Dando ragione a Napolitano sul conflitto di attribuzioni con la procura di Palermo La sentenza della Consulta allarga i poteri del presidente della Repubblica come se fosse un sovrano sacro e insindacabile Il giudice Agueci: "Alcuni passaggi della sentenza mi lasciano perplesso. Stringiamoci attorno ai magistrati che stanno portando avanti la serissima inchiesta sulla trattativa Stato-mafia" Quando nel dicembre scorso emise la sentenza "Il Bolscevico" la bollò con questo titolo: "Non si vuol far luce sulla trattativa Stato-mafia. La Corte costituzionale copre Napolitano e dà torto alla procura di Palermo". Ora se ne conoscono le motivazioni per esteso. La Corte costituzionale lo scorso 4 gennaio con la sentenza n. 1/2013 ha pienamente e servilmente accolto il ricorso per conflitto di attribuzioni proposto dal presidente della Repubblica Napolitano dichiarando che non spettava alla procura di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche dello stesso Napolitano captate nell'ambito del procedimento penale n. 11609/08 relativo alla trattativa tra Stato e mafia né, secondo la Corte costituzionale, spettava ai pubblici ministeri di omettere di chiederne al giudice di controllo (ossia il gip di Palermo) l'immediata distruzione ai sensi del terzo comma dell'articolo 271 del codice di procedura penale, distruzione che, precisa sempre la Consulta, deve essere effettuata con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto. Insomma, secondo la Consulta la procura della Repubblica di Palermo ha compiuto, intercettando il presidente della Repubblica, un atto illegale e quasi eversivo nei confronti delle prerogative del capo dello Stato che in quanto "supremo garante dell'equilibrio dei poteri dello Stato", così come lo definisce testualmente la Corte, non è mai intercettabile neanche in presenza di reati comuni ed anche se le sue conversazioni rivelassero elementi di prova di reati gravissimi: però la Consulta concede un'eccezione a questa totale impunità procedurale, e cioè ritiene che il presidente sia intercettabile solo se commette reati strettamente connessi alla carica ricoperta come l'alto tradimento o l'attentato alla Costituzione previsti dall'articolo 90 della Costituzione, ed in questo caso - prosegue la Corte - deve essere un Comitato parlamentare a poter decidere in questo senso e solo dopo che la Consulta lo abbia sospeso dalla carica di capo dello Stato ai sensi della procedura prevista dal terzo comma dell'art. 7 della legge n. 219 del 1989. Il che però è palesemente contraddittorio da un punto di vista logico, se si pensa che i reati di alto tradimento o attentato alla Costituzione potrebbero essere commessi impunemente dal capo dello Stato proprio parlando al telefono o con comunicazioni telematiche, cosa che però egli non potrebbe più fare dopo la sospensione dalla carica sia perché con la sospensione non riveste più la carica di capo dello Stato sia perché ovviamente non sarebbe tanto stupido, essendo a conoscenza del procedimento contro di lui, da aggravare la sua situazione con telefonate o comunicazioni azzardate. La Consulta ha poi precisato che il divieto di intercettazione va esteso anche alle intercettazioni indirette o casuali, quelle cioè dove l'utenza telefonica o telematica intercettata non è quella riconducibile al presidente bensì un'altra (nel caso preso in esame dalla Corte era quella del senatore Mancino che parlava confidenzialmente con Giorgio Napolitano) perché anche tali intercettazioni ledono, ad avviso della Consulta, la sfera di immunità del capo dello Stato soprattutto quando non si ravvisano reati a suo carico. Insomma, a parte i casi di attentato alla Costituzione ed alto tradimento dove le intercettazioni possono avvenire dopo la sospensione forzata dalla carica, le intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni del presidente sono sempre vietate. E, se la magistratura ipotizza che egli abbia commesso reati, gli eventuali elementi di prova a suo carico devono essere desunti da mezzi di prova diversi dalle intercettazioni come documenti, testimonianze, perizie e quanto altro previsto dal Titolo secondo del Libro terzo del codice di procedura penale, tali comunque da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione presidenziale. Eppure, nonostante l'impegno che i giudici costituzionali hanno profuso nelle quarantanove pagine della sentenza n. 1/2013 per dimostrare che il capo dello Stato ha poteri pari a quelli di un sovrano sacro e insindacabile e non è intercettabile come gli altri cittadini, la stessa Corte afferma testualmente al punto 13 delle motivazioni che "il Presidente, per eventuali reati commessi al di fuori dell'esercizio delle sue funzioni, è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini". Il che è paradossale e contraddittorio con quanto subito dopo affermato dallo stesso giudice estensore quando scrive che le intercettazioni finirebbero per ledere la sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del presidente mentre "la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente": ma non è forse vero che anche i documenti che egli sottoscrive costituiscono una forma di comunicazione, e non è forse vero che la testimonianza può vertere su una conversazione (e quindi una comunicazione diretta) che coinvolge il presidente? È chiaro che la cavillosa distinzione della Consulta, che non regge ad una rigorosa critica logica e che comunque sortisce l'effetto di porre il presidente della Repubblica italiana al di sopra di tutto e di tutti e con poteri di immunità e insindacabilità da repubblica presidenziale. Si è trattato di uno sfacciato e servile aiuto della Corte costituzionale alla persona di Giorgio Napolitano per tirarlo fuori dai guai in cui si sarebbe cacciato se il contenuto della telefonata (imbarazzante, altrimenti non si comprende la ragione di questi misteri presidenziali e del coinvolgimento della Consulta) con Mancino fosse stata utilizzata nel processo palermitano dedicato alla trattativa tra Stato e mafia. Molto critico verso la sentenza è stato Leonardo Agueci, procuratore aggiunto presso il tribunale di Palermo: "Alcuni passaggi in punto di diritto di questa sentenza mi lasciano perplesso", per poi chiedere all'opinione pubblica di "stringersi attorno ai quattro magistrati della Procura di Palermo che fra tanti rischi stanno portando avanti la serissima inchiesta sulla trattativa". 6 marzo 2013 |