Il neonazionalista e presidenzialista Veltroni Walter Veltroni, il leader neonazionalista e presidenzialista del PD, sposato, due figlie, è nato a Roma nel 1955 da una famiglia della medio-alta borghesia: il padre, Vittorio, che morì quando Walter aveva solo un anno, prima della guerra era stato un giornalista dell'Eiar, l'ente radiofonico del regime ("cronista dell'Eiar al seguito di Mussolini", rivendica maliziosamente il Secolo d'Italia del 6 marzo), e successivamente fu per diversi anni un importante dirigente della Rai ("della Rai democristiana", precisa ancora puntigliosamente il foglio di AN). La madre, la slovena Ivanka Kotnik, era figlia dell'ambasciatore del regno di Jugoslavia presso la Santa Sede. Dal padre Walter eredita sia la passione per il cinema che quella per la politica, che lo porteranno a diplomarsi all'Istituto di cinematografia di Roma e a iscriversi giovanissimo al PCI, diventando prima dirigente romano e poi nazionale della FGCI nonché, a 21 anni, consigliere comunale di Roma nelle liste del PCI, carica che conserverà fino al 1981. Nel 1987 viene eletto deputato in parlamento e ci rimarrà per 14 anni, fino alla sua elezione a neopodestà di Roma nel 2001: dunque, checché proclami di voler "svecchiare" e "moralizzare" le liste di deputati e senatori, lui stesso ne ha un bel po' di legislature all'attivo! Senza contare che risulta tra i più giovani pensionati del parlamento, dato che con soli 23 anni di contributi versati si è assicurato dal 2005 un vitalizio mensile di 9 mila euro lordi, per non dire del coinvolgimento nello scandalo di Affittopoli (un prestigioso 192 mq di proprietà Inpdai a due passi da via Veneto accaparrato da sua moglie a soli 373 mila euro). Nel 1988 entra a far parte del Comitato centrale del PCI e si schiera con Occhetto a favore di quella che un anno dopo, col crollo del muro di Berlino, passerà alla storia come la "svolta della Bolognina", in cui l'allora segretario succeduto a Natta con una sorta di colpo di mano dei "giovani colonnelli" (D'Alema, Fassino, Mussi, Burlando ecc.), annunciò all'attonita base del partito che la sua storia finiva lì e che ne cominciava un altro senza la qualifica di "Comunista". Dalla direzione fallimentare de l'Unità al governo con Prodi Dopo la nascita nel 1991 di quel mostriciattolo che fu il Partito democratico della sinistra (PDS), che pose fine al PCI revisionista e ai suoi 70 anni di inganni a danno del proletariato italiano, Veltroni ne diventa uno dei massimi dirigenti, e nel 1992 gli viene affidata la direzione del quotidiano ufficiale della Quercia, l'Unità, carica che terrà fino al 1996, quando diventerà vice di Prodi e ministro dei Beni culturali e ambientali con delega per lo Spettacolo e lo Sport nel primo governo di "centro-sinistra" del liberista privatizzatore democristiano. Già allora invasato dal culto del potere dei moderni mezzi di informazione, impersonato dall'astro nascente Berlusconi a cui guarda come a un modello, Veltroni cercherà di "svecchiare" l'Unità, da organo di partito che è rimasto anche dopo la liquidazione del PCI e trasformarlo in un moderno quotidiano "di opinione", anche con operazioni al limite del temerario e del ridicolo, pescate nel suo del tutto personale mondo di "valori". Che è quello dei miti del cinema e del calcio, dell'America "liberal" e del "sogno kennediano", e del partito democratico Usa di cui si professa già allora un convinto ammiratore, del non credente, quale si definisce, affascinato però dalle figure "carismatiche" della chiesa e del pensiero cattolico, come Dossetti, Don Milani, lo stesso anticomunista Wojtyla, e così via. È così che nascono certe iniziative editoriali come le collezioni di figurine dei calciatori, i gadget in edicola col giornale, e perfino la pubblicazione dei Vangeli da regalare in migliaia di copie ai lettori, presentati in anteprima in Vaticano ad un soddisfatto e benedicente Wojtyla, mentre si fa più spazio alla cronaca, allo sport, alla moda e ad altre frivolezze e