Discorso di fine anno L'ipocrisia di Napolitano sulla questione sociale A parte le eccezioni, è un coro di elogi e di sostegno al presidente della Repubblica, persino Berlusconi "si riconosce" nelle sue parole L'ultimo discorso di fine anno con cui Napolitano ha concluso il suo settennato è stato dedicato in gran parte alla questione sociale, e non poteva fare diversamente per cercare, come ha detto nella premessa, "ancora una volta di interpretare ed esprimere sentimenti e valori condivisi, esigenze e bisogni che riflettono l'interesse generale del Paese": troppo drammatiche sono le condizioni delle masse stremate dalla crisi economica sempre più devastante e da un anno di continue stangate antipopolari del governo Monti per poter ignorare o sottovalutare il tema. Solo che lo ha affrontato in modo sommamente ipocrita, nascondendo le responsabilità del governo, dei partiti borghesi e sue personali nell'aver portato il Paese a questa intollerabile situazione, e solo per cercare di giustificare e coprire come ineluttabile "rimedio" ad essa proprio quella politica dei sacrifici e dei tagli alla spesa pubblica che sta massacrando i lavoratori e le masse popolari. È così che dopo aver esordito col solito saluto patriottardo e interventista "a quanti servono da lontano la nazione, in suo nome anche rischiando la vita, come nelle missioni di pace in tormentate aree di crisi", Napolitano ha richiamato "la realtà sociale duramente segnata dalle conseguenze della crisi con cui da quattro anni ci si confronta su scala mondiale, in Europa e in particolar modo in Italia". E ha ricordato la crisi di aziende medie e grandi e perfino di un'intera regione come la Sardegna, l'aumento della cassa integrazione e della disoccupazione, specie quella giovanile, l'aumento delle imposte e del costo dei beni primari e dei servizi essenziali, l'aumento della povertà nelle famiglie, e così via. "Ricevo d'altronde lettere da persone che mi dicono dell'impossibilità di vivere con una pensione minima dell'INPS, o del calvario della vana ricerca di un lavoro se ci si ritrova disoccupato a 40 anni", ha detto con tono accorato il capo dello Stato. E ha persino ammesso che non si può più parlare di "disagio sociale" ma di una vera e propria "questione sociale", richiamando "la politica", e "prima ancora di indicare risposte, come tocca fare a quanti ne hanno responsabilità", a "sentire nel profondo" questa questione sociale e a mostrare "questo sentimento, questa capacità di condivisione umana e morale". Rassegnarsi ai sacrifici e alla macelleria sociale Ma immediatamente dopo, togliendosi la maschera addolorata di buon padre pietoso e indossando quella più consueta di severo censore, ha aggiunto che "ciò non significa, naturalmente, ignorare le condizioni obbiettive e i limiti in cui si può agire - oggi, in Italia e nel quadro europeo e mondiale - per superare fenomeni che stanno corrodendo la coesione sociale". Condizioni, ha sottolineato Napolitano, legate al "massiccio debito pubblico" che "obbligano i cittadini a sacrifici" e provocano recessione, "ma nessuno può negare quella necessità: è toccato anche a me ribadirlo molte volte. Guai se non si fosse compiuto lo sforzo che abbiamo in tempi recenti più decisamente affrontato". "È dunque entro questi limiti - prosegue l'inquilino del Quirinale - che si può agire per affrontare le situazioni sociali più gravi. Lo si può e lo si deve fare distribuendo meglio, subito, i pesi dello sforzo di risanamento indispensabile, definendo in modo meno indiscriminato e automatico sia gli inasprimenti fiscali sia i tagli alla spesa pubblica, che va, in ogni settore e con rigore, liberata da sprechi e razionalizzata". Il messaggio, al di là dell'ipocrisia quirinalesca sulla necessità di una maggiore equità e della "razionalizzazione" della spesa pubblica, è fin troppo chiaro: alla politica dei sacrifici e dei tagli i lavoratori e le masse popolari devono rassegnarsi anche per i prossimi anni! E del resto come sfuggirvi, se per Napolitano "uscire dalla recessione, rilanciare l'economia, è possibile per noi solo