Rimane aperto il "mistero" di 13 anni fa Mori non perquisì il covo di Riina: assolto I Pm invitano l'attuale direttore del Sisde e De Caprio a chiedere scusa agli italiani Ma chi dette l'ordine di non perquisire il covo dell'allora capo di "cosa nostra"? Il 19 febbraio i giudici della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presieduta da Raimondo Lo Forti, hanno assolto dall'accusa di favoreggiamento aggravato a cosa nostra il prefetto Mario Mori, attuale direttore del Sisde, e il tenente colonnello Sergio De Caprio, l'ex "capitano Ultimo". I due imputati erano stati rinviati a giudizio il 18 febbraio 2005 in quanto ritenuti i responsabili sul campo della mancata perquisizione del covo del boss Totò Riina subito dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio del 1993. Nella loro arringa difensiva gli avvocati Pietro Milio (legale dell'allora colonnello Mario Mori, oggi generale e promosso prefetto e direttore del Sisde,) e Francesco Antonio Romito (difensore di De Caprio oggi tenente colonnello ufficialmente in forza ai Nuclei antisofisticazione dei carabinieri) avevano chiesto "una sentenza definitiva, chiara, che fughi le ombre che non ci sono" e che "attesti che questi uomini egregi sono immuni da sospetti". Sul piano tecnico-giuridico la sentenza di assoluzione, tra l'altro motivata dal fatto che i reati ascritti ai due imputati "non costituiscono reato", soddisfa in pieno le richieste della difesa. Il reato di favoreggiamento aggravato a cosa nostra è stato prima derubricato a favoreggiamento semplice e quindi dichiarato prescritto dopo l'entrata in vigore della ex Cirielli, ossia la stessa legge imposta dal neoduce Berlusconi e votata all'unanimità dalla casa del fascio per salvare il presidente del Consiglio e la sua banda di malfattori dai guai giudiziari, che si applica anche a questo tipo di reato e prevede un massimo di 6 anni di indagini, trascorsi i quali (dal '93 ad oggi ne sono passati 13) scatta la prescrizione. Sul piano politico invece questa sentenza è gravissima perché, invece di contribuire a fare piena luce su uno dei più inquietanti "misteri" che nel corso degli ultimi anni ha caratterizzato il criminale intreccio fra potere politico e potere mafioso, allunga nuove ombre e addensa sospetti ancora più inquietanti sull'intera vicenda. È a dir poco scandaloso che dopo quasi un anno di dibattimento venga emessa una sentenza di assoluzione senza dire una parola sulla "ragion di Stato" che ha indotto i massimi vertici politici e istituzionali a ordinare a Mori e De Caprio di non perquisire il covo di Riina. È incredibile che a due "uomini egregi immuni da sospetti", a due alti ufficiali dei nuclei "d'eccellenza investigativa dell'Arma dei carabinieri" a cui viene riconosciuta unanime "esperienza e professionalità" non venga in mente di perquisire e sorvegliare il covo dell'ex boss dei boss della mafia a cui hanno dato la caccia per quasi mezzo secolo consentendo di fatto ai mafiosi della famiglia Sansone, che avevano in carico la latitanza di Riina, di portar via dal covo la moglie e i 4 figli del capomafia, di svuotare l'appartamento da cima a fondo, di portare via la cassaforte con dentro tutto l'archivio e i documenti di Riina, di farlo ritinteggiare e ristrutturare, il tutto nella certezza di non essere arrestati né filmati né osservati. È vero che al termine del dibattimento sono stati gli stessi Pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino a chiedere l'assoluzione dei due imputati; ma è altrettanto vero che tale richiesta era scontata fin dall'incriminazione dei due imputati data l'impossibilità di dimostrare con prove certe che Mori e De Caprio non perquisirono il covo per fare un favore alla mafia. Perché, come hanno