli della Siria hanno bisogno di solidarietà. La comunità internazionale e le organizzazioni competenti devono agire con urgenza per fermare le azioni illegali della Turchia”. Intanto dalla fine di dicembre si susseguono attacchi contro le SDF curde condotti dai miliziani filoturchi. E’ evidente che il regime di Ankara vorrebbe sfruttare l’occasione per chiudere la partita con i curdi una volta per tutte.
Già il 6 dicembre l’SNA, foraggiato dal regime turco ha lanciato un’offensiva volta ad occupare Manbij, città parte dell’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord Est dal 2016. “Vogliamo risolvere i problemi con la Turchia attraverso il dialogo ma c’è una minaccia per il cantone di Manbij e siamo pronti a difendere la nostra gente” aveva dichiarato appena poche ore prima il comandante generale delle SDF Mazloum Abdi, nel corso di una lunga conferenza stampa. Al contrario di quanto avvenuto a Tall Rifaat e Shebah, il Consiglio Militare di Manbij ha preso la decisione di resistere ad oltranza agli attacchi che si sono succeduti incessantemente su tre fronti da parte dei miliziani del SNA con il supporto di aerei e droni turchi che, colpendo anche in aree lontane dagli scontri, hanno provocato almeno 24 vittime civili in tre diversi raid sulle campagne di Manbij, Ain Issa e Kobane. “Noi chiediamo alla comunità internazionale di agire e fermare l’aggressione della Turchia”, ha scritto su “X” Elham Ahmad, copresidente del Dipartimento delle relazioni estere del cantone curdo, mentre la Turchia, per voce del ministro degli Esteri Fidan ha dichiarato che “Qualsiasi estensione del PKK non può essere considerata una parte legittima nei negoziati in Siria”, ribadendo la posizione del governo di Erdogan che non fa differenza tra Amministrazione autonoma, SDF e Partito dei lavoratori del Kurdistan. Gli scontri tra le forze filo-Ankara e filo-curde hanno provocato 218 morti in tre giorni nel nord della Siria, come riferito dall'Osservatorio siriano per i diritti umani (OSDH).
L’11 dicembre le forze filo-curde hanno annunciato una tregua sotto l'egida USA con i combattenti filo turchi. Tregua durata ben poco e infranta dai mercenari filo turchi, che hanno assassinato il 19 dicembre due giornalisti, Nazim Dashtan e Cihan Bilgin, uccisi da un drone turco che ha colpito il loro veicolo mentre stavano denunciando i crimini turchi e dei loro fantocci, contro cui il Consiglio militare curdo del cantone ha lanciato il 23 dicembre l’”Operazione Manbij per il martire Ezàz Ereb”. Il portavoce delle YPJ Ronahà Ozan ha dichiarato che “C’è una resistenza implacabile contro gli attacchi dello Stato turco. Non permettiamo loro di avanzare nemmeno un passo. Più attaccano, più forte diventa la nostra risposta. Completeremo con successo questa operazione. Il nostro obiettivo è quello di frustrare ogni attacco contro la Siria settentrionale e orientale e liberare completamente queste regioni dall’occupazione”. In contemporanea il KCK, l’Unione delle Comunità del Kurdistan, l'organizzazione-ombrello comprendente tutti i partiti, le forze di autodifesa e le associazioni della società civile legate al movimento rivoluzionario di liberazione del Kurdistan, attive nelle quattro regioni a maggioranza curda in Turchia, Siria, Iran e Iraq, ha chiesto resistenza contro i massacri di oggi e di ieri compiuti dalla Turchia, ricordando che il mese di dicembre ha visto nella storia molti massacri dei curdi. Da quello di Marash nel 1978 come parte del piano genocida contro i curdi per espellerli dall’ovest dell’Eufrate, a quello dei prigionieri politici nel 2000, a quello degli abitanti del villaggio di Roboski nel 2011 con il boia Erdogan che si congratulò con i piloti degli aerei artefici del criminale bombardamento, fino a quello di Parigi del 2022, commemorando “con rispetto e gratitudine tutti i martiri della lotta rivoluzionaria per la libertà e la democrazia”.