insieme all'Europa"; e l'Unione europea imperialista e la Banca centrale, aggiungiamo noi, ci impongono con il micidiale "fiscal compact", il pareggio di bilancio pena sanzioni miliardarie (il cui obbligo è stato recentemente inserito nella nostra Costituzione attraverso la modifica dell'articolo 81) e la riduzione forzata del rapporto debito pubblico/pil del 5% l'anno per i prossimi venti anni, pari a una legge finanziaria da 45 miliardi ogni anno? Qualunque governo scaturisca dalle prossime elezioni, sia esso di destra, di "centro" o di "centro-sinistra", ribadisce in sostanza Napolitano, non potrà che agire entro questi ferrei e coercitivi vincoli, e pertanto non potrà che continuare la feroce politica liberista, antipopolare e di macelleria sociale che già Berlusconi e Tremonti avevano sottoscritto con la UE, la BCE e il Fondo monetario internazionale, e che Monti ha ripreso e attuato al massimo grado sulla pelle dei lavoratori, dei pensionati, dei precari, degli studenti e delle masse popolari in generale. Napolitano si sveglia solo adesso? Dopo questa arcigna puntualizzazione, risalta ancor di più l'ipocrisia degli altri suoi retorici appelli, come quello a non scordare il Mezzogiorno, "di cui poco ci si fa carico e perfino poco si parla nei confronti e negl'impegni per il governo del Paese", e come quello contro il "crescere delle diseguaglianze sociali". E ciò vale a maggior ragione per quello rivolto ai giovani, che a detta di questo rinnegato "hanno più motivi per essere aspramente polemici" e "ragioni da vendere nei confronti dei partiti e dei governi per vicende degli ultimi decenni", e tra i quali è importante che "si manifesti, insieme con la polemica e l'indignazione, la voglia di reagire, la volontà di partecipare a un moto di cambiamento e di aprirsi delle strade": quando poi egli è stato il primo a lanciare anatemi, insieme ai governi Berlusconi e Monti e ai partiti della destra e della "sinistra" borghese, contro la "violenza nelle piazze" delle rivolte studentesche contro i tagli alla scuola e all'università. Il rinnegato Napolitano non può fingere di scandalizzarsi per la questione sociale e il dramma dei giovani privati di ogni futuro, come se si fosse svegliato solo ora. Dov'è stato negli ultimi vent'anni, quando i governi di destra del neoduce Berlusconi, ma anche quelli di "centro-sinistra", creavano la piaga mostruosa del precariato, privatizzavano le imprese statali e i servizi, aumentavano smisuratamente il divario economico tra il Mezzogiorno e il resto d'Italia, asfissiavano progressivamente la scuola pubblica, bloccavano i salari e le pensioni e cancellavano pezzo per pezzo lo Stato sociale e i diritti dei lavoratori? Egli ha visto benissimo, e dalle prime file, tutto questo scempio, dal momento che occupava alte cariche istituzionali e di governo, prima come presidente della Camera, poi come ministro dell'Interno del governo Prodi e infine come capo dello Stato: dunque perché se ne accorge solo adesso? Evidentemente vuole chiudere il suo settennato, che è stato anche quello della crisi del capitalismo, contro cui non ha detto una sola parola, del massacro sociale e del presidenzialismo dilagante, di cui egli è stato da almeno un anno, con il golpe bianco del governo Monti, il principale artefice, creandosi un alibi democratico a buon mercato per lavarsi le mani da ogni responsabilità. È significativo, infatti, che a parte poche eccezioni come l'IDV e la Lega, tutti gli altri partiti si siano profusi in un coro unanime di elogi al suo discorso: da Monti, che manco a dirlo gli ha subito telefonato per fargli i complimenti per il servizio resogli nel coprirlo, a Bersani, per il quale Napolitano "ci ha indicato la rotta". E perfino il neoduce Berlusconi, che pure in questi giorni non gli risparmia le frecciate polemiche, si è levato tanto di cappello dichiarando di "riconoscersi" nelle sue parole: un ringraziamento cifrato per aver evitato accuratamente di additare il suo governo tra le cause principali che hanno determinato la grave "questione sociale" richiamata nel discorso. 9 gennaio 2013 |