sottolineato gli stessi Pm, quella scelta non fu fatta per "ragion di mafia", ma per "ragion di Stato". Che tradotto in parole semplici vuol dire che Mori e De Caprio presero ordini dall'alto e agirono per coprire quei vertici istituzionali e di Stato che avevano "trattato" con cosa nostra durante e dopo le stragi di Capaci e via d'Amelio, e dunque fecero di tutto per evitare che il blitz su Riina portasse alla luce il criminale intreccio fra Stato e mafia e quindi alla scoperta dei boss politici e istituzionali e capi mafia protagonisti di quell'inconfessabile trattativa. Non a caso il pm Ingroia al termine della sua requisitoria ha affermato che Mori e De Caprio quantomeno "dovrebbero chiedere scusa ai cittadini italiani'' per la loro condotta. È certo che le trattative fra Stato e mafia ci furono. Dunque è lecito supporre che sia intervenuto un baratto sotto banco tra lo Stato e cosa nostra in cui il boss dei boss Bernardo Provenzano avrebbe detto: io vi consegno Riina e voi mi date il suo archivio. In cambio io pongo fine alle stragi e voi non mi cercate (o fate finta). Perciò è assurdo sostenere, come fanno Mori e De Caprio, che mantenere il servizio di osservazione e di teleripresa dinanzi al covo dopo la cattura di Rima era ormai "impossibile, dato lo stress a cui erano sottoposte le forze dell'ordine in quel periodo" e che comunque ciò "non sarebbe servito a nulla". Pur ammettendo che ciò fosse vero, viene comunque da chiedersi: chi 13 anni fa impartì l'ordine di non perquisire subito il covo? Chi e perché ha deciso di rinunciare alla cattura dei fratelli Snasone e di tutti i favoreggiatori di Riina? E soprattutto chi e perché ha permesso che le importantissime carte che Riina teneva in cassaforte invece di essere sequestrate dagli inquirenti finissero nelle mani di Bernardo Provenzano che potrebbe usarle per ricattare i fautori di quella scellerata trattava fra Stato e mafia e usarle praticamente come assicurazione sulla propria vita? Misteri inquietanti a cui perfino Riina non sa rispondere dal momento che, esattamente un anno fa, appena appresa la notizia del rinvio a giudizio degli uomini che lo hanno ammanettato, sibillinamente ha affermato: "Mi hanno venduto, qualcuno dall'alto ha guidato la mia cattura e non è stato certamente Balduccio Di Maggio". La lussuosa villa di via Bernini, a Palermo - in cui si "nascondeva" Riina con la famiglia - fu perquisita dai carabinieri quasi tre settimane dopo l'arresto del capomafia corleonese: nel frattempo era stata svuotata e ripulita dai mafiosi, che avevano anche smontato la cassaforte e imbiancato le pareti per cancellare ogni traccia. Nei concitati momenti seguiti alla cattura del boss, arrivò l'ordine di non procedere alla perquisizione perché i carabinieri avrebbero assicurato "servizi di osservazione" dell'immobile per raccogliere altri elementi utili a ulteriori indagini sulla latitanza di Riina. Ma questi servizi di fatto vennero sospesi poche ore dopo la cattura di Riina e alla Procura ne venne data comunicazione solo diverse settimane più tardi. Sul perché di questa criminale decisione ha risposto il 18 novembre 2005 in un'aula di tribunale la "collaboratrice" Giusy Vitale della cosca di Partinico che ha detto: "Seppi da mio fratello (Vito, fidatissimo di Riina, ndr) che lì dentro c'erano documenti che, se trovati, avrebbero fatto saltare in aria lo Stato". E a domanda ha aggiunto che: "Se le forze dell'ordine ne fossero venute in possesso sarebbe successo il finimondo". In quella cassaforte, secondo quanto dichiarato da Giovanni Brusca, Riina: "teneva soldi, documenti, appunti, conteggi e atti notarili. Non so il contenuto specifico, ma so che in quel momento si parlava sempre di appalti e traffici di droga". 1 marzo 2006 |