Ferset Doski, un importante ricercatore e scrittore del Kurdistan del Sud, ha dichiarato il 24 dicembre che il governo turco non è solo contro i partiti e le organizzazioni curde, ma anche contro l’esistenza dei curdi. “Non importa quale partito curdo, istituzione o personalità, questo regime assume un atteggiamento contro di esso, ovunque esista" ha affermato, invitando i curdi a mettere da parte tutte le loro differenze e adottare una posizione comune: “Non tradiamo i sacrifici dei nostri martiri e i prezzi pagati dal nostro popolo per il bene degli interessi personali o di partito. L’unica cosa che ci libererà è la nostra unità, essenziale per la difesa dei diritti del popolo curdo”.
Già dopo la caduta di Assad il presidente turco Erdogan aveva salutato la salita al potere dei jihadisti come una “vittoria popolare che fa onore” e ribadito che il suo governo “continuerà a sostenere il popolo siriano”. Il primo gesto concreto è stata la visita a Damasco del capo dei servizi segreti, Ibrahim Kalin, che ha incontrato Al Jolani. Pochi giorni dopo, il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, ha annunciato i futuri piani di Ankara, mirando dritto all’esperienza del Rojava: “Le YPG e YPJ devono sciogliersi o saranno sciolte. I membri stranieri devono lasciare il Paese, i dirigenti abbandonare la Siria, e i militanti deporre le armi per integrarsi nella nuova società siriana, sotto la gestione di Damasco in collaborazione con l’autorità internazionale”. Il 25 dicembre Erdogan ha affermato che “Elimineremo l’organizzazione terroristica PKK mentre cerca di costruire un muro di sangue tra noi e le
nostre sorelle e fratelli curdi”.
In questo momento di assestamento e molte palle in movimento, significative risultano due dichiarazioni. La prima è del ministro della Difesa turco, Yasar Guler, che ha annunciato la disponibilità militare del suo governo: “Se
Damasco lo chiede, siamo pronti a inviare soldati come sostegno”. La seconda è del comandante generale delle Forze democratiche siriane, Mazlum Kobani: “Stiamo trattando con Tahrir al-Sham e la Turchia,
attraverso gli alleati, per una tregua permanente”.
Fatto sta che la Turchia sta sfruttando la sua influenza in Siria per affermarsi come potenza imperialista nel Medio Oriente. Nella sua intervista del 20 dicembre al TG 1 Al Jolani ha affermato che dire dietro alla nuova Siria ci sia la Turchia è “un’analisi sbagliata. La Turchia aveva molte preoccupazioni riguardo a questa battaglia ed era danneggiata dalla presenza del regime di Assad, che causava grandi migrazioni e spostamenti verso la Turchia. Inoltre, la Turchia soffriva a causa delle milizie armate curde che utilizzavano il territorio siriano per attaccare la Turchia. Tuttavia, l’operazione militare che abbiamo condotto è stata completamente pianificata da noi, con le nostre capacità e l’abbiamo eseguita senza l’aiuto di nessuno. Abbiamo tenuto conto della situazione della Turchia e degli altri paesi vicini, cercando di agire senza causare danni a nessuno ma la Turchia ha tratto beneficio dai risultati così come i Paesi del Golfo e molti altri nella regione. La rimozione del regime di Assad ha portato vantaggi a tutti poiché era una fonte di disturbo per la regione. Aveva trasformato la Siria nella più grande fabbrica di Captagon al mondo e aveva costretto un gran numero di siriani a lasciare il paese causando una crisi di rifugiati in Libano, Giordania, Turchia, Europa e in tutto il mondo”.
Il nuovo governo siriano e i curdi
Due giorni dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad, il comandante delle Forze Democratiche Siriane, Mazloum Abdi, ha espresso la disponibilità a comunicare con la nuova autorità a Damasco, sottolineando la necessità di rappresentare tutte le regioni e le componenti attraverso il dialogo. Il 12 dicembre il Rojava ha alzato la bandiera della rivoluzione siriana su tutti i consigli, le istituzioni, le amministrazioni e le strutture nelle aree che governa. Il 16 dicembre fonti ufficiali del Rojava hanno dichiarato che la cooperazione sarebbe nell’interesse di tutti i siriani e contribuirebbe a facilitare l’uscita da questa fase.
