Il ruolo del governo Meloni
Lotta nell'alta finanza per l'egemonia bancaria: Unicredit vuole annettersi Bpm, Mps tenta la scalata di Mediobanca
L'obiettivo è l'accorpamento dei più forti poli bancari
Nazionalizzare tutte le banche
Da alcuni mesi grandi sommovimenti sono in corso nel mondo delle banche e dell'alta finanza per il riassetto degli equilibri di potere nel forziere del capitalismo italiano. Ne sono protagonisti alcuni dei principali istituti di credito e di risparmio gestito, come Unicredit, Banco Bpm, Mps, Mediobanca e Generali, industriali e finanzieri come Caltagirone e gli eredi di Del Vecchio, e il governo neofascista Meloni, che di queste manovre vuole essere il grande regista, inseguendo il vecchio sogno di tutti i governi e i partiti della destra e della “sinistra” borghesi di mettere le mani su pezzi del sistema bancario per le proprie necessità e secondo i propri obiettivi politici.
A innescare il maremoto è stata Unicredit, la seconda grande banca italiana dopo Intesa Sanpaolo, che il 25 novembre scorso ha lanciato un'offerta pubblica di scambio (ops) da 10,1 miliardi sulla totalità delle azioni di Banco Bpm, offrendo un premio (per ora basso) dello 0,5% agli azionisti della banca milanese diretta da Giuseppe Castagna. Secondo l'amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, l'operazione “punta a rafforzare la posizione competitiva di Unicredit in Italia”, creando “una seconda banca ancora più forte in un mercato attraente”, facendo nascere una banca da 77,6 miliardi di capitalizzazione in Borsa, quasi 100 mila dipendenti, 5 mila filiali e 19 milioni di clienti.
A far gola a Unicredit, che pure vale sei volte Bpm, è la forte presenza di quest'ultima al Nord, dove detiene oltre 1.000 filiali e più del 70% della sua rete, mentre l'istituto diretto da Orcel è presente soprattutto al Sud, e con l'acquisizione-fusione col Banco vedrebbe salire la sua quota di mercato nel Nord Italia dall'11 al 20%. L'offerta su Bpm è stata lanciata nonostante che Unicredit avesse e abbia tuttora in corso un'offerta pubblica di acquisto (opa) sulla tedesca Commerzbank, stoppata però dal governo Scholz; ma che Orcel tiene ancora sul tavolo in attesa del nuovo governo che uscirà dalle elezioni in Germania. Anche il governo italiano, però, non ha accolto favorevolmente l'ops di Unicredit su Bpm. In particolare la Lega, con il ministro dell'Economia e delle Finanze Giorgetti che ha parlato di un'operazione “comunicata ma non concordata con il governo”, ventilando anche la possibilità di usare il golden power
del Mef per fermarla in nome della “difesa dei risparmi degli italiani”.
Il progetto di terzo polo marcato Lega
Perché quest'entrata a gamba tesa del titolare del Mef, che di fatto trattava come “ostile” l'ops di Unicredit su Bpm, nonostante che la banca di Orcel sia italiana a tutti gli effetti? Perché veniva a cadere mentre era in pieno corso la privatizzazione del Monte dei Paschi di Siena, dopo che la banca senese è stata salvata a suon di miliardi pubblici con l'ingresso del Mef nel capitale azionario, e dopo il “risanamento” del bilancio operato dalla gestione dell'ad Luigi Lovaglio. E lo stesso Mef, che ne conserva ancora il controllo con l'11,7% delle quote, stava portando avanti un progetto di fusione proprio tra Mps e Bpm, con l'obiettivo di costituire un “terzo polo bancario” fortemente radicato nel Centro-Nord.
Un progetto perciò soprattutto a trazione Lega, che considera il Banco Bpm la sua banca, così come Fassino e il PD consideravano Unipol al tempo della scalata a Bnl (“allora, abbiamo una banca?”). Progetto che l'operazione di Unicredit rischiava adesso di mandare all'aria. Non per nulla aveva scatenato l'ira di Salvini, che chiamava in causa anche Bankitalia per stoppare la mossa di Unicredit, accusandola di essere pilotata da mani straniere: “A me sta cuore – tuonava il caporione fascioleghista - che realtà come Bpm e Mps, che stanno collaborando e sono soggetti italiani che potrebbero creare un terzo polo italiano, non vengano messe in difficoltà. L'interrogativo mio e di tanti risparmiatori è: Bankitalia c'è? Che fa”? E poi aggiungeva: “Non vorrei che qualcuno volesse fermare l'accordo Bpm-Mps per fare un favore ad altri”.
