Sotto il palazzone-fabbrica crollato Saliti a oltre 1.000 i lavoratori morti in Bangladesh Le pesanti responsabilità delle multinazionali imperialiste, tra cui la Benetton Tra le macerie del Rana Plaza, il palazzone fabbrica di Savar, alla periferia di Dacca in Bangladesh crollato lo scorso 24 aprile si sono contati al 10 maggio oltre mille morti e il bilancio è ritenuto dalle autorità non ancora definitivo. Da sotto le tonnellate di macerie di quello che era un agglomerato di laboratori tessili, dove erano occupati più di 3.000 lavoratori, pagati con meno di 30 euro al mese per cucire vestiti 12 ore al giorno, i soccorritori hanno estratto 1.045 cadaveri, un migliaio i feriti. L'indagine preliminare ha rilevato che il crollo del palazzo, già in condizioni precarie, è stato provocato dalle vibrazioni dei generatori di corrente. La polizia ha arrestato dodici persone, tra cui il proprietario dell'edificio e quattro proprietari di negozi. Questi ultimi secondo l'accusa avrebbero costretto gli operai a tornare al lavoro, nonostante le evidenti crepe alle pareti. Il Bangladesh, paese tra i più poveri ai vertici delle classifiche mondiali per il numero dei morti sul lavoro, è il secondo più grande esportatore al mondo di abbigliamento, un settore chiave dell'economia nazionale che genera 29 miliardi dollari l'anno e che l'anno scorso ha coperto l'80% delle esportazioni. Un ruolo dovuto a bassi salari, abbondante manodopera e condizioni di sicurezza inesistenti, come denunciato da organizzazioni sindacali e Organizzazioni Non Governative (Ong) di tutto il mondo. A tutto vantaggio delle multinazionali imperialiste. In seguito ai controlli effettuati dopo il crollo del Rana Plaza il governo di Dacca ha ordinato la chiusura di 16 fabbriche di abbigliamento, nella capitale e nella seconda città portuale di Chittagong, considerate "pericolose". La protezione civile ha inoltre compilato una lista di 234 fabbriche tessili "vulnerabili" per il rischio di incendi e ai proprietari degli edifici sarà chiesto di predisporre con urgenza le misure di prevenzione. Misure che serviranno a salvare la faccia del governo, delle clienti multinazionali straniere e in particolare dell'Unione europea cui è destinata la maggior parte dell'export tessile del paese. Ma che non sono niente rispetto alla situazione di precarietà e pericolo degli oltre 3 milioni di addetti del settore tessile, sottoposti a una moderna forma di schiavitù. Misure molto più complete e incisive sono richieste da una petizione lanciata dai sindacati di settore, appoggiati da Ong straniere, che in poco tempo ha raccolto un milione di firme e che chiede ai marchi che si riforniscono in Bangladesh di sottoscrivere immediatamente il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un accordo che vincola gli acquirenti al controllo della sicurezza nelle aree del lavoro tessile. "In tutto il mondo l'opinione pubblica si è mobilitata per dire basta a questa orribile sequenza di incidenti e mandare un chiaro messaggio alle imprese che si riforniscono in Bangladesh, tra cui Mango, Primark, GAP, C&A, KIK, JC Penney, Wal-Mart", ha reso noto la Campagna italiana "Abiti puliti", quella che ha tra l'altro denunciato il coinvolgimento di molti clienti italiani fra i quali il colosso multinazionale Benetton. Che aveva negato di rifornirsi da aziende presenti nell'edificio crollato e solo in un secondo tempo aveva ammesso di aver avuto rapporti con una di quelle aziende, la New Wave, che da tempo però era stata esclusa dalla lista dei fornitori. Documenti recuperati tra le macerie dai sindacati della New Wave, col nome del cliente, Benetton, e la data del 23 marzo 2013 la smentiscono. 22 maggio 2013 |