Eurobond: la vera posta in gioco Intorno alla creazione o meno dei cosiddetti Eurobond si sta giocando una lunga e aspra partita politica ed economica nella Ue, rimbalzata finanche oltreoceano nel recente vertice dei G8 a Camp David e riaccesa dall'annuncio di Monti che essi ormai sarebbero all'orizzonte. L'elezione di Hollande in Francia ha visto nascere un'inedita "convergenza forte" tra la destra e la "sinistra" borghese, preclusa in precedenza dall'asse di ferro Merkel-Sarkozy. E ciò è bastato per rilanciare questa proposta in presenza di una crisi gravissima che ha investito l'Eurozona, sta devastando la Grecia sospingendola fuori dalla moneta unica e morde ferocemente paesi come la Spagna, il Portogallo e l'Italia ma, soprattutto, ha dato ampie avvisaglie di potersi scatenare in qualsiasi momento contro qualsiasi paese, anche su quel cosiddetto zoccolo duro europeo, com'è accaduto di recente anche a Francia e Olanda. Fin qui ogni singolo Stato europeo provvede a emettere periodicamente titoli allo scopo di finanziare il proprio debito pubblico. Tutti questi titoli sono obbligazioni garantite dallo Stato emittente e assicurano un interesse al sottoscrittore. Le diverse caratteristiche in termini di scadenze, rendimento e modalità di pagamento degli interessi distinguono i diversi titoli emessi: Bot, Btp, Cct, ecc. Quanto più alto è il rischio di insolvenza dello Stato emittente, o comunque la precarietà conseguente alla continua emissione di titoli per finanziare ingenti debiti pubblici, tanto più alti diventano gli interessi corrisposti. A saltare uno dopo l'altro è sempre l'anello più debole della catena imperialista. Si allarga così la forbice tra gli interessi corrisposti dai titoli di stato dei suddetti paesi rispetto a quelli della Germania, considerati l'indicatore di riferimento in quanto l'economia più solida. Si tratta del famigerato "spread", quel meccanismo infernale che finisce per soffocare e stritolare a una a una le economie dei paesi che ne vengono risucchiati. Tre formule per gli Eurobond Un bond (in italiano si tradurrebbe obbligazione) non è altro, in regime capitalistico, che un contratto di debito secondo il quale un investitore accetta di prestare una somma a un'azienda o a un governo concordando un tasso d'interesse. Se l'investitore ritiene rischioso il prestito pretenderà e otterrà (pena la mancata sottoscrizione del titolo) l'innalzamento dei tassi d'interesse. Senza voler entrare in merito ai meccanismi della loro emissione e all'organismo europeo che dovrebbe regolarli e gestirli, gli Eurobond sarebbero un nuovo titolo di debito pubblico emesso da ciascun paese dei 17 aderenti all'Euro, ma sottoscritto da tutti gli altri Stati. Sono obbligazioni tradizionali che, secondo i loro sostenitori, dovrebbero veder diminuire il rischio associato, e quindi gli interessi corrisposti al sottoscrittore, in virtù della maggiore solvibilità garantita congiuntamente. In verità la diminuzione del rischio associato varrebbe solo per alcuni paesi, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, l'Irlanda e l'Italia, mentre per altri, vedi la Germania, comporterebbe un suo aumento. Sta esattamente qui il nocciolo della contrapposizione tra i loro sostenitori, Hollande e Monti in testa, e i loro avversari, capeggiati dalla Germania della Merkel. I primi sperano nell'abbassamento degli interessi pagati, i secondi temono il loro innalzamento e quindi l'aumento di passività nei conti pubblici nazionali perché dovrebbero farsi carico delle difficoltà dei paesi più deboli. Il contendere riguarda semplicemente una questione di borsa e non di massimi sistemi economici. Tant'è che i due schieramenti vedono mescolati, da una parte e dall'altra, esponenti sia della destra sia della "sinistra" borghese. Con la destra Merkel stanno i socialdemocratici tedeschi, e al fianco del "socialista" Hollande ci sono esponenti della destra europea come Monti, Tremonti e lo spagnolo Rajoy. Anche se ha ripreso vigore soltanto di recente, quando l'innalzamento dei costi di indebitamento si è fatto insostenibile, l'ipotesi di una raccolta congiunta di fondi su base europea era contemplata fin dagli atti costitutivi dei sei paesi fondatori della Cee. Nel corso degli anni successivi si sono avvicendate svariate proposte come i "Blue-bond", gli "Euro-Union-Bond" di Prodi, gli "Stability bond" presentati dal presidente della Commissione europea Barroso e i "Project bond", sponsorizzati da Hollande e finalizzati a finanziare investimenti privati. Infine a novembre scorso la Commissione europea ha presentato tre diverse formule per i futuri Eurobond corrispondenti a diversi gradi di integrazione europea. 