In realtà, anche se ha in pancia molti fondi esteri, cosa per cui Salvini l'accusa di essere una banca straniera, Unicredit è una banca a prevalente capitale diffuso, come del resto Bpm, ha sede ed è quotata in Borsa a Milano e paga le tasse in Italia, per cui la sua accusa di voler portare Bpm in mani straniere è del tutto pretestuosa; così come la minaccia di Giorgetti di usare il golden power
sembra piuttosto un'arma scarica. Anche perché nessuno dei due ha battuto ciglio alla contromossa del primo azionista di Bpm, il francese Crédit agricole, quando ha aumentato la propria quota dal 9 al 15% (potendo salire in seguito fino al 19,9%), evidentemente per avere più voce in capitolo negli sviluppi dell'operazione lanciata da Unicredit. Così come non avevano sollevato obiezioni all'opa da 1,6 miliardi lanciata il 6 settembre da Bpm per l'acquisto totale di Anima, società di risparmio gestito, di cui detiene già il 22,4%, contando di realizzare insieme attività per 390 miliardi.
Quanto ai loro partner di governo, Tajani (forse anche a nome degli eredi di Berlusconi) si rifiutava di seguirli nel loro ostracismo, invocando la “libertà di mercato”; e la stessa Meloni, anche a marcare un certo distacco dal progetto di fusione Bpm-Mps targato Lega, evitava di prendere una posizione netta contro l'operazione Unicredit: “Si tratta di un'operazione complessa. Bisogna capire come va avanti. E c'è chi si occupa di controllare che tutto avvenga nel più corretto dei modi”, si è limitata a far trapelare dalle fonti del suo partito.
Il nuovo terzo polo gradito a Meloni
Decisamente entusiasta è stato invece il commento della premier alla notizia, piombata il 23 gennaio a cambiare tutte le carte in tavola, dell'offerta pubblica di scambio azionario da 13,3 miliardi lanciata da Mps su Mediobanca, per l'acquisizione totale dell'istituto diretto da Alberto Nagel, segno che stavolta l'operazione porta soprattutto il suo marchio politico: “L’operazione dovrebbe rendere tutti quanti orgogliosi”, ha dichiarato infatti parlando da Gedda, perché “se dovesse andare in porto parleremo della nascita di quel terzo polo bancario che potrebbe avere un ruolo importante nella messa in sicurezza del risparmio degli italiani”.
Che cosa intendeva dire la premier neofascista, e perché il suo governo ha abbandonato il progetto di fusione di Mps con Banco Bpm preferendogli quello ancor più ambizioso di acquisire il controllo di Mediobanca? Certo ha pesato l'operazione di Unicredit, che nonostante sia stata respinta come “ostile” dal cda di Bpm, perché “inadeguata” (leggi troppo bassa), “riduce l'autonomia e mette a rischio le operazioni Anima e Mps”, oltre a destare “forti preoccupazioni occupazionali” (ci sarebbero infatti tagli per 6.000 posti di lavoro), resta comunque sul tavolo e sembra destinata ad andare per le lunghe, in previsione di un aumento del premio di offerta da parte di Orcel, il quale si è dichiarato disponibile al rilancio.
Ma a rendere ben più appetibile il nuovo progetto di terzo polo con Mps e la banca d'affari milanese, che ai tempi di Enrico Cuccia fungeva da stanza di compensazione del capitalismo italiano (il suo “salotto buono”), è indubbiamente il fatto che essa è a sua volta la chiave per controllare Generali, la “cassaforte dei risparmi degli italiani”. Quelli appunto a cui fa riferimento la ducessa e che da anni scatenano le lotte tra le diverse cordate politico-finanziarie per metterci le mani sopra.
Il disegno della cordata Mps-Caltagirone-Del Vecchio
Attualmente la composizione delle Assicurazioni Generali, dirette da Philippe Donnet, vede tra i principali azionisti Mediobanca col 13%, il costruttore romano Caltagirone, col 6,9%, Delfin (la finanziaria lussemburghese degli eredi del fondatore di Luxottica, Leonardo Del Vecchio), col 9,9%, e la stessa Unicredit, col 5%. Trattandosi però di imprenditori, Caltagirone e Delfin, che da tempo mirano a prendere insieme il controllo dell'istituto triestino, non possono per legge far valere le loro quote come maggioranza relativa, e hanno bisogno di altri alleati. Ecco perché adesso puntano, in cordata col governo e Mps, a prendere il controllo di Mediobanca, di cui detengono insieme già un cospicuo pacchetto: 19,8% Delfin e 5,5% (in attesa di convalida del 7,5% appena acquisito) Caltagirone.