la politica è sempre più trattata con un taglio liberale, liberista e borghese. Risultato: negli anni della sua gestione i lettori de l'Unità crollano ai minimi storici e il giornale arriva sull'orlo del fallimento, per poi finire in mano a editori privati e vivacchiare per anni spartito tra tutte le correnti dei DS. Nel 1994, dopo la sconfitta della "gioiosa macchina da guerra" di Occhetto nelle elezioni che segnano il trionfo di Berlusconi e del suo primo governo neofascista, si apre la lotta alla successione del liquidatore del PCI. Veltroni, sostenuto dalla "base" attraverso una pioggia di fax, è uno dei due papabili insieme a D'Alema, più gradito all'apparato. Al Consiglio nazionale del PDS la spunta quest'ultimo, per 249 voti contro 173, e Veltroni resta a l'Unità. Ma nel 1996, con il ticket con Prodi nelle politiche vinte dall'Ulivo, ricomincia la scalata di Walter ai piani alti del potere. Lascia senza rimpianti l'Unità ridotta sul lastrico e si cala nelle vesti di n. 2 del governo Prodi e ministro dei Beni culturali, Sport e Spettacolo: un ministero chiave per la sua carriera politica, in quanto gli permette di coltivare e incrementare al massimo le relazioni e le amicizie con il mondo del cinema, dello sport, dei media e dell'intellighenzia, soprattutto romana, che risulteranno preziose per il successivo balzo in Campidoglio e per la futura incoronazione a leader indiscusso del PD. Relazioni e amicizie che egli coltiva attivamente e sapientemente, e non solo nella "sinistra" borghese, ma anche nella destra; cominciando subito a conquistarne le simpatie inviando, appena eletto ministro, un telegramma ai familiari del rinnegato Renzo De Felice, storico revisionista del fascismo e di Mussolini, appena deceduto (a cui intitolerà poi una strada di Roma, ndr), nel quale telegramma si rimpiangeva "una figura così in dipendente che ha saputo conquistarsi prestigio e fama internazionale". Il disastro elettorale del 2001 e il riciclaggio in Campidoglio Nel 1998, caduto il governo Prodi per mano di Bertinotti, D'Alema va al suo posto già sapendo che dirigerà un governo di guerra contro la Serbia, lasciando perciò la segreteria del partito. Nel frattempo il partito ha mollato anche questo stesso titolo, riecheggiante in qualche modo l'esecrato '900 dei "crimini stalinisti" e il defunto PCI, nonché anche la minuscola falce e martello che era rimasta ai piedi della quercia, per trasformarsi nel più liberale e rassicurante Democratici di sinistra (DS). Veltroni ne assume allora la direzione, che terrà fino alla vigilia della sconfitta elettorale disastrosa dell'Ulivo, con candidato Rutelli, del 2001, e che vedrà il ritorno del neoduce Berlusconi al governo per i successivi 5 anni. Annusando la sconfitta all'orizzonte, essendone stato d'altra parte come leader dei DS uno dei suoi principali responsabili (quel partito ebbe una batosta clamorosa, in particolare dagli astensionisti di sinistra, e si ridusse al punto più basso della sua storia), Veltroni salta in tempo giù dal carro candidandosi a sindaco di Roma al posto del dimissionario Rutelli nelle quasi contemporanee elezioni comunali. Di questa sua abilità nel sottrarsi in tempo ai disastri anche da lui stesso provocati, senza che la sua immagine politica di "vincente" ne resti intaccata, ne parlerà l'ex braccio destro di D'Alema, poi passato ad un'agenzia di marketing elettorale, Claudio Velardi, in un'intervista al Corriere della Sera del 9 giugno 2001:"Veltroni è arrivato, ha distrutto il partito, ha perso alle regionali, ha compiuto il suo capolavoro consegnando a Rutelli la leadership del centrosinistra. Poi, come sempre, un attimo prima, ha mollato tutto e se n'è andato. Ha sempre fatto così, Veltroni: Anche all'Unità, l'ha riempita di debiti e se n'è andato". E così, mentre i D'Alema, i Fassino, i Rutelli si beccano i fischi dei girotondini in piazza per la loro imbelle, fallimentare e inconsistente "opposizione" al governo del nuovo Mussolini che si accinge a rivoltare l'Italia "come un calzino", il nostro ambizioso e furbo carrierista borghese coltivava il suo feudo capitolino con accorta abilità, mescolando demagogia "buonista", grazie anche alla copertura del compiacente PRC e dei centri sociali egemonizzati da Nunzio D'Erme, nominato assessore all'emergenza abitativa, a vistose aperture al mercato e alla privatizzazione dei servizi pubblici, alla destra fascista, con l'intitolazione di strade a vecchi arnesi del regime, e al Vaticano. Oltre naturalmente a prendersi gli applausi del mondo del cinema, dello spettacolo e dello sport, anche inventandosi nuove feste e divertimenti, con grande profusione di denaro pubblico, come la Festa del Cinema di Roma, le "notti bianche", i musei di notte, e così via. Anche i suoi pellegrinaggi in Africa, dove asserisce di volersi ritirare per sempre come un missionario "laico" una volta finito il suo mandato di neopodestà romano (niente di più falso, come si sarebbe visto in seguito), come anche i suoi viaggi ad Auschwitz con le scolaresche romane, servono a costruire a poco a poco la sua immagine di personaggio "nuovo" e "diverso" nel panorama dei politicanti borghesi italiani. Una lunga e sapiente strategia anticomunista e liberale Prima di abbandonare però la barca traballante del partito, Veltroni aveva lavorato alacremente per prepararsi in un non lontano futuro alla leadership di quel partito democratico all'americana in cui, a suo stesso dire, i DS dovevano prima o poi confluire tagliando ogni residuo legame col passato. È in questa ottica che dirigerà il Congresso del Lingotto, ospite del compiacente capofila del capitalismo Agnelli nel gennaio 2000; quello del motto americano, mutuato da Don Milani, "I Care", che segna una svolta importante verso la completa conversione liberale dei DS, fino a riabilitare la DC e i suoi governi, che - dirà Veltroni - hanno assicurato "la crescita dell'Italia e il suo ancoraggio dalla parte giusta del mondo diviso in blocchi". Poco prima del congresso, nel novembre del 1999, ne aveva anticipato le clamorose svolte al quotidiano della Fiat, La Stampa, diretto dal rinnegato ed ex dirigente de Il Manifesto, Gianni Riotta (oggi premiato con la poltrona di direttore del Tg1 Rai, ndr). Rispondendo all'invito di Riotta di "riconoscere che la rivoluzione russa non fu un successo tradito, ma lo stravolgimento di tanti nobili ideali', Veltroni gli invia immediatamente un articolo in cui scrive: "Riotta ci chiede di riconoscerci in questa affermazione. Lo faccio volentieri e sinceramente. Ma l'ho già fatto, nella mozione che ho presentato per il prossimo, primo congresso dei Democratici di sinistra. Il secolo che muore, il Novecento, viene in quel documento definito come `il secolo del sangue. Il secolo in cui degli uomini hanno potuto immaginare e realizzare il genocidio degli ebrei. Il secolo di Auschwitz, delle vittime delle persecuzioni del nazismo. E il secolo della tragedia del comunismo, di Ian Palach, dei gulag, degli orrori dello stalinismo'. Lo stalinismo come il nazismo, i gulag e Auschwitz, il comunismo come tragedia del Novecento. Cosa si può dire di più netto e chiaro''? e più oltre ribadisce: "comunismo e libertà sono stati incompatibili, questa è stata la grande tragedia europea del dopo Auschwitz''. Dalla tribuna del Lingotto sancirà poi in maniera solenne con queste parole l'attraversamento irreversibile del Rubicone dell'anticomunismo e della democrazia borghese: " Del liberalismo democratico abbiamo fatta nostra, in modo irreversibile, la cultura dei diritti umani, il valore universale della democrazia, la centralità del tema della libertà, la considerazione dell'individuo, il valore dell'inclusione, l'accettazione senza riserve dell'economia di mercato, la valutazione positiva della competizione e anche del conflitto, insieme all'importanza delle regole, delle procedure, delle forme". Come non vedere in queste parole un'anticipazione di quella che sarebbe stata alcuni anni dopo la "Carta dei valori" del PD? Da allora