1. "Eurobond completi con responsabilità solidale", formula che prevede la completa sostituzione dei titoli nazionali e la responsabilità solidale e illimitata di ogni stato membro. 2. "Eurobond parziali con responsabilità solidale", che prevede la sostituzione di una parte del debito nazionale decisa calcolata come percentuale sul Pil. 3. "Eurobond parziali senza garanzie solidali", che non prevede una responsabilità congiunta e non necessita di impegnative modifiche ai trattati, ma rischia di risultare inaccessibile ad alcuni Paesi membri. L'attuale crisi è finanziaria, di sovrapproduzione e di sistema Le ricette in discussione non sfiorano neppure le contraddizioni insanabili che alimentano l'attuale crisi, indipendentemente da quale formula prevarrà o se invece la Germania continuerà a escluderli a priori senza correre il rischio di far saltare irrimediabilmente l'esistenza stessa della moneta comune, nata a suo tempo per compattare il mercato interno europeo e soprattutto per lanciare la superpotenza della Ue sul mercato "globalizzato" coprendo quegli spazi aperti dall'arretramento del dollaro e della superpotenza americana. L'attuale crisi che investe l'Europa e rischia di dare il colpo di grazia all'euro è particolarmente devastante perché è combinata e risultante di tre diverse componenti. È finanziaria, iniziata negli Usa con l'esplosione del bubbone dei cosiddetti fondi-spazzatura e col rischio del fallimento di svariate banche d'affari e poi abbattutasi rapidamente sul sistema bancario internazionale; è ciclica di sovrapproduzione, si ricordi il recente donchisciottesco appello di Marchionne a produrre meno automobili perché se ne fanno troppe (donchisciottesco perché il nuovo Valletta sa bene che i suoi simili sono dei lupi che mai accetteranno di sedersi intorno a un tavolo per rinunciare ciascuno a parte del bottino); ed è del sistema economico-produttivo del vecchio continente, alle prese con un declino storico inesorabile, al suo ridimensionamento nei mercati internazionali rispetto ai nuovi paesi imperialisti emergenti e alle nuove superpotenze come la Cina e l'India. Coloro che da più parti ripetono come una litania che l'Italia non cresce da un decennio, non fanno che mettere a nudo questa verità: il suo sistema produttivo sta subendo un inesorabile processo di contrazione e, dunque, di riduzione del suo peso relativo sui mercati mondiali. Si producono troppe merci (rispetto alle sempre più ridotte capacità di acquisto della popolazione, all'immiserimento sotto gli occhi di tutti e spietatamente radiografato dalle statistiche che parlano di salari e redditi fermi da almeno vent'anni) e a prezzi troppo alti rispetto a quei paesi che coniugano lo sfruttamento selvaggio della forza-lavoro e l'assenza dei più elementari diritti per i lavoratori. Ecco perché tante imprese falliscono e chiudono: è così che agisce la spietata legge della concorrenza capitalista, mister Marchionne. Non da oggi gli economisti borghesi vedono nelle crisi squilibri e difetti del sistema creditizio: basterebbe, a loro dire, una più efficace ed efficiente regolazione del credito da parte dello Stato borghese per eliminarle. Superficialmente e solo apparentemente la crisi sembra una crisi creditizia e monetaria. Quando le banche stringono i cordoni del credito portando all'insolvenza le imprese in difficoltà, agiscono in conseguenza della crisi e non per alimentarla. Pur risultando un fattore importante nell'acutizzazione delle crisi economiche, il credito non ne è assolutamente la vera causa, salvo rare e circostanziate occasioni. Non può farle né nascere né scoppiare. All'origine in generale delle crisi economiche sta la contraddizione fondamentale del capitalismo, la contraddizione tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell'appropriazione garantita appunto dalla proprietà privata capitalistica. Il ricorso alla leva del credito da parte delle banche centrali nell'immediato sembra scongiurare la recessione, in realtà finisce per rimandarla nel tempo e, stimolando e aggravando la sovrapproduzione, renderà ancor più persistente, ampia e dolorosa