In Bangladesh Rivolta operaia contro le multinazionali Dopo la strage nelle fabbriche tessili di Savar Si chiamava Rana Plaza l'edificio di otto piani a Savar, 30 chilometri dalla capitale Dacca in Bangladesh, che il 24 aprile è collassato su se stesso. Dalle macerie i soccorritori hanno tirato fuori oltre 2 mila persone, più di 350 morte, un migliaio quelle ferite e risultano ancora al momento in cui scriviamo diverse centinaia di dispersi. Il palazzo ospitava cinque fabbriche tessili, fornitori per grandi catene di abbigliamento come l'inglese Primark e alcuni grandi marchi europei, un centro commerciale e una filiale bancaria. Il 23 aprile, il giorno precedente al crollo, alcuni ispettori avevano dichiarato il palazzo inagibile e pericolante, con evidenti profonde crepe in tutti i muri. Non un caso dato che la struttura era stata costruita in maniera illegale da un giovane imprenditore su uno stagno prosciugato in modo artificiale. E le autorità non avevano detto nulla. Mentre la direzione della banca teneva a casa i dipendenti, gli altri padroni costringevano i lavoratori a continuare la produzione minacciando multe. Gran parte delle vittime e dei feriti sono operaie e operai, molti minorenni, costretti a lavorare in condizioni al limite del disumano, in turni massacranti per circa 28 euro al mese come nelle decine di migliaia di fabbriche low-cost del paese. In condizione di schiavitù. Il 25 aprile, giornata di lutto nazionale, decine di migliaia di lavoratori in particolare del settore tessile scendevano in piazza a Dacca per chiedere maggiore sicurezza sul posto di lavoro e chiedevano a gran voce "la pena di morte per i proprietari delle fabbriche". Il corteo sfilava fin sotto il palazzo del Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association, l'associazione padronale degli esportatori dove si scontrava con la polizia. Scontri anche nella città satellite a nord di Dacca, Gazipur, sede di molte aziende tessili; molti dimostranti armati di spranghe e bastoni assaltavano le fabbriche e ne imponevano la chiusura, occupavano le strade e alzavano baricate. La rivolta operaia proseguiva anche il 26 aprile, in particolare nella capitale dove migliaia di manifestanti continuavano a chiedere la punizione dei responsabili della tragedia e si scontravano con la polizia. Sotto la pressione della rivolta operaia il ministro degli Interni del Bangladesh ammetteva, ma solo adesso, che l'edifico violava le norme di costruzione e prometteva la punizione dei responsabili. La polizia di Dacca e la Capital Development Authority, l'autorità governativa di gestione della capitale, aprivano due inchieste separate. Le stesse promesse di qualche mese fa dopo che oltre cento lavoratori, in gran parte donne, erano rimaste uccise da un incendio scoppiato nella loro fabbrica dalla quale non erano potute fuggire perché l'uscita di sicurezza era sta sbarrata dal padrone. Vittime del sistema di delocalizzazione che aumenta i profitti delle grandi aziende capitalistiche del settore e che assieme ai padroni locali si mettono in tasca la ricchezza prodotta da quasi de milioni di operai che vedono meno che le briciole di un giro d'affari di circa 20 miliardi di dollari all'anno. 2 maggio 2013 |