La Cassazione demolisce il decreto fascista “Sicurezza”
Perché Mattarella non lo ha bocciato?
Bocciato anche il piano Albania
A poche settimane dalla sua conversione in legge il decreto liberticida e fascista “Sicurezza” è già stato demolito punto per punto dalla corte di Cassazione, sia per quanto riguarda il metodo, perché mancante dei necessari requisiti di necessità e urgenza, sia nel merito, perché molti dei nuovi reati e degli spropositati aumenti di pena presentano profili di incostituzionalità, violando principi basilari come quelli di “ragionevolezza” e “proporzionalità” e andando a ledere libertà fondamentali come quella di “manifestazione del pensiero e di riunione” e il “diritto di sciopero e di dissenso”.
La Cassazione lo ha stabilito in un corposo documento di 129 pagine pubblicato il 23 giugno dal suo Ufficio del Massimario, un servizio dove vengono depositati le analisi e i pareri non vincolanti sulle nuove leggi a disposizione dei giudici per le controversie interpretative e applicative, compresi gli eventuali ricorsi alla Corte costituzionale. Dando così ragione ai movimenti di lotta contro l'ex DDL 1660 e alle centinaia di costituzionalisti, giuristi, magistrati e avvocati, alle decine di esperti auditi dalle commissioni parlamentari, nonché alle documentate critiche di organismi internazionali come l'Osce, il Consiglio d'Europa e i relatori delle Nazioni Unite per i diritti umani, che la Corte stessa ha abbondantemente citato nella sua relazione.
La mancanza di presupposti di necessità e urgenza richiesti dall'articolo 77 della Costituzione, con la conseguente mortificazione dei poteri del parlamento, viene sottolineata osservando che “la prassi parlamentare annovera due soli precedenti di trasposizione dei contenuti di un progetto di legge in discussione in Parlamento in un decreto-legge, a suo tempo in effetti censurati dalla dottrina costituzionalistica e, in ogni caso, nessuno dei due riguardava la materia penale”.
Si sottolinea poi che il governo non ha saputo dare alcuna spiegazione logica sull'urgenza del provvedimento, tanto che neanche la relazione di accompagnamento del decreto ne fa menzione. Inoltre esso manca della necessaria “omogeneità”, spaziando tra decine di reati diversi, che per legge avrebbero dovuto essere discussi separatamente invece che in un unico testo, ciò che potrebbe essere impugnato per “conflitto di attribuzione” dagli stessi parlamentari, secondo l'Art. 72 della Costituzione.
Infine, il decreto non è stato presentato subito alle Camere, come prescrive l'Art. 77, ma in ritardo di 5 giorni (consentendo quindi altre possibili modifiche o aggiunte), ciò che potrebbe determinare “l'invalidità della legge di conversione”. Mancanze tanto più gravi, queste da parte del governo, in quanto si tratta di materia penale, normalmente “non compatibile con la procedura d'urgenza”. Da parte nostra aggiungiamo che queste inoppugnabili osservazioni della Cassazione sbugiardano pesantemente non solo il governo neofascista, ma anche il capo dello Stato Mattarella, che ha voluto dare via libera al decreto nonostante che parecchi costituzionalisti, magistrati e giuristi ne avessero pubblicamente denunciato la palese mancanza dei requisiti di necessità e urgenza; senza contare che lo sapeva benissimo anche lui, essendo stato un membro della Corte costituzionale.
Violazione dei diritti di manifestazione, dissenso e sciopero
Quanto al contenuto del decreto, prima ancora di entrare in merito ai singoli articoli, la Cassazione sottolinea in generale che “la discrezionalità del legislatore non equivale ad arbitrio”, e che “le disposizioni che costituiscono espressione di tale discrezionalità, e segnatamente quelle che determinano il trattamento sanzionatorio, in quanto destinate a incidere sulla libertà personale dei loro destinatari, devono quindi ritenersi suscettibili di controllo da parte di questa Corte per gli eventuali vizi di manifesta irragionevolezza o di violazione del principio di proporzionalità”. Così come devono sottostare al “principio supremo” di “tassatività e determinatezza”.