in poi questi disgustosi attacchi anticomunisti di Veltroni si moltiplicheranno in tutte le occasioni possibili, così come gli interventi volti a riabilitare la destra e il fascismo, in nome dell'unità nazionale come predica Ciampi (che infatti, nel gennaio 2006 lo premia insignendolo del titolo di Cavaliere di Gran Croce), in parallelo con il suo sforzo di dimostrare di non essere mai stato veramente comunista, neanche quando militava nel PCI, e di essere sempre stato, in fondo in fondo, un liberale, un kennediano, un nemico giurato dell'URSS e un ammiratore incondizionato degli USA e dell'Occidente. Ma è proprio così? In realtà Veltroni, che per autoesaltare la "novità" della sua leadership liberale rispetto ad "ex comunisti" di apparato come D'Alema e Fassino, si vanta di non essere mai stato comunista, ha avuto più o meno la stessa storia e lo stesso percorso politico dei suoi ex compari nel PCI revisionista. Tant'è vero che in una sua recente biografia dal titolo "Veltroni, il piccolo principe", gli autori ricordano per esempio che in un suo discorso del 1974 sul problema della droga, il leader liberale e anticomunista del PD sentenziava: "I giovani sognano una società più giusta e umana, quella società per noi è il socialismo". E anche su Berlusconi la pensava assai diversamente da oggi, che chiede di non demonizzarlo, di smetterla di considerare nemico, ed è arrivato addirittura ad offrire pubblicamente a sua moglie Veronica di entrare a far parte del PD: "Dal 1988 ho avvertito che Berlusconi era un pericolo per la democrazia italiana", andava dicendo infatti, sempre a stare al suddetto libro biografico, negli anni della scesa in campo del cavaliere piduista. Ed ecco come parlava, quando nel PCI revisionista, al fianco del suo compare rinnegato D'Alema, apriva il convegno della FGCI il 7 aprile 1976 a Roma: "La rivoluzione deve vivere già oggi nella lotta e nella vita di questa generazione". E ancora: "Il socialismo e il comunismo debbono essere così il progetto di più alta realizzazione della libertà, di più grande valorizzazione del lavoro come forza motrice della storia". E addirittura non aveva paura di proclamare ad alta voce che "fare politica oggi" significa "partecipare al progetto ambizioso della vittoria della rivoluzione proletaria in occidente, di quella rivoluzione che noi portiamo avanti e che tutti i giovani debbono vibvere e far vivere da oggi". Oggi invece guarda la lotta di classe come il prete esorcizza il diavolo: "Bisogna non conoscere l'Italia - ha detto il 17 marzo a Novara - per invocare la lotta di classe. Divento pazzo quando ancora li sento parlare di lotta di classe contro i padroni. Chi sono oggi i padroni di cui parlano? Ci sono milioni di persone, di piccoli e medi imprenditori che spesso sono ex operai diventati artigiani. Noi crediamo che l'Italia debba fare un patto tra produttori sia per la crescita, sia per combattere la diseguaglianza sociale". Comunque, a dimostrazione che il suo modello ormai è il partito democratico americano, nel 2005 si recherà negli Stati Uniti per incontrare il senatore dell'Illinois Barak Obama, per il quale scriverà nel 2007 la prefazione al libro autobiografico "L'audacia della speranza", e dalla cui campagna presidenziale ha ripreso il motto "Yes we can" traducendolo con "Si può fare" per la propria campagna per il premierato. Apertura al Vaticano, ai fascisti e al neoduce Berlusconi, per la terza repubblica Ma il nostro Walter fa di tutto per mostrarsi amico anche della chiesa cattolica e del Vaticano, visto che nell'ottobre 2002 è in piazza San Pietro, insieme a D'Alema, Andreotti, Fini, Romiti, Cossiga, Rutelli, e chi più ne ha più ne metta, ad assistere alla beatificazione del capo dell'Opus Dei, Escrivà de Balaguer. Per non parlare, sempre in quel periodo, della visita della giunta capitolina al gran completo in Vaticano per conferire la cittadinanza onoraria a Wojtyla in occasione del 25° del suo pontificato. Subito dopo la morte del papa nero, per i