L'altro socio in Mediobanca è il potente fondo americano Black Rock, del magnate Larry Fink, ottimo amico di Meloni, come del resto lo è il costruttore romano ed editore del Messaggero
, uno dei giornali che la fiancheggiano. Insieme a Mps (di cui hanno recentemente comprato rispettivamente il 5% e il 9,8%), Caltagirone e Delfin arriverebbero quindi a controllare Mediobanca, e con essa anche Generali. Inoltre anche Fininvest e Black Rock, visti i loro legami politici, potrebbero essere interessati ad entrare nella loro cordata sponsorizzata da Meloni e Giorgetti.
L'ad di Mediobanca, Nagel, ha definito “ostile” l'ops di Mps, per cui bisognerà vedere se l'operazione riesce; anche perché, al contrario di quella Unicredit-Bpm, stavolta è una banca più piccola a voler mangiare una più grossa. Sul mercato Mps vale infatti il 70% del suo patrimonio, mentre Mediobanca vale il 120%. Ciononostante, contro tutte le regole, l'istituto senese pretende di scalarla lo stesso, e nemmeno in contanti ma pagando in azioni.
A giustificazione della partecipazione alla spericolata operazione, il governo Meloni accampa motivi di difesa dell'“interesse nazionale”, cioè per bloccare un accordo che Generali sta stringendo con la francese Natixis, che punta alla creazione del secondo gruppo europeo di risparmio gestito: qualcosa che metterebbe insieme gli 800 miliardi della prima con i 1.200 amministrati dalla seconda, e che, solo sulla carta, sarebbe governato in maniera paritaria. A questa operazione, evidentemente per ragioni di concorrenza, si oppone anche Intesa, il cui ad Carlo Messina è un dichiarato ammiratore della premier. Unicredit non si sa invece ancora come si schiererà nel risiko centrato su Generali.
Lauti profitti e guerre per la concentrazione
Appare comunque evidente che le guerre in corso sulla fusione Unicredit-Bpm per rafforzare il secondo polo italiano e insidiare la posizione egemonica di Intesa, e quella su Mps-Mediobanca per creare un terzo polo che controlli anche Generali, fanno parte di un grosso processo di concentrazione e riorganizzazione dell'universo bancario italiano, inserito a sua volta in quello più largo in atto su scala europea, caldeggiato anche da Draghi nel suo rapporto sulla competitività della Ue imperialista, che tra i suoi capisaldi propugnava proprio la concentrazione dei poli bancari e la creazione di un mercato unico dei capitali. Specie ora che servono finanziamenti colossali per sostenere il massiccio riarmo della superpotenza europea.
È altrettanto evidente che il governo neofascista Meloni non si limita ad assistere e controllare che si “rispettino le regole”, come dettano gli ipocriti “princìpi” stabiliti dall'Ue, ma interviene nel vivo e cerca di indirizzare questo processo secondo la sua visione e i suoi obiettivi politici corporativi e nazionalisti. Anche in contrasto, se necessario, con il percorso indicato da Draghi, e badando soprattutto a rafforzare i suoi legami con il grande capitale industriale e finanziario italiano. Non a caso si è guardato bene dal tassare realmente gli enormi profitti bancari realizzati in questi anni, che sono la benzina che ora serve alle grandi banche per alimentare la costosa guerra per la concentrazione del potere finanziario. Lo ha ammesso anche il governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, stretto alleato di Meloni, che ha benedetto le scalate bancarie in corso riconoscendo che se oggi si assiste a un tale “dinamismo”, è perché le Ops sono “favorite in primo luogo dall’abbondanza di capitale in eccesso”, grazie al boom degli utili incassati col rialzo dei tassi degli ultimi anni.
Occorre stare attenti, perciò, a non confondere la demagogica “difesa degli interessi nazionali” - dietro cui la destra neofascista al governo (ma anche in una certa misura l'opposizione aventiniana), nasconde in realtà la difesa degli interessi suoi e della classe dominante borghese capitalista e imperialista italiana - con la difesa degli interessi del proletariato e delle masse popolari. Difesa che nel caso specifico non può che consistere, al contrario della politica neocorporativa del governo, nel rivendicare la nazionalizzazione di tutte le banche per sottrarle al controllo privato dei gruppi di potere industriali e finanziari capitalisti.
19 febbraio 2025