In particolare, d'accordo con la copiosa pubblicistica in merito, il decreto rischia la possibile “violazione di plurimi principi costituzionali in materia penale”, quali: il “principio di sussidiarietà e di extrema ratio”; il “principio di necessaria offensività”; il “principio di sufficiente determinatezza e precisione della fattispecie incriminatrice”;
il “principio di personalità della responsabilità penale” (cioè, “calibrata sulla situazione del singolo condannato”), nonché il principio del finalismo rieducativo della pena”. A ciò si aggiungono altresì il rischio di ledere “le fondamentali libertà di manifestazione del pensiero”, nonché di riunione e di sciopero, a fronte di nuove fattispecie incriminatrici e aumenti di pene, che “vanno deliberatamente a colpire a scopo repressivo, l’area della manifestazione del dissenso e le sue modalità di espressione, specie nei luoghi e tra le persone, ove più acutamente emergono disagio, diseguaglianza, povertà, e dove pertanto è più probabile che tale dissenso deflagri in pubbliche manifestazioni di protesta”.
È questo il caso del blocco stradale e ferroviario (art. 14), trasformato da illecito amministrativo in crimine punibile da sei mesi a due anni di reclusione se commesso da più persone, anche in forma pacifica e con il solo uso del corpo. In proposito la Corte sottolinea infatti che esso è “un mezzo per esprimere il dissenso, il disagio sociale, il conflitto nel mondo del lavoro”, e che si esprime “ponendo in essere forme di protesta strettamente correlate all’esercizio di diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti: lo sciopero (art. 40), la riunione (art. 17), la manifestazione del pensiero (art. 21)”. Un esempio della mostruosità di un simile abuso è stato offerto subito dalla questura che ha annunciato l'incriminazione, sulla base del nuovo reato, dei metalmeccanici in sciopero che avevano bloccato la tangenziale di Bologna.
Discriminazioni per carcerati, migranti e donne rom
Un altro esempio riguarda le aggravanti e le sospensioni condizionali della pena applicate in caso di reati commessi in un determinato luogo (stazioni o a bordo di treni), da determinati soggetti (carcerati, migranti), o in un particolare contesto (“in occasione di manifestazioni”), col che si corre il rischio di considerare un “disvalore” la “contestazione e il dissenso”. Sul reato di rivolta all'interno di carceri, facendo un altro esempio, la relazione esprime forti dubbi sulla punibilità di chi si oppone agli ordini impartiti, dato che non si cita la legittimità di tali ordini, così come è discutibile la punibilità della “mera disobbedienza”, ossia la semplice resistenza passiva esente da violenza o minaccia, come può essere il rifiuto del cibo o dell'ora d'aria. Quanto alle rivolte nei Cpr, l'intento del legislatore sembra quello “di punire più che una condotta, un tipo di autore: il migrante, con ripercussioni sul principio di uguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione”.
Lo stesso intento discriminatorio, in questo caso verso le donne di etnia Rom, viene rilevato dalla Corte sull'articolo 15, che obbliga di fatto le donne incinte o con figli minori di un anno (un solo giorno fa la differenza) a scontare la pena negli Icam: “La scelta – si osserva - è una palese violazione dei principi costituzionali di tutela della maternità e dell’infanzia (art. 31) e di umanità della pena (art. 27), tanto più in considerazione delle condizioni in cui versano le carceri italiane e dei pochi posti disponibili nei soli quattro istituti a custodia attenuata per detenute madri: tre al Nord e uno solo al Sud. Il che pone anche un problema di distanza dal luogo di residenza del resto della famiglia”.
L'attenzione della Suprema corte al problema del “disagio sociale”, che il decreto “Sicurezza” non prende neanche in considerazione, emerge in tutta la sua importanza nell'analisi dell'art. 10 che riguarda il nuovo reato “occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui”: “Lo Stato italiano non solo non garantisce il diritto a un alloggio adeguato, ma commina agli occupanti sanzioni penali, quali la reclusione da due a sette anni, che paiono violare gli elementi fondamentali di ragionevolezza, necessità e proporzionalità”, scrive infatti la Corte al termine di una dettagliata critica del nuovo reato. Sollevando anch'essa gli stessi interrogativi dei sindacati degli inquilini, e cioè se il reato può essere applicato “anche agli affittuari il cui contratto è scaduto”, cosa rilevante specie se in famiglia vi siano “bambini, disabili, anziani o persone in disagio sociale od economico”.
“Reato di sospetto” e poteri illeciti ad agenti e servizi segreti
“Possibili profili di incostituzionalità” vengono poi attribuiti all'art. 1 del decreto, sul nuovo reato di detenzione di materiale pubblicistico per finalità di terrorismo, che configurerebbe “una sorta di reato di sospetto o di volontà” di commettere attentati, senza aver materialmente posto in essere alcun concreto preparativo per attuare gli stessi.
