Istigata dagli Usa L'Etiopia invade la Somalia Ritirata strategica delle Corti islamiche L'Onu, l'Ue, compresa l'Italia, non condannano l'aggressione. Raid americano nel sud del paese provoca 31 morti tra la popolazione Aerei e elicotteri americani hanno bombardato l'8 e il 9 gennaio alcuni villaggi nel sud della Somalia dove ancora forte è la resistenza delle forze delle Corti islamiche verso le truppe etiopiche. Si tratta del primo intervento diretto dell'imperialismo americano nell'invasione della Somalia da parte dell'Etiopia. Fino ad allora la casa Bianca si era riservata un ruolo dietro le quinte di istigatore dell'invasione attuata dal vassallo etiopico Zenawi, un'invasione approvata da Onu e Unione europea che hanno avallato anche i raid aerei. Secondo il Pentagono i raid sarebbero stati necessari per colpire dei presunti membri di Al Qaeda, responsabili dei due attentati del 1998 contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania, individuati nella zona; secondo fonti somale ci sarebbero state almeno 31 vittime fra la popolazione. Eppure il ministro degli Esteri italiano, Massimo D'Alema, non ha trovato di meglio che affermare la contrarietà dell'Italia a "iniziative unilaterali" che potrebbero innescare nuove tensioni in un'area già caratterizzata da forte instabilità; così nel linguaggio diplomatico della Farnesina si avalla l'invasione della Somalia e di fatto i raid americani. Da Bruxelles arriva la "condanna" dell'Unione: il raid "è un incidente", è "un episodio che non aiuta nel lungo termine" per il conseguimento dell'obiettivo della stabilizzazione della Somalia ha affermato il commissario Louis Michel. Dall'Onu, che col silenzio aveva avallato l'invasione, sono state espresse timide "preoccupazioni" per l'escalation. L'8 gennaio il presidente somalo Abdullahi Yusuf riusciva a mettere piede a Mogadiscio, era la prima volta dalla sua nomina nel 2004 e lo poteva fare solo per la protezione garantitagli dalle truppe occupanti etiopiche. La prima dichiarazione era: "nessun dialogo con gli islamici delle Corti. Li abbiamo sbaragliati e continueremo a perseguirli". I bollettini di guerra che indicavano le forze delle Corti islamiche in rotta e oramai inseguite fino nella parte sud della Somalia sembravano dare ragione al presidente Yusuf. L'intervento diretto degli Usa nell'invasione ha invece messo in evidenza che una vasta regione nel sud del paese resta ancora sotto il controllo delle Corti Islamiche mentre nella capitale le forze di occupazione già fanno fatica a controllare le proteste della popolazione contro l'invasione e registrano le prime perdite da attacchi della resistenza. Lo scorso 6 dicembre il Consiglio di sicurezza dell'Onu aveva votato all'unanimità la risoluzione 1725 presentata dagli Usa che autorizza l'invio di un contingente di "pace" formato da truppe di paesi africani in Somalia a difesa del governo federale transitorio (Tfg) del presidente Yusuf, asserragliato a Baidoa, sede delle istituzioni federali transitorie nate nel 2004. Formalmente le truppe avrebbero dovuto limitarsi a "monitorare e mantenere la sicurezza a Baidoa" per almeno sei mesi ma erano comunque autorizzate a usare la forza. L'inviato speciale dell'Onu per la Somalia, il guineiano Francois Fall affermava che "le truppe saranno dispiegate in 30 giorni". La risoluzione riteneva legittimo solo il governo di Baidoa, non diceva una parola sulle migliaia di soldati etiopici già presenti sul territorio somalo e accusava alcuni componenti delle Corti islamiche di avere "legami con il terrorismo internazionale". La trattativa tra rappresentanti delle Corti islamiche e del parlamento somalo di Baidoa, che aveva portato a un primo accordo, avrebbe dovuto riprendere a metà dicembre a Khartoum, anche se ostacolata dal governo del presidente Yusuf. Evidentemente la regia americana della crisi aveva già messo in programma l'invasione etiopica per prendere