Dal canto suo il nuovo governo siriano tramite il leader Al Jolani ha dichiarato ben presto che i curdi fanno parte della patria, hanno subito grandi ingiustizie e sono una parte essenziale della futura Siria. Ha sottolineato la necessità della convivenza e che ogni individuo dovrebbe ricevere i propri diritti attraverso la legge, indicando nuove regole e una nuova storia in Siria. "I curdi fanno parte della patria e, come noi, sono stati oppressi dal precedente regime. Con la caduta del regime, questa oppressione sarà eliminata... Se Allah vuole, i curdi saranno parte integrante dello Stato. Tutti riceveranno i loro diritti secondo la legge", ha dichiarato Al Jolani, come riportato il 16 dicembre dal canale israeliano “Abu Ali Express”.
Il 29 dicembre Al Jolani è sceso più nei particolari rilasciando importanti dichiarazioni a “Al Arabya”: “Non permetteremo mai che la Siria venga utilizzata come base per attacchi al Partito dei Lavoratori del Kurdistan. I curdi sono parte integrante della società siriana e il Ministero della Difesa siriano prevede di integrare le forze curde nei suoi ranghi. In nessuna circostanza permetteremo la spartizione o la federalizzazione della Siria. Stiamo negoziando con le SDF per risolvere la crisi nel nord della Siria. Liberare la Siria significa garantire stabilità regionale e stabilità nel Golfo persico per 50 anni”.
L’accordo del 24 dicembre con tutte le realtà armate nemiche del regime di Assad annunciato dalle autorità siriane che prevede lo scioglimento e la loro integrazione nel ministero della Difesa non riguarda le SDF, come precisato all’Agenzia “France Presse” dal portavoce Farhad Shami: “La questione dell’adesione delle SDF all’esercito siriano deve essere discussa direttamente” tra il loro comando e Damasco, “lontano dal dominio delle potenze regionali e dalla loro supervisione sulla decisione siriana” ha dichiarato. “Le SDF potrebbero essere il nucleo dell’esercito siriano e un fattore di forza per tutta la Siria” ha aggiunto Shami, assicurando che il suo gruppo “preferisce il dialogo con Damasco per risolvere tutte le questioni in sospeso”.
Il “modello” Rojava e il “confederalismo democratico” di Ocalan
I partiti falsi comunisti, gli anarchici, gli “antagonisti” e certi gruppi trotzkisti italiani, esaltano l’esperienza di Rojava che dovrebbe rappresentare il “faro comunista” se non il socialismo dei prossimi decenni. La stessa cosa avvenuta alla fine del secolo scorso con il movimento zapatista del cosiddetto “municipalismo”, che a distanza di quasi trentanni non ha torto un capello all’imperialismo in Messico e in America Latina, fallendo totalmente in tutte le sue linee guida. Anche allora si era parlato dell’esperienza guida del “socialismo del XXI secolo”.
Noi prendiamo atto dell’eroica resistenza della realtà autonoma curda nella Siria del Nord-Est, che non è però una tappa verso l’indipendenza del Kurdistan e men che mai verso il socialismo. Essa è il frutto della conversione del leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) Ocalan al pensiero borghese, libertario, ecologista, femminista e municipalista. Ispirandosi alle teorie dell’anarchico americano Murray Bookchin morto nel 2006, di origine marxista-leninista passato al trotzkismo nel 1936 e cacciato anche dall’allora PC americano nel 1939 con l’accusa di praticare “trotzkismo anarchico” per approdare nel libertarismo e nell’anarchia, delineando un progetto di comunalismo che racchiudeva in sé lo spirito del comune, dei beni comuni e del comunismo come filosofia di vita e non come progetto politico reale, il leader curdo ha impresso una svolta teorica-ideologica e strategica nel PKK, che oggi non aspira più a costruire uno Stato curdo indipendente, ma solo ad allargare zone di autonomia e autogoverno attraverso il cosiddetto “Confederalismo democratico”. Ossia un percorso di democrazia diretta con comuni e cooperative, consigli di strada locali e regionali, allo scopo sì di aumentare il coinvolgimento politico, la partecipazione e la gestione della proprietà collettiva ma con un rapporto basato sui valori comuni e interclassisti di tolleranza e mutualistica coesistenza, che niente hanno a che vedere con il socialismo e il comunismo. Addirittura in Rojava la proprietà privata e l’imprenditorialità capitalista sono protetti dalla sua stessa Costituzione, con l’obiettivo di “mettere la proprietà privata al servizio di tutti i popoli che vivono in Rojava”.
Nel pensiero e nelle convinzioni di Ocalan “l’ecologia sociale” è il nuovo punto di approdo del livello di civiltà e democraticità di una società e la visione della sacralità della donna, addirittura di un ritorno alle condizioni della società matriarcale, seppure in uno stato avanzato, quale condizione per “realizzare al meglio la natura umana”.
