Col voto di PDL, PD, UDC Il parlamento approva la controriforma sul lavoro. Cancellato l'art. 18 Confermati i 46 contratti precari. Ridurrà la durata degli "ammortizzatori sociali". Contestazioni davanti a Montecitorio Va abrogata A colpi di voti di fiducia, mortificando quindi per l'ennesima volta le prerogative del parlamento, il 27 giugno la Camera ha approvato in modo definitivo la controriforma Fornero sul "mercato dl lavoro". Il 31 maggio scorso era successo con le stesse modalità antidemocratiche in Senato. È passata con 393 voti favorevoli, 74 contrari e 46 astenuti. Il via libera è arrivato con l'appoggio determinante dei partiti facenti parte della maggioranza governativa PDL, PD, UDC, FLI i quali hanno hanno accolto la richiesta del presidente del consiglio, Mario Monti, di evitare la presentazione di emendamenti e approvare il provvedimento prima che si tenesse la riunione del vertice Ue. Come emerge con chiarezza dall'intervento di Cesare Damiano, responsabile del PD sui temi del lavoro e del welfare, che ha detto: "Abbiamo scelto di approvare questa riforma perché abbiamo voluto ascoltare la richiesta del presidente del Consiglio che sarà impegnato in un difficile Consiglio europeo. L'obiettivo di Monti era di portare a Bruxelles la conclusione di questo iter legislativo" che, aggiungiamo noi, demolisce l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori e liberalizza i licenziamenti, riduce a lumicino gli "ammortizzatori sociali" senza introdurre una adeguata e universalistica indennità di disoccupazione, mantiene pressoché intatto tutto l'armamentario giuridico su cui poggia il precariato. Filosofia liberista e antioperaia La filosofia liberista e antioperaia di questa controriforma è stata ben sintetizzata dalla stessa Fornero in una intervista al Wall Street Journal, per l'appunto pubblicata nello stesso giorno in cui il parlamento varava il provvedimento: "il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato anche attraverso il sacrificio". Un'affermazione gravissima di tipo golpista, giacché attacca da destra parti fondamentali della Costituzione. In particolare, l'art.1 che parla di "Repubblica democratica fondata sul lavoro", e l'art. 4 che afferma: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto". Ma la dichiarazione arrogante e cinica della Marchionne in gonnella del governo Monti, è grave anche perché è detta in coincidenza di una devastante crisi economica e sociale ancora in atto e per nulla avviata a soluzione, quando la disoccupazione sta aumentando in modo esponenziale e una intera generazione è costretta a sbarcare il lunario con i più svariati lavori precari. Se mettiamo in fila i concetti liberisti della Fornero e di Monti su questa materia viene fuori che: il posto fisso (o per meglio dire a tempo indeterminato) va cancellato, il lavoro non è un diritto, le imprese devono poter licenziare liberamente, senza vincoli di legge e contrattuali. Dal punto di vista dei lavoratori, e anche di ogni sincero democratico e progressista, questa controriforma rappresenta un pauroso salto all'indietro, almeno di quarant'anni, si torna cioè al tempo precedente all'approvazione della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori). E completa una controriforma sociale più generale di cui fa parte la controriforma pensionistica, l'art.8 della manovra economica dell'agosto del 2011 varata dall'ex governo Berlusconi che introduce nei contratti aziendali la possibilità di deroghe dai contratti nazionali e dalle leggi sul lavoro. Di cui fa parte e a pieno titolo il modello di relazioni industriali mussolinane imposte dal nuovo Valletta, Sergio Marchionne, alla Fiat con gravi lesioni per i diritti e le libertà sindacali dei lavoratori. Si aggiungano le misure draconiane allo studio per il pubblico impiego e la pubblica amministrazione, da assumere attraverso lo Spending Review e i ripetuti tentativi di modificare l'art. 41 della Costituzione là dove recita che l'iniziativa privata: "Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, ala dignità umana". Ne discende un peggioramento drastico complessivo dei principi giuridici democratico-borghesi, dei diritti sociali e contrattuali, e delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori e delle masse giovanile e popolari. Per quanto si tenti di negarlo, il cuore della controriforma Fornero è e rimane lo svuotamento di efficacia dell'art. 18 al fine di liberalizzare i licenziamenti individuali. Come? Rendendo praticamente impossibile il reintegro nel posto di lavoro anche quando il giudice stabilisce che si tratta di licenziamento illegittimo, cioè senza "giusta causa" e "giusto motivo". In concreto, l'art. 18 è stato suddiviso in tre ipotesi di licenziamento: discriminatorio; disciplinare; per ragioni economiche e organizzative. Nel primo caso, il licenziamento discriminatorio per motivi sindacali, religiosi, politici, razziali, di lingua, età, sesso, handicap, convinzioni personali, orientamento sessuale, rimane in vigore la normativa vigente. Non poteva essere altrimenti: tale licenziamento è vietato anche da altre leggi dello Stato e dalle normative europee. E poi non succede quasi mai che un padrone utilizzi proprio questo tipo di licenziamento destinato a essere respinto. Cambia e molto invece in caso di licenziamenti disciplinari. Per accertare la "giusta causa" il giudice dovrà far riferimento alle "tipicizzazioni" segnalate dei contratti nazionali di lavoro e anche se dovesse sentenziare la illegittimità non è previsto il reintegro ma un semplice e tutto sommato modesto risarcimento economico. Nel caso dei licenziamenti per motivi economici e organizzativi si apre una autostrada alle imprese per i licenziamenti facili. Per un giudice sarà difficilissimo appurare la veridicità