La cricca revisionista e fascista di Pechino stronca nel sangue la rivolta autonomista del popolo tibetano È di quasi un centinaio di morti, molti feriti e centinaia di arrestati il bilancio provvisorio al 18 marzo, secondo fonti tibetane, della repressione con la quale la cricca revisionista e fascista di Pechino ha stroncato la rivolta autonomista del popolo tibetano. Nella capitale Lhasa la fine delle proteste è garantita dalla massiccia presenza della polizia schierata nelle strade, sui tetti e attorno ai principali edifici della città che controlla l'identità dei passanti. Ma altre manifestazioni si sono svolte ancora il 18 marzo a Machu nella provincia tibetana del Gansu, dove negli scontri con la polizia sarebbero morti una ventina di dimostranti, e a Ngaba, nella confinante provincia del Sichuan, dove sarebbero almeno otto le vittime. Le manifestazioni autonomiste erano iniziate il 10 marzo quando un centinaio di religiosi avevano iniziato una marcia da Dharamsala, nel nord dell'India, che avrebbe dovuto portarli nell'agosto prossimo fino a Pechino in concomitanza con l'inizio delle Olimpiadi. Altre manifestazioni si svolgevano a Lhasa, in occasione della ricorrenza della fuga del Dalai Lama dal Tibet nel 1959, dove alcune centinaia di monaci sfilavano in corteo per chiedere maggiore autonomia per il popolo tibetano. La manifestazione era dispersa dalla polizia che usava manganelli e bastoni elettrificati. E mentre la marcia dei religiosi da Dharamsala era rallentata dalla polizia indiana che arrestava gran parte dei partecipanti a poche decine di chilometri fuori della città proseguivano le proteste a Lhasa dove il 12 marzo alcune centinaia di dimostranti venivano dispersi dalla polizia con i lacrimogeni. I dimostanti chiedevano anche la liberazione di alcuni monaci arrestati dalla polizia a inizio febbraio per aver sventolato la bandiera del Tibet autonomo. L'intervento repressivo della polizia non fermava le manifestazioni autonomiste che vedevano in piazza a Lhasa il 14 marzo ancora centinaia di dimostranti che si scontravano con la polizia. Gli agenti usavano le armi e negli scontri che seguivano si contavano diversi morti. La protesta si estendeva dalla capitale a altre città tibetane, diventava un'aperta rivolta popolare per l'autonomia del Tibet. Una rivolta diversa da quella del 1959 cui nelle cronache viene paragonata. Allora si trattava dell'azione controrivoluzionaria di un gruppo di reazionari tibetani, fomentati e armati dall'imperialismo in funzione anticomunista contro la Cina socialista di Mao, che non ottennero l'appoggio popolare e furono sconfitti. Allora il popolo oppresso si levò ad accusare i membri reazionari del governo locale, fra gli ecclesiastici e i nobili, che volevano mantenere le catene della schiavitù e diventò protagonista della storia del Tibet, a fianco delle altre nazionalità della Cina socialista, nella Regione autonoma del Tibet che sarà formalmente proclamata nella prima sessione della prima Assemblea popolare del Tibet tenuta a Lhasa dal 1° al 9 settembre del 1965. L'atteggiamento della Cina di Mao fu sempre di estremo rispetto delle specificità della situazione tibetana, non veniva toccata l'organizzazione del governo locale e la struttura sociale, erano rispettate le credenze religiose, le usanze e i costumi locali, qualsiasi riforma era subordinata all'accettazione del governo locale. In una direttiva interna del CC del PCC sul lavoro nel Tibet del 6 aprile 1952 si affermava: "Dobbiamo fare ogni sforzo e usare metodi appropriati per conquistare il Dalai e la maggioranza dei suoi strati superiori, isolare la minoranza dei cattivi elementi e arrivare in molti anni, gradualmente e senza spargimento di sangue, alla trasformazione politica ed economica del Xizang (Tibet). (...) Se le cose andranno per le lunghe non ne avremo grandi danni, al contrario, ne trarremo dei vantaggi. Lasciamo che essi (i reazionari, ndr) commettano ogni genere di atrocità insensate contro il popolo, noi ci occuperemo solo della produzione, del commercio, della costruzione di strade, della medicina e del fronte unito (unità con la maggioranza e educazione paziente) e di altre cose buone, con lo scopo di conquistare le masse e aspettare che maturi la situazione". Con questa politica la Cina socialista aveva le masse popolari tibetane dalla sua parte a respingere il tentativo controrivoluzionario del 1959. Alla vigilia del quale il Dalai Lama fuggiva in India. Un atteggiamento ben diverso da quello tenuto dalla cricca revisionista e fascista al potere da ormai 30 anni a Pechino che ha sposato il capitalismo e l'imperialismo, smantellato la Cina socialista e con essa i corretti rapporti con le minoranze etniche, con la specificità del Tibet. Una cricca che non tollera la benché minima richiesta autonomista del popolo tibetano e ha risposto col pugno di ferro. Proprio nei giorni in cui l'omologo e concorrente imperialismo americano annunciava di aver depennato la Cina capitalista dalla lista nera dei paesi che violano gravemente i diritti umani. 19 marzo 2008 |