il controllo del paese. Gli scontri tra le forze delle Corti islamiche e i soldati etiopici a protezione di Baidoa si intensificavano nella settimana del 18 dicembre. Solo l'intervento in forze dell'aviazione e dei carri armati etiopici pemetteva agli occupanti e alle forze governative di rompere l'assedio di Baidoa e lanciare l'offensiva verso la capitale Mogadiscio. In sintonia con i padrini americani il primo ministro etiopico Meles Zenawi precisava che l'attacco verso la capitale somala era un'operazione di "autodifesa" contro la minaccia costituita da "terroristi" islamici. Il 26 dicembre il Consiglio di sicurezza dell'Onu nella riunione straordinaria sulla Somalia non trovava l'accordo su una proposta di risoluzione avanzata dal Qatar; diverse delegazioni, tra cui Usa e Gran Bretagna, si dicevano contrarie al paragrafo che chiedeva che "tutte le forze straniere si ritirino immediatamente e cessino le loro operazioni militari in Somalia". Il silenzio del compiacente Onu era il via libera all'occupazione di Mogadiscio da parte delle truppe etiopiche. Inascoltate l'Unione africana (Ua), la Lega araba e l'Igad (Autorità intergovernativa di sviluppo tra sette Paesi dell'Africa orientale) che chiedevano il ritiro "immediato" dei soldati dell'Etiopia. Il 28 dicembre i soldati etiopici entravano a Mogadiscio, abbandonata dalle forze delle Corti islamiche. Il capo dell'esecutivo delle Corti lo sceicco Sharif Sheikh Ahmed in una intervista del 30 dicembre illustrava la tattica adottata contro gli invasori. "La ragione per cui abbiamo fatto ripiegare le nostre forze su Mogadiscio e poi su Kisimayo - affermava Ahmed - è da ricercare nei durissimi combattimenti e nel tipo di intervento militare dell'invasore. Noi abbiamo distrutto molti carri armati e molta capacità di attacco delle truppe etiopi, oltre ad aver ucciso oltre 3.000 uomini di Addis Abeba. Poi la supremazia aerea ci stava facendo avere troppe perdite e abbiamo preferito ritirarci e rivedere la nostra tattica di combattimento. Ci vuole tempo per rispondere a un tale dispiegamento di forze. Dunque abbiamo deciso di ripiegare, riorganizzarci e usare una tattica diversa: organizzare operazioni di guerriglia. Dopo aver capito che le truppe etiopi avevano deciso di conquistare e distruggere la nostra capitale, abbiamo preferito salvare la nostra gente. Il bene del nostro popolo è il motivo per cui governiamo. Dunque abbiamo abbandonato la capitale e ci siamo ritirati su Kisimayo. Non abbiamo voluto che i combattimenti distruggessero la capitale del nostro Paese. Ora stiamo cercando una via per combattere contro il nemico senza fare massacrare la gente di Somalia. Ora lotteremo in un modo che l'Etiopia non dimenticherà mai, e che metterà il nostro nemico in ginocchio". L'1 gennaio anche Kisimayo, la città portuale a sud di Mogadiscio, era occupata dalle forze etiopiche. L'offensiva verso Kisimayo era seguita dalle navi da guerra americane provenienti dalla base di Gibuti. La resistenza all'invasione proseguiva nella regione sud verso la frontiera con il Kenya. Nella zona dove nei giorni successivi colpiranno i caccia di Addis Abeba e i raid americani. Il 2 gennaio il premier etiopico Meles Zenawi affermava di voler ritirare i suoi soldati nel giro di "un paio di settimane", il primo ministro somalo Ali Mohammed Gedi dichiarava che i soldati etiopi dovranno rimanere "diverse settimane, forse mesi per cancellare ogni minaccia terroristica dalla Somalia". Evidente che la sopravvivenza del governo di Gedi si basa sul supporto delle truppe etiopiche, che a Mogadiscio sono già state bersaglio di diverse proteste della popolazione represse dai soldati governativi e costate diversi morti, e sul sostegno americano; il 6 gennaio la sottosegretaria americana agli affari africani Jendayi Frazer annunciava lo stanziamento di un primo pacchetto di aiuti al governo Gedi pari a 40 milioni di dollari. 10 gennaio 2007 |