Il patto di Palazzo Chigi. La Carta del lavoro. Ordine del giorno del Gran Consiglio sul problema dello sciopero
Corporativismo e sciopero sotto Mussolini In queste pagine pubblichiamo tre documenti che rappresentano altrettanti pilastri dell'organizzazione del lavoro corporativa del regime fascista mussoliniano. Il primo è il cosiddetto patto di Palazzo Chigi, approvato sotto la presidenza di Mussolini il 21 dicembre 1923, tra la Confederazione generale dell'industria (la Confindustria di allora) e la Confederazione generale delle corporazioni fasciste (il sindacato fascista), che invocava l'abolizione dei conflitti di lavoro e la loro regolazione da parte dello Stato fascista, nonché la collaborazione tra padroni e lavoratori nel quadro del corporativismo fascista. Il secondo è l'ordine del giorno del Gran consiglio del partito fascista del 25 aprile 1925 che proibiva ufficialmente e di fatto gli scioperi subordinandoli all'autorizzazione preventiva delle corporazioni e quindi del partito. Il terzo è la Carta del lavoro del 22 aprile 1927, che disegnava dettagliatamente i principi cardine su cui si andava edificando lo Stato corporativo fascista, completato nel 1939 con l'istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni. Fa impressione la somiglianza tra i principi espressi in questi documenti e persino la loro formulazione con quelli contenuti negli interventi del governo Berlusconi contro il diritto di sciopero e per abolire la contrattazione collettiva nazionale e trasformare il sindacato in un organo corporativo e filopadronale al servizio del regime neofascista. Ci riferiamo al disegno di legge delega del gerarca del Welfare Sacconi "per la regolamentazione e prevenzione dei conflitti collettivi di lavoro con riferimento alla libera circolazione delle persone", così come all'accordo separato tra governo e i sindacati collaborazionisti Cisl, Uil e Ugl, non firmato dalla Cgil, a cui si aggiunge per certi aspetti la controriforma neofascista della Pubblica amministrazione che porta il marchio del gerarca alla Funzione pubblica, Renato Brunetta. Si legga ad esempio l'odg del Gran consiglio fascista sullo sciopero, laddove sentenzia che lo sciopero ("eccetto per i pubblici servizi", dove è comunque e sempre proibito) può essere effettuato dalle corporazioni "quando tutti i mezzi pacifici siano stati tentati ed esauriti". O laddove si stabilisce che "deve avere l'autorizzazione preventiva degli organi supremi delle corporazioni" (controllati dal partito fascista): non sembrano forse principi trasfusi pari pari prima nel "piano di rinascita democratica" della P2 e oggi nel progetto di legge antisciopero del governo neofascista Berlusconi? Così come oggi questo infame progetto di eliminare il diritto individuale di sciopero viene spacciato in nome dei diritti della collettività nazionale alla mobilità e della "rappresentatività" sindacale, così il fascismo ne ammantava l'abolizione in nome dell'interesse della nazione e della rappresentanza dei lavoratori rivendicata al solo fascismo. Ma oggi come allora il vero obiettivo era ed è quello di abolire la lotta di classe e garantire alla classe dominante borghese in camicia nera la pace sociale che gli permetta di sfruttare al massimo i lavoratori e aumentare il più possibile i profitti senza doverne pagare le conseguenze in termini di conflittualità e instabilità sociale. Specie in tempi di devastanti crisi economiche come quella attuale e quella che attraversava il Paese nel primo dopoguerra, quando il fascismo andò al potere nel '22 con la marcia su Roma. Non per nulla fu proprio grazie al divieto di sciopero imposto con la forza, prima ancora che per legge, che il primo governo Mussolini riuscì a consolidare la sua alleanza di ferro con la grande borghesia industriale, diminuendo drasticamente i conflitti sindacali, effettuando massicci licenziamenti nell'amministrazione statale e nei servizi (solo nelle ferrovie furono espulsi 40 mila lavoratori), aumentando proporzionalmente la produzione e tenendo bloccati e anzi comprimendo i salari dei lavoratori. Infatti nel biennio 1923-1924, rispetto al biennio precedente, furono recuperate più di 6 mila giornate di lavoro, il numero degli scioperanti nell'industria calò di dieci volte e l'economia entrò in una fase espansiva che durò con alterne vicende fino al 1929, quando si fece sentire anche in Italia la crisi mondiale. Viceversa i lavoratori non ne ebbero affatto un beneficio, a causa dell'aumento costante dei prezzi e della riduzione dei salari reali, che diminuirono di circa il 4% nel 1923 e di un altro 5,5% nel 1924, scendendo addirittura al di sotto dei livelli di anteguerra. Col patto di Palazzo Chigi e con la Carta del lavoro Mussolini completò e disegnò nei minimi particolari il progetto di spoliazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni di tutte le loro libertà e diritti, per procedere al loro ingabbiamento nell'organizzazione del lavoro e nello Stato corporativo del regime fascista. In cui formalmente le 22 corporazioni dei lavoratori e dei padroni controllate dal fascismo avevano parità di funzioni e di diritti e dovevano collaborare concordemente nell'ambito del "supremo interesse nazionale", mentre in realtà col riconoscimento dell'iniziativa privata come base della produzione dello Stato corporativo fascista, l'intervento di quest'ultimo solo in funzione sussidiaria nelle questioni dell'economia e la riduzione dei lavoratori a "collaboratori attivi dell'impresa", veniva rafforzato e garantito dallo Stato il dominio di classe della grande borghesia sul proletariato e le altre masse sfruttate e oppresse e i suoi interessi di classe finivano per coincidere perfettamente con quelli del regime e della nazione intera. È esattamente quel che il neoduce Berlusconi vuole fare oggi, spaccando il sindacato e aggiogandolo a doppio filo al regime neofascista e cancellando per legge la lotta di classe, come nel ventennio mussoliniano. Non a caso certi concetti della Carta del lavoro come quelli del "sindacato riconosciuto a rappresentare legalmente l'intera categoria dei lavoratori", il contratto collettivo come espressione della "solidarietà tra i vari fattori della produzione", la risoluzione delle controversie sul lavoro non attraverso le lotte ma affidata ad organi cosiddetti "imparziali" dello Stato come la magistratura del lavoro, e solo dopo che l'organo corporativo abbia esperito tutti i tentativi di "conciliazione", le sanzioni disciplinari, le multe e i licenziamenti senza indennità per chi turba "il normale andamento dell'azienda", sono in tutta evidenza la fonte ispiratrice diretta dell'accordo separato sulla "riforma della contrattazione" e della legge antisciopero elaborata dal gerarca Sacconi. Una legge che non bisogna assolutamente lasciar passare, neanche limitatamente ad alcuni settori particolari. Perché è chiaro che la sua applicazione al settore dei trasporti sarà solo l'anticamera di una sua successiva estensione a tutte le categorie di lavoratori, essendo come abbiamo visto ispirata al piano piduista e ricalcata palesemente sul modello mussoliniano. 15 aprile 2009 |