Quanto poi a certe norme a tutela delle “forze dell'ordine”, come l'autorizzazione agli agenti di pubblica sicurezza a portare armi senza licenza quando non sono in servizio, la Corte sottolinea il pericolo di “un incentivo alla diffusione delle armi in circolazione”, e che la norma non ha nessun “plausibile ratio politico-criminale”. Ancor meno ce l'ha l'art. 31, che estende le immunità concesse agli agenti dei servizi segreti infiltrati sotto copertura in organizzazioni terroristiche, fino a poterle dirigere e finanche organizzare attentati, del quale la relazione parla come di “un assoluto inedito nel panorama penalistico di riferimento, posto che la direzione e organizzazione delle predette associazioni è fenomeno ben diverso, più grave e più pericoloso rispetto alla già sperimentata possibilità di infiltrazione”. Fra l'altro esso potrebbe “consentire l’organizzazione e direzione di associazioni vietate dall’articolo 18 della Costituzione”: associazioni segrete golpiste tipo la P2, per intendersi.
Le numerose falle del protocollo Albania
Manco a dirlo la relazione della Cassazione sul decreto “Sicurezza” ha scatenato le ire del governo neofascista Meloni, a cominciare dal suo primo firmatario, il Guardasigilli Nordio, che si è detto “incredulo” e ha lanciato velate minacce di “verifiche” sulla correttezza della divulgazione della relazione da parte della Corte. Molto significative le dichiarazioni del vicepresidente dei deputati di FdI, Rampelli, che facendosi non a caso scudo di Mattarella, ha contestato la Corte per aver condannato “senza averne il potere una legge voluta dal Parlamento e promulgata dal Capo dello Stato”; e quella del capogruppo dei senatori di FI, Gasparri, per il quale “mentre si fa la riforma della giustizia, la Cassazione ci dà una motivazione in più per fare un cambiamento di regole”, alludendo evidentemente alla separazione piduista delle carriere per sottomettere una volta per tutte i magistrati al governo. Da parte della Lega si coglie l'occasione per rilanciare con una nota “un nuovo provvedimento per rafforzare ancora di più la sicurezza, con particolare riferimento alla tutela delle forze dell’ordine”: vale a dire il famigerato “scudo penale” per gli agenti violenti colpevoli di abusi, che li sottragga alle indagini della magistratura.
La rabbia del governo verso i giudici della Cassazione ha raggiunto il picco dopo la notizia che un'altra relazione di 48 pagine depositata nel Massimario, servizio civile stavolta, ha demolito anche il famigerato “protocollo Albania” su cui la Mussolini in gonnella ha centrato la sua politica illegale di respingimenti e rimpatri dei richiedenti asilo, deportandoli nei costosi lager di Shengjin e Gjiader. In particolare ad essere entrato sotto la lente della Cassazione è la legge di conversione del decreto che a fine marzo ha esteso l’uso delle strutture, inizialmente riservate ai richiedenti asilo mai entrati in Italia, come Cpr per i migranti “irregolari” già presenti sul territorio nazionale.
La relazione rileva che “il Sistema europeo comune di asilo ha una dimensione squisitamente territoriale” e per questo fare domanda di protezione nel territorio di un paese terzo crea discriminazioni, riducendo le tutele previste dalle direttive. Come ad esempio la mancanza di misure alternative al trattenimento, fatto che si traduce nella detenzione generalizzata dei richiedenti vietata dalle norme Ue. Ci sarebbe inoltre una possibile violazione dell'art. 3 della Costituzione (uguaglianza davanti alla legge) perché il protocollo Albania parla genericamente di “migranti”, senza definire precisamente chi va trasferito là e chi no. Potrebbero essere violati anche l'art. 13 (inviolabilità della libertà personale), per l'impossibilità di rimettere subito in libertà il migrante al termine del trattenimento, dati i tempi d'attesa per il trasferimento; l'art. 24 (diritto di difesa), che è fortemente limitato da remoto, e così via.
E il governo? Sta già pensando di correre ai ripari con l'ennesimo decreto per aggirare anche questo imprevisto scoglio rappresentato dalla relazione della Cassazione: quello che il ministro Piantedosi ha definito “un esercizio connotato da una forte impostazione ideologica”. “Avviso ai naviganti, ai fiancheggiatori e ai complici (i giudici di Cassazione? ndr)”, ha tuonato perciò il ministro per gli Affari europei, Tommaso Foti: “il governo Meloni andrà avanti nella lotta all’immigrazione irregolare, forte anche del consenso che la sua posizione registra in Europa, oltre che tra gli italiani”.
9 luglio 2025