Il PKK, di cui Ocalan è stato uno dei fondatori, esordì come organizzazione marxista-leninista fedele al pensiero di Mao a Ankara dopo il golpe militare del 1971, e si costituì in Partito il 27 novembre 1978. Il suo obiettivo iniziale era la realizzazione di uno Stato curdo indipendente e socialista. Il 20 ottobre 1998 in base all'accordo turco-siriano Damasco dovette sospendere immediatamente ogni aiuto al PKK ed espellerne il leader Ocalan e i suoi tremila guerriglieri. Proveniente da Mosca, ospitato dai socialimperialisti, Ocalan sarà arrestato a Roma con la complicità dell’allora governo D’Alema. Il 16 gennaio 1999 sarà estradato in Kenia, dove sarà catturato il 15 febbraio a Nairobi dagli agenti della CIA, del Mossad e del Mit (i servizi segreti turchi) che lo consegneranno alle autorità di Ankara. Sta ancora scontando l'ergastolo nella prigione dell'isola turca di Imrali, da dove anche nei giorni scorsi si è detto disposto ad aprire negoziati con i boia fascisti turchi capitanati da Erdogan.
Dal 1997 il PKK era stato intanto incluso nella lista delle formazioni terroristiche compilate dal Dipartimento di Stato americano e dal 2002 è incluso nelle corrispettive liste dell’Unione Europea.
A partire dal 1999 ha abbandonato ufficialmente il marxismo-leninismo rimuovendo il simbolo della falce e martello dalla sua bandiera. Ocalan dal carcere ha impartito le direttive: rinnegare non solo il marxismo-leninismo, ma tutta la storia del movimento comunista internazionale e la sua lotta antimperialista. Il socialismo (per lui “capitalismo di Stato”) non può essere la meta del popolo curdo né tantomeno un valido strumento per “l’autonomia federale” all’interno dei vari Stati in cui è presente il Kurdistan, tutto il Partito doveva adottare la nuova piattaforma politica del “Confederalismo democratico”.
Per Ocalan, sue parole, “Il Confederalismo democratico del Kurdistan non è un sistema di Stato, è il sistema democratico di un popolo senza Stato. Prende il potere dal popolo e l’adatta per raggiungere l’autosufficienza in ogni campo tra cui l’economia”. Bahoz Berxwedan, comandante dell’YPG, docente di educazione politica della provincia di al-Hasakah, è diretto e chiarisce bene programma e natura del Rojava: “Non siamo comunisti né per l’indipendenza di uno Stato curdo. Noi siamo democratici che sostengono la terza via in Siria, sulla base del “Confederalismo democratico” tracciato da Abdullah Ocalan. La YPG è una milizia popolare e le persone sono libere di sostenere ogni ideologia”. Haval Rachid, co-presidente del dipartimento di economia del Kurdistan siriano, spiega: “Vogliamo che la nostra economia sia costituita per l’80% da cooperative, non crediamo in un modello socialista che proibisca l’iniziativa privata. La nostra idea è che ogni persona abbia un ruolo economico attivo nella società e che la trasformazione avvenga gradualmente attraverso la partecipazione della gente”.
Il Rojava dunque viene proposto come una “terza via”, tra il neoliberismo capitalista e il socialismo, che di fatto si accoda a tutte quelle esperienze come lo zapatismo nel Chiapas messicano e a quelle simili anche in Italia basate sull’autogoverno e sulla democrazia diretta, che in definitiva decretano la fine di ogni orizzonte alternativo al capitalismo e all’imperialismo, che possono essere migliorati ma non superati. Il fatto che la nuova struttura economica e la sovrastruttura politica instaurata in Rojava non mirino all’eliminazione della proprietà privata, all’abolizione delle classi ma all’interclassismo, che il sistema tribale rimane in piedi e che i leader tribali partecipino pesantemente nell’amministrazione della Regione dimostrano che non vengono rimossi i rapporti feudali né quelli della produzione capitalistica. Secondo i suoi promotori il modello Rojava dovrebbe essere un modello per l’intero Medio Oriente. Aperta questa porta si è gettato alle ortiche non solo l’aspirazione al socialismo ma anche l'antimperialismo e l’obiettivo di conquistare uno Stato curdo indipendente e sovrano.
8 gennaio 2025