Il ddl sul federalismo fiscale frantuma l'Italia e penalizza le regioni più povere Apertura della Lega Nord Il 28 giugno, insieme al Dpef 2008-2011, il Consiglio dei ministri ha approvato, quasi alla chetichella, un provvedimento che assesta un colpo demolitore all'unità del popolo italiano e del Paese, facendogli fare un balzo indietro nel tempo di almeno 150 anni, quando l'Italia era ancora divisa in staterelli prima dell'unificazione nazionale. Si tratta del disegno di legge delega per la piena realizzazione del federalismo fiscale, una novità introdotta con la controriforma federalista del Titolo V della Costituzione attuata dal "centro-sinistra" nel 2001. Il ddl governativo fissa infatti i principi e i criteri attuativi per la piena applicazione dell'articolo 119 della Carta costituzionale modificata, che sancisce l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, fornendo la base economica al trasferimento ad esse della potestà legislativa e di competenze amministrative (devoluzione) su tutta una serie di materie importanti, prima di esclusiva potestà dello Stato centrale, come stabilito nell'articolo 117. Il provvedimento verrà presentato a metà luglio alla Conferenza unificata per il parere di Regioni ed Enti locali. Entro 12 mesi dall'approvazione in parlamento il governo emanerà i decreti delegati che, sulla base del quadro generale fissato dalla legge delega, dovranno tradurre in pratica il federalismo fiscale. Le basi finanziarie delle nuove regioni-Stato Il provvedimento del governo stabilisce che le Regioni a statuto ordinario potranno finanziarsi, per le spese inerenti le materie di loro competenza fissate nell'articolo 117, istituendo propri tributi regionali e con la compartecipazione al gettito dei tributi erariali, cioè dello Stato. Rientrano tra i primi l'imposta regionale sulle attività produttive delle aziende (IRAP), l'addizionale regionale all'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), l'addizionale regionale all'imposta di consumo sul gas metano e sui canoni statali dell'acqua pubblica, l'imposta regionale sui carburanti per autotrazione, il tributo sui rifiuti in discarica e altri tributi su tutta una serie di voci come l'abilitazione all'esercizio professionale, le concessioni statali dei beni del demanio marittimo, le emissioni sonore degli aeromobili, la concessione di spazi e aree pubbliche regionali, le tasse universitarie, le tasse automobilistiche, le tasse sulle concessioni regionali. Tra i secondi rientrano la compartecipazione al gettito IVA e la compartecipazione al gettito IRPEF. Alle Regioni spetterà anche determinare le materie nelle quali Comuni, Province e Città metropolitane possono, nell'esercizio della propria autonomia, imporre tributi locali e introdurre variazioni alle aliquote o agevolazioni. Inoltre spetterà sempre alle Regioni distribuire a Comuni e Province al di sotto di una certa soglia demografica i finanziamenti dello Stato, della Comunità europea ed altri fondi speciali per svolgere le funzioni fondamentali, essendo i trasferimenti diretti riservati solo ai Comuni e Province più importanti. Roma Capitale e le Città metropolitane godono di una normativa specifica nell'assegnazione dei fondi. Anche Comuni e Province potranno imporre propri tributi. Per i primi le voci principali sono costituite da ICI, imposta di scopo, pubblicità, spazi e aree pubbliche (TOSAP), smaltimento rifiuti (TARSU), addizionale comunale IRPEF e altre addizionali varie (energia elettrica, diritti di imbarco, ecc.). Per le seconde le voci principali su cui imporre tasse e balzelli sono IPT (imposta di trascrizione), TOSAP, addizionale sull'energia elettrica e imposta sulla "protezione" dell'ambiente. Inoltre si dà loro la possibilità di una compartecipazione all'IRPEF e di trasformare l'imposta sulle RCA auto in un tributo proprio, con la possibilità di variare fino al 20% le attuali aliquote. Per compensare le differenze di gettito (e quindi di servizi alla popolazione) che con l'autonomia fiscale si creeranno inevitabilmente tra le regioni più ricche e quelle più povere, viene istituito un "fondo perequativo a favore delle Regioni con minore capacità fiscale per abitante", alimentato dalla fiscalità generale e dalla quota regionale IRPEF. Tale fondo però non è destinato a coprire tutte le voci di spesa, ma solo quelle volte ad assicurare uno standard minimo uguale su tutto il territorio nazionale di servizi essenziali, tra cui sanità e assistenza, nonché le spese per il funzionamento delle amministrazioni locali. Per tutte le altre voci di spesa, di competenza esclusiva delle Regioni o concorrente con lo Stato, le quote del fondo perequativo saranno ripartite alle regioni più povere tenendo conto del numero e della capacità fiscale degli abitanti. Ma legate anche ad un meccanismo di "premi" e "punizioni" per obbligare le regioni beneficiarie a tagliare le spese e aumentare il gettito fiscale, in modo da ridurre le differenze con le regioni più ricche. Tale meccanismo liberista andrà pienamente a regime dopo un periodo transitorio di cinque anni, in cui sostituirà gradualmente il criterio "storico" della ripartizione dei fondi, basato cioè sui livelli rilevati nelle singole Regioni nel 2006-2007. Una controriforma da respingere in blocco Il ddl è stato approvato dal Consiglio dei ministri con l'astensione dei ministri Ferrero (PRC) e Pecoraro Scanio (Verdi). Il primo con la motivazione che con