la fase depressiva. I difetti del sistema creditizio non sono la causa della crisi Da quando lo Stato borghese si è scientemente inserito nel credito, le crisi economiche dei vari paesi capitalistici non sono scomparse ma si sono moltiplicate e acuite. Se da una parte stimola lo sviluppo della produzione capitalistica, dall'altro il credito aggrava tutte le contraddizioni interne al sistema, spiega Marx: "Il sistema creditizio affretta quindi lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione". (Marx, Il Capitale, Libro 3°, Capitolo 27, p.523, Editori Riuniti, 1997). Si figuri ora che diventerebbero ben 17 gli Stati a governarlo. Gli Eurobond non sono un toccasana, la bacchetta magica capace di scacciare i demoni della crisi. Possono alleviarne le manifestazioni più acute e ritardare la catastrofe. Un po' come dare l'ossigeno a un moribondo. Essi sono uno strumento del credito e nulla più. Paesi come l'Italia con un colossale debito pubblico e con l'economia in recessione saranno comunque costretti a rivolgersi ai mercati e a pagare interessi esosi, finendo per essere permanentemente ricattati e minacciati dalla bancarotta. La contrapposizione tra rigore e sviluppo è l'annoso conflitto tra chi considera prioritario il pareggio di bilancio, anche a costo di mettere l'economia in debito di ossigeno e di peggiorare la recessione, e chi privilegia l'arma del credito per drogare il sistema produttivo e rompere il ciclo depressivo anche a costo di infiammare ulteriormente il debito pubblico. Nel governo dell'economia le autorità capitalistiche hanno a disposizione due soli pedali su cui agire: l'acceleratore del credito più facile, col rischio di perderne il controllo e finire presto la benzina, e il freno del pareggio di bilancio che deprime inevitabilmente l'economia e rischia di soffocarla. Né l'uno né l'altro né una loro sapiente combinazione sono in grado di curare le contraddizioni fondamentali del sistema economico capitalistico. A chi giova il debito pubblico Il bubbone del debito pubblico non scoppia col capitalismo putrescente alle prese con la cosiddetta "globalizzazione" imperialista ma, come ben spiega Marx nel "Capitale", "imprime il suo marchio all'era capitalistica", tanto che persino ai suoi esordi i "titoli di Stato (che rappresentano capitale consumato)", nient'altro che "crediti sul prodotto nazionale annuo", "rappresentavano la grande massa dei valori di Borsa". Il debito pubblico non è generato, come cianciano il liberista borghese Monti e la Confindustria, dagli eccessi di spesa del cosiddetto "Stato sociale". Valgano due esempi per tutti. Il sistema previdenziale dei salariati è stato in attivo in tutti gli anni recenti per svariati miliardi, eppure il tandem antioperaio Monti-Fornero ha imposto una controriforma devastante per gli attuali pensionati e per quelli futuri. Analogamente è scandaloso che la tassazione sui redditi da salario risulti mediamente quasi doppia rispetto a quella sui redditi da capitale. Ad alimentare il debito pubblico sono i meccanismi stessi che regolano il sistema monetario capitalistico, le banche, la finanza, il riarmo imperialista, i grandi capitalisti e quella pletora di parassiti che vivono nel lusso e nell'ozio alle spalle della società, mentre a essere torchiati dalle tasse e a finanziarlo sono gli operai e la popolazione lavoratrice. Cosicché i lavoratori pagano due volte: con un sistema di tassazione che colpisce prevalentemente loro, mentre la fiscalità generale corrisponde esosi interessi ai ristretti circoli di speculatori privati che investono in titoli pubblici, ingrassando così questa "nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti". "L'accumulazione del capitale del debito pubblico non esprime altro, come si è visto, che il rafforzarsi di una classe di creditori di Stato autorizzati a prelevare a loro favore certe somme sul gettito delle imposte" (Marx, Il Capitale, Libro 3°, Capitolo 30, p.561, Editori Riuniti, 1997). Ecco perché il sistema capitalistico si è cacciato in un vicolo cieco e nel suo dibattersi produce nuovi lutti, miserie e guerre imperialiste. Esso non farà mai harakiri spontaneamente. Una ragione in più perché ogni anticapitalista contribuisca, ciascuno col ruolo che più ritiene opportuno, a portare al successo l'appello lanciato dal compagno Giovanni Scuderi: Uniamoci contro il capitalismo, per il socialismo. 30 maggio 2012 |