La sua precedente capitolazione Il rinnegato Fassino parla delle foibe come i fascisti Ecco ciò che ha scritto su "La Stampa" degli Agnelli del 10.02.05 Piero Fassino, segretario nazionale dei DS, sulle foibe e sui profughi istriani, giuliani e dalmati. Lo pubblichiamo come documento che dimostra il grado di degenerazione anticomunista dei rinnegati del comunismo, che ormai parlano apertamente come i fascisti e i neofascisti. Se ne è accorta persino "l'Unità" che ha dedicato solo qualche misero rigo a questa orgia di anticomunismo fascista e berlusconiano. "Alla fine della seconda guerra mondiale un'intera parte d'Italia, al suo confine orientale, fu disintegrata, in larga misura svuotata di un popolo e di una cultura. Da lì partirono gli esuli istriani, fiumani e dalmati, dispersi ora in tante comunità nelle città italiane, e in altri Paesi. Bisogna ricordare l'esodo e bisogna conservare e tramandare la memoria delle sofferenze degli italiani della Venezia Giulia alla fine della seconda guerra mondiale: le foibe, il clima di terrore che il regime comunista instaurò nei luoghi occupati dagli jugoslavi, le paure, l'esodo di massa dall'Istria e dalle coste dalmate." Sono le parole con cui inizia la relazione - primi firmatari Fassino e Violante - della proposta di legge DS che - insieme ad analoghe proposte di altri gruppi parlamentari - portò alla istituzione del 10 febbraio come Giornata nazionale di ricordo dell'Esodo. Fu quello delle foibe e dell'esodo il drammatico epilogo di una contesa lunga un secolo. Fin dal 1918 le classi dirigenti e gran parte della cultura italiana non compresero fino in fondo l'identità peculiare della Venezia Giulia e di Trieste, dove l'italianità era storicamente intrecciata con una dimensione cosmopolita, segnata dalla presenza di comunità slovene e croate. E il ricongiungimento di Trieste alla madre patria venne interpretato da troppi come l'occasione per comprimere quell'identità plurale, facendo così torto alla città e alla sua italianità che mal sopportava una riduzione nazionalista. Atteggiamento che si accentuò ancor di più con il fascismo che cercò di marcare la Venezia Giulia e Trieste con un'idea "etnica" di italianità, che un poeta italianissimo come Umberto Saba denunciò con durezza. Fu quella del fascismo un'italianità non all'altezza delle tradizioni multiculturali della città, al punto che nel '43 Mussolini e la Repubblica Sociale Italiana non esitarono a umiliare Trieste con la costituzione dell'Adriatisches Küstenland, che rappresentò l'annessione di fatto al Terzo Reich della città giuliana e del suo territorio. Specularmente, i nazionalisti jugoslavi considerarono anch'essi il Litorale e in generale la costa orientale dell'Adriatico territori omogenei da ricondurre a un preteso originario alveo nazionale sloveno e croato conculcato - secondo la loro interpretazione - dall'appartenenza allo Stato italiano. Insomma: da tutte e due le parti le pulsioni nazionalistiche pretesero di ridurre ad omogeneità quel territorio. Ciò consolidò ancora di più in una parte dell'opinione pubblica italiana la convinzione che la questione giuliana e istriana fosse esclusivamente un portato del nazionalismo e del fascismo. E perciò la perdita dell'Istria e della Dalmazia non fu percepita come la drammatica cesura con una voce peculiare ed essenziale della nostra identità nazionale. E, anzi, il fatto che il fascismo avesse aggredito la Jugoslavia occupandola insieme ai nazisti, divenne perfino motivo per considerare foibe e esodo quasi inevitabile conseguenza ritorsiva. Non era così. Nelle foibe furono uccisi uomini e donne, fascisti e molti antifascisti, colpevoli soltanto di essere italiani e di opporsi all'annessione di Tito. E l'esodo fu, in realtà, una vera pulizia etnica che puntò a sradicare l'italianità di quelle terre. Né il contesto politico del tempo né l'aggressione di Mussolini alla Iugoslavia potevano giustificare le atroci sofferenze inflitte a donne e uomini innocenti. Da quel pesante carico di sofferenze, personali e di un popolo, l'Italia rapidamente distolse gli occhi e non pochi colsero opportunisticamente quella tragedia per rimuovere la sconfitta e per eludere assunzioni di responsabilità e debiti da onorare nei confronti degli istriani, fiumani e dalmati. Distolse colpevolmente lo sguardo l'Italia democratica, quando invece, proprio in nome degli ideali dell'antifascismo e della Costituzione, avrebbe dovuto denunciare tutti i nazionalismi, ogni politica di negazione dei diritti inalienabili di ogni persona e di ogni comunità e perciò rifiutare ogni atto che negasse agli italiani di Istria, di Fiume e della Dalmazia di vivere liberi e sicuri nella terra dei padri. E la sinistra - anch'essa prigioniera delle visioni manichee della guerra fredda - non seppe vedere e denunciare l'espansionismo di Tito, che presentandosi come liberatore dal fascismo, in realtà assunse comportamenti e linguaggi propri del nazionalismo. Oggi nessuno può dire più di non sapere e ognuno ha il dovere, morale prima ancora che politico, di superare definitivamente ogni forma di reticenza e rimozione di una tragedia che ogni italiano deve considerare parte della storia del Paese. Peraltro oggi, con l'allargamento dell'Unione Europea, anche queste terre possono liberarsi dalle catene del passato. E il confine orientale dell'Italia che a lungo è stato tangibile simbolo della divisione e della sofferenza, ha di fronte a sé la straordinaria opportunità di divenire crocevia strategico tra le due Europe che tornano a incontrarsi e a riunirsi per un destino comune. Ciò consente all'Italia di affrontare la questione degli esuli non solo come riconoscimento di un debito di memoria, ma anche come l'occasione per promuovere il carattere plurale delle terre che si affacciano sull'Adriatico. Non si tratta di perseguire oggi impossibili rivincite o sciagurati irredentismi. Si tratta, di costruire l'Unione Europea, con i suoi principi di libertà, di multiculturalità, di uguaglianza tra le genti e le nazioni. Proprio in quella parte di Europa che più di ogni altra ha conosciuto la tragedia delle pulizie etniche, dei confini artificiosi e dei conflitti nazionalistici, oggi può e deve affermarsi pienamente il riconoscimento, in ogni Stato, di ogni identità culturale e nazionale. A questo compito gli istriani, i fiumani e i dalmati, da una parte e dall'altra del confine, possono dare un grande contributo, resi in ciò più sicuri dal riconoscimento che il loro dramma di cinquant'anni fa non è più dimenticato, né rimosso ed è parte riconosciuta della storia d'Italia. 16 febbraio 2005 |