questo provvedimento "si potrebbe rischiare" una sperequazione tra aree ricche e povere del Paese, oltre ad esserci un dubbio di costituzionalità sulle diverse modalità di finanziamento di Comuni più piccoli e più grandi. Il secondo con la motivazione che il provvedimento sarebbe troppo sbilanciato a favore delle Regioni rispetto ai Comuni. In entrambi i casi si sono guardati bene dal fare l'unica cosa che non assomigliasse a una farsa: votare contro. E sull'intero provvedimento, invece di astenersi su pochi, singoli aspetti di esso. Qui non si tratta di strappare qualche miglioramento che attenui le conseguenze sciagurate e nefaste di questo provvedimento, ma di respingerlo in blocco, perché non risponde agli interessi del popolo italiano, ma solo agli appetiti egoistici delle ricche borghesie del Nord, che puntano a concentrare tutta la ricchezza nella parte più sviluppata del Paese, staccando il Sud come fosse una palla al piede, per poter meglio competere sul mercato capitalistico europeo e mondiale. La controriforma federalista della Costituzione, cui il federalismo fiscale fornisce la base economica, frantuma lo Stato unitario nazionale e l'unità del popolo italiano in tante regioni-Stato in competizione fra loro, dove regnerà la legge della giungla all'interno di ciascuna regione e tra una regione e l'altra. Il fondo perequativo regionale assicura solo uno standard quantitativo e qualitativo minimo di servizi essenziali (sanità, assistenza, istruzione, trasporti); il che significa da Terzo Mondo, come del resto avviene già adesso in molte parti d'Italia, soprattutto nel Meridione. Tutto il resto dipenderà dalla ricchezza o dalla povertà delle singole regioni: quelle più ricche avranno anche servizi migliori; le più povere dovranno contare sull'elemosina delle più ricche e dello Stato, ma solo per cinque anni, dopodiché gli aiuti arriveranno sempre più col contagocce e condizionati al taglio delle spese e all'adozione di criteri sempre più privatistici e di mercato nella gestione dei servizi. Fermo restando che col federalismo fiscale in tutte le regioni, nessuna esclusa, aumenteranno le tasse e i balzelli, sia nel numero che nelle aliquote, mentre diminuirà in proporzione la forza contrattuale unitaria dei lavoratori e delle masse popolari, spezzettata e dispersa in mille realtà locali. Per comprendere a quali interessi egoistici, secessionisti e persino razzisti risponde il federalismo fiscale, basta guardare la proposta di legge approvata lo scorso 19 giugno dal Consiglio regionale della Lombardia guidato dal forzafascio-cattolico Formigoni. Proposta che con la "benevola astensione" di Ulivo e Verdi, e il voto contrario solo di PRC e PdCI (ma solo perché la proposta lombarda ostacolerebbe quella governativa), prevede fra l'altro di trattenere in regione l'80% dell'IVA e di aumentare la quota regionale dell'IRPEF, detratti i redditi fondiari, fino al 15%. In pratica punta a incamerare la quasi totalità dell'imposta sul reddito, dato che la media dell'intera IRPEF nazionale si aggira sul 19%. Prendendosi l'80% dell'IVA, la Lombardia, come altre regioni più ricche e produttive, potrebbe addirittura accaparrarsi l'IVA su merci prodotte al Nord ma pagata da consumatori del Sud, con un ulteriore effetto di drenaggio di risorse a danno delle aree più povere del Paese. Il governo Prodi continuatore della controriforma costituzionale Anche se non si spinge fino a tanto, il progetto del "centro-sinistra" va comunque nella stessa direzione. Non per nulla il capogruppo della Lega Nord alla Camera, Maroni, pur considerando quella lombarda "una proposta di federalismo molto avanzata rispetto a quella del governo", ha tuttavia dichiarato di apprezzare quest'ultima "come un punto di partenza". Anche se, nel rivelare che Prodi gli aveva telefonato per rassicurarlo sull'accoglimento delle richieste leghiste, specie sul Senato federale, lo ha così avvertito: "Prodi mi ha detto che il Senato federale rientra nei suoi progetti perché vuole una riforma del bicameralismo perfetto. Ma finché non vediamo i risultati non ci crediamo". Anche il ministro per le Riforme, il diessino Chiti, ha profuso chili di burro per ingraziarsi la Lega secessionista, dichiarando che "è indispensabile un nuovo parlamento, con una delle due camere che sia sede di rappresentanza di regioni e autonomie locali". Non deve stupire questa accelerazione del governo dell'Unione sul federalismo fiscale, che fa rientrare dalla finestra l'infame devolution bocciata un anno fa dal referendum popolare insieme alla controriforma presidenzialista della Costituzione voluta dalla Casa del fascio. Già al vertice di Caserta dell'11-12 gennaio, Prodi aveva messo il federalismo fiscale in cima alla lista delle "riforme" sulle quali intendeva "accelerare" l'azione del governo. E nel ripresentarsi alle Camere dopo la mini crisi di febbraio, il dittatore democristiano (dopo un colloquio riservato con Calderoli evidentemente per contrattare la benevolenza della Lega) era tornato a battere sul federalismo fiscale definendolo un problema ormai "maturo perché già si è lavorato in materia". Una conferma ulteriore, per chi ne avesse ancora bisogno, che il governo del dittatore democristiano se ne frega della volontà popolare e continua imperterrito a portare avanti la stessa politica capitalista, neofascista, presidenzialista e federalista che ha ereditato dal governo del neoduce Berlusconi. 18 luglio 2007 |