cui faraonici funerali metterà a disposizione l'intera città di Roma, Veltroni tenterà addirittura, senza riuscirvi, di intitolargli la stazione Termini. Non si contano poi gli atti di omaggio e di vero e proprio servilismo che il neopodestà di Roma compie durante i suoi due mandati per ingraziarsi oltretevere. Due esempi per tutti, tra i più recenti: la vergognosa capitolazione in Campidoglio, nel dicembre 2007, sul registro delle coppie di fatto, dopo l'intervento del cardinale Ruini, e la sua difesa dell'integralista e oscurantista Ratzinger e il suo scagliarsi, insieme al ministro Mussi, contro gli studenti e i professori che non volevano che presenziasse all'inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza (gennaio 2008). Nel quadro di revisionismo storico in chiave anticomunista e di riconciliazione nazionale coi fascisti, rientra invece il suo entusiastico sposare la causa fascista dei cosiddetti "martiri delle foibe e giuliano-dalmati", intitolando loro vie e piazze e recandosi il 31 gennaio 2005 in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza alla testa di una delegazione del Comune di Roma. Con grande esultanza del fascista Secolo d'Italia del 29 gennaio, che così scrive: "Oggi un esponente dell'ex PCI compie finalmente un'autocritica salutare per tutte le parti politiche, organizzando una visita istituzionale a Basovizza, cioè facendo seguire alle parole i fatti. E una destra matura e consapevole del ruolo avuto in passato su questo spinoso tema non può che accogliere la visita di Veltroni con quello spirito di superamento della partigianeria politica che deve contraddistinguere tutti gli italiani dinanzi a tragedie come queste, anche quando sono avversari, anche quando si combattono lealmente". E al termine della visita, rispondendo alla domanda se l'aver dichiarato a suo tempo di non essere mai stato comunista fu una forzatura, Veltroni aggiungerà a suggello. "No, è la verità. Chi aveva una formazione politica e culturale come la mia non poteva non sentire il comunismo reale come odioso e nemico". Il resto, dopo la rielezione a sindaco quasi plebiscitaria nel 2006, alla vigilia della quale aveva dichiarato in tv che se rieletto si sarebbe ritirato dalla politica al termine del secondo mandato (un'altro solenne impegno andato a far compagnia a quello sull'Africa), è praticamente cronaca dei nostri giorni: il congresso di scioglimento dei DS (aprile 2007), in cui rivendica di essere un propugnatore del PD da almeno 10 anni; la nomina a leader del nascente partito dopo lo scandalo che vede coinvolti (e bruciati) D'Alema e Fassino nell'inchiesta sulle scalate bancarie dei "furbetti del quartierino", nomina confermata dalle primarie plebiscitarie in ottobre; la campagna xenofoba, razzista e fascista sulla "sicurezza", che lo vede in prima fila tra i neopodestà italiani a reclamare "provvedimenti urgenti" di espulsione contro gli immigrati, prontamente promulgati il 1° novembre da Prodi e Amato, e altri provvedimenti forcaioli scippati ai fascisti e alla Lega, come la castrazione chimica per i pedofili, ecc.; l'intesa di principio sulla legge elettorale maggioritaria e sulla controriforma neofascista, presidenzailista e federalista della Costituzione quasi raggiunta a novembre col neoduce Berlusconi, considerato "non più nemico", ma interlocutore privilegiato per fondare insieme la terza repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista e interventista; la caduta del governo Prodi a gennaio di quest'anno e la decisione di mollare la "sinistra radicale" e correre da solo per le prossime politiche del 13 aprile; le dimissioni da neopodestà di Roma, non senza aver varato prima il piano regolatore che fa felici i palazzinari; la dichiarazione a El Pais che il PD "non è un partito di sinistra, ma un partito riformista", e la campagna elettorale aperta all'insegna del nazionalismo patriottardo, con tanto di tricolore e inno di Mameli che accompagnano il suo tour elettorale per il Paese. 12 marzo 2008 |