dei motivi adottati per il licenziamento. Comunque nel caso che questi motivi fossero riconosciuti infondati previsto solo un indennizzo economico. Solo se essi fossero "manifestatamene infondati" il giudice potrebbe decidere, ma non è automatico, il reintegro; che in questo ambito diventa una possibilità assai remota, più teorica che pratica. Tentativo di ingannare i lavoratori e le masse È un inganno bello e buono quanto sostenuto nella "riforma" circa il lavoro a tempo indeterminato che dovrebbe rimanere il contratto di lavoro prevalente. Non si capisce come ciò possa avvenire. Con il contratto di apprendistato, proposto come forma corrente di assunzione dei giovani? No, il datore di lavoro non ha nessun obbligo di assunzione al termine del contratto che può durare da tre a cinque anni, con diritti e salario inferiori a quelli stabiliti dal CCNL. E può interrompere il rapporto di lavoro, dopo 6 mesi, in ogni momento senza dovere alcuna spiegazione. Quella affermazione è un'atroce bugia anche perché nessuno dei 46 contratti di lavoro precario è stato abolito, nemmeno i più odiosi, nemmeno i meno utilizzati. La mancata cancellazione dei contratti precari, o comunque un loro drastico sfoltimento è senza dubbio un elemento caratterizzante, estremamente negativo della "riforma" Fornero; la quale non disdegna di riempirsi la bocca dei giovani a favore dei quali, addirittura, avrebbe pensato nel redigere la suddetta controriforma. Su questo argomento il ministro, complici i vertici sindacali e il PD, ha fatto della demagogia a buon mercato sostenendo che ha agito per rendere più difficile e costoso l'uso dei contratti precari. In alcuni casi si tratta di minuscoli e risibili interventi che conservano per i padroni ampie convenienze. In altri si registra invece un peggioramento della precedente normativa. Vedi, ad esempio, il contratto a tempo determinato: per il primo contratto che può durare fino a 12 mesi, il datore di lavoro non ha più l'obbligo di indicare la causale dell'assunzione e dunque, ne può fare largo uso senza limiti. Non solo, il periodo di lavoro può essere allungato di 30 giorni per un contratto inferiore a sei mesi e di 50 per i contratti con durata superiore. Lo stesso lavoratore può essere riassunto nello stesso posto con contratto a termine con un intervallo di 20-30 giorni tra l'uno e l'altro. Tale strumento potrà essere utilizzato, nella pratica, inoltre, come prova di lavoro lunga 12 mesi prima di una eventuale assunzione a tempo indeterminato. Tagli reali e pseudo "indennità" Un altro aspetto strutturale della "riforma" riguarda il taglio degli "ammortizzatori sociali" e l'introduzione di una specie di indennità di disoccupazione chiamata Aspi (Assicurazione per l'impiego). Tra i quali, diciamolo subito con chiarezza, non c'è compensazione, non c'è equilibrio tra ciò che si toglie e ciò che si da, come sostengono Fornero e Monti. Nel senso che, a conti fatti, anche qui i lavoratori ci rimettono eccome nella fase dell'applicazione e soprattutto quando andranno a regime le modifiche introdotte. Degli attuali "ammortizzatori sociali" articolati in cassa integrazione, cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione straordinaria in deroga e la mobilità che hanno permesso per tanti lavoratori di superare momenti di crisi aziendale e riprendere il lavoro e ad altri in ogni caso rinviare, per alcuni anni, il tempo del licenziamento ricevendo un sostegno salariale, si salvano solo i primi due però ridimensionati e con vincoli maggiori per l'accesso. Gli altri saranno aboliti riducendo garanzie e strumenti di difesa verso i licenziamenti collettivi. L'Aspi che a regime avrà una durata massima di 12 mesi per i lavoratori con età inferiore a 55 anni e di 18 mesi per i lavoratori con età superiore copre un periodo di integrazione salariale più corto sommando la cassa integrazione in deroga, la mobilità e la vecchia indennità di disoccupazione ordinaria. Inoltre, i requisiti richiesti per aver accesso all'Aspi, consistenti in 2 anni di anzianità assicurativa o un anno di contributi nei due anni precedenti, taglia fuori, come certificano i dati INPS, molti giovani e molti precari. Come si vede siamo ben lontani da quel "salario minimo garantito" vagheggiato dalla Fornero durante gli incontri con i sindacati. La controriforma del lavoro passa certo con l'avallo dei partiti della destra e della "sinistra" borghese di Alfano, Bersani e Casini. Grosse responsabilità ricadano però sui vertici sindacali confederali. Della CISL e della UIL c'è poco da dire: da un lato hanno condiviso parti importanti della proposta del ministro, dall'altro si sono sempre rifiutati di mobilitare i lavoratori, salvo che nell'ultimo periodo divagando su altri temi. La CGIL che aveva accennato a un'opposizione più consistente ha ceduto su tutti i fronti arrivando a cancellare lo sciopero generale proclamato in un direttivo del marzo scorso. Limitandosi ai presidi. Anche nella stesa giornata dell'approvazione della "riforma" ne aveva organizzato uno davanti a Montecitorio. Francamente troppo poco e di pura testimonianza. Al presidio vi hanno partecipato anche gli aderenti dell'Unione sindacale di base (USB) che hanno vivacizzato la protesta con lo slogan: "sciopero, sciopero generale". La partita non può essere considerata chiusa. È necessario che tutte le forze politiche e sindacali, in primo luogo la FIOM, le associazioni di massa studentesche e giovanili e dei lavoratori precari, i giuristi democratici si uniscano in un largo fronte unito per rilanciare la lotta di piazza con l'obiettivo della abrogazione della controriforma Fornero, valutando in questo ambito la possibilità referendaria. Noi del PMLI ci siamo e nel limite delle nostre forze faremo la nostra parte. 4 luglio 2012 |