Marchionne scavalca a destra la Marcegaglia La Fiat esce dalla Confindustria per avere le mani libere nelle relazioni industriali mussoliniane Sacconi: "È una conferma per l'art. 8" Non pare essere mai sazio e non sembra avere limiti il nuovo Valletta, il reazionario, il campione del capitalismo selvaggio di ottocentesca memoria, Sergio Marchionne. Da quando ha preso la guida della FIAT cinque anni orsono ha perseguito senza sosta e con tutti i mezzi il suo piano di demolizione dei diritti dei lavoratori, a partire dal contratto nazionale e dallo Statuto dei lavoratori e di instaurazione di relazioni industriali iperliberiste e neocorporative di stampo mussoliniano. Fanno testo gli accordi imposti col ricatto e con la complicità di CISL e UIL a Pomigliano, a Mirafiori e alla Bertone di Grugliasco. I suoi diktat ripetuti fino alla noia sono noti: o fate come dico io o chiudo le fabbriche e porto le produzioni all'estero; o mi fate un contratto auto che recepisca gli accordi aziendali di Pomigliano e Mirafiori o porto la FIAT fuori da Confindustria hanno ottenuto risultati rilevanti: dal governo, in particolare dal ministro Sacconi, l'art.8 della manovra economica che permette con accordi aziendali di derogare dal Contratto nazionale e dalle leggi sul lavoro con validità retroattiva in modo da farci rientrare gli accordi suddetti; da Confindustria e CISL e UIL, cui si è aggiunta in un secondo momento anche la CGIL, l'accordo sindacale interconfederale del 28 giugno sottoscritto in via definitiva il 21 settembre su contrattazione e rappresentanza sindacale contenente anch'esso il principio di deroga dal contratto nazionale a livello aziendale. Paradossalmente proprio a seguito di questa firma, scavalcando a destra Emma Marcegaglia, il nuovo Valletta ha deciso di mettere in atto la minaccia di rompere con Confindustria per non essere costretto a rispettare nessun vincolo, per avere le mani completamente libere, per decidere lui con chi trattare e fare accordi. Non vuol più sentire parlare di contratto nazionale, anche se ridotto di importanza e ruolo, vuole la libertà di licenziare e negoziare solo con sindacati di comodo, come la FISMIC, il sindacato giallo erede del vecchio SIDA. Così, il 4 ottobre scorso, ha inviato una lettera ufficiale alla Marcegaglia dove tra l'altro è scritto: "Ti confermo che come preannunciato nella lettera del 30 giugno scorso, FIAT e FIAT Industrial hanno deciso di uscire da Confindustria con effetto dal 1 gennaio 2012". Non è vero, come sostiene in modo strumentale e ipocrita Marchionne per giustificare questo atto, che l'accordo del 28 giugno, indebolisce e neutralizza l'art.8 della Finanziaria e i suoi effetti devastanti per i diritti sindacali e contrattuali dei lavoratori. È una tesi smentita un po' da tutti, persino dal ministro Sacconi che di questa norma di legge è l'autore, dalla Marcegaglia e dai sindacalisti collaborazionisti Bonanni e Angeletti, da numerosi giuslavoristi per i quali la legge è sempre più forte dell'accordo sindacale, con buona pace della segretaria della CGIL, Susanna Camusso, rimasta sola a sostenerla per giustificare il suo operato. Nette in questo senso le parole del presidente di Confindustria: "le motivazioni di Marchionne - ha detto - non stanno in piedi. Mi aveva mandato una lettera a fine giugno, dopo l'accordo interconfederale del 28, dicendomi che l'apprezzava e che aveva bisogno della validità retroattiva degli accordi di Pomigliano e Mirafiori. Altrimenti sarebbe uscito da Confindustria. Oggi grazie all'art.8 l'effetto retroattivo di Pomigliano e Mirafiori c'è. Marchionne - ha aggiunto - dice che la sottoscrizione dell'accordo interconfederale avrebbe depotenziato l'art.8, ma questo non è vero". Marchionne pretende e ancora pretende senza soluzione di continuità. Senza però rendere conto del suo operato fallimentare, delle sue promesse disattese, non mantenute. La FIAT infatti in Italia perde pesantemente in borsa e perde nella vendita delle auto. Da gennaio le immatricolazioni si sono ridotte dell'11,3% rispetto al 2010, il peggior risultato dal 1996. I marchi del gruppo torinese nel corso del 2011 hanno venduto il 14 per cento in meno rispetto all'anno precedente. A due anni dal suo annuncio il mirabolante quanto fantasioso progetto denominato "Fabbrica Italia" che prometteva un investimento di 20 miliardi di euro, il lancio di 17 nuovi modelli e l'aumento della produzione delle auto nel nostro Paese da 650.000 a 1.650.000 si sta rivelando per quello che è: un piano tragico di dismissioni, di cassa integrazione, di licenziamenti, assieme a un peggioramento verticale delle condizioni di lavoro. Vedi lo stabilimento di Termini Imerese, 2.200 lavoratori tra addetti e indiretti, prossimo alla chiusura, nonostante la promessa dell'amministratore del Lingotto del febbraio 2007 a Palazzo Chigi di volerlo raddoppiare in produzione e occupazione, vedi la sorte toccata all'Irisbus di Avellino, 700 addetti più l'indotto, e agli stabilimenti CHN di Imola e Maserati di Bologna. Marchionne ha sempre rifiutato le richieste dei sindacati di illustrare nel dettaglio il piano "Fabbrica Italia": quali modelli produrre e quanti, in quali stabilimenti e con quanta occupazione. Ed ha usato la tattica degli annunci generici e parziali più volte rimangiati e comunque ancora tutti da realizzare. Lo ha rifatto anche in questa circostanza. Ha accompagnato lo strappo con Confindustria con l'ennesimo annuncio sullo stabilimento di Mirafiori. Nello stabilimento torinese dovrebbe essere messo in produzione un suv con marchio Jeep. Nulla di nuovo sotto il sole. Già un anno fa il Lingotto aveva promesso di investire un miliardo per costruire un suv con il marchio dell'Alfa Romeo a partire dal terzo trimestre del 2012. Mentre ora per vedere in strada il nuovo modello bisognerà aspettare la metà del 2013, sempre che nel frattempo Marchionne non cambi idea. Il che significa, come minimo, allungare i tempi della cassa integrazione con relativa perdita di salario per i lavoratori. La storia di Pomigliano è analoga: la promessa di produrre la nuova Panda è svanita più di una volta con destinazione Polonia, poi è ritornata sempre con tempi più lunghi. Tanto è vero che dei 5 mila lavoratori in organico ne sono stati riassunti, al momento, solo 190 e tutti rigorosamente senza tessera FIOM. L'uscita della FIAT da Confindustria è indubbiamente un fatto politico e storico enorme. Non foss'altro per cosa ha rappresentato la multinazionale torinese nel panorama industriale italiano e nella stessa Confindustria di cui ha espresso due presidenti, Gianni Agnelli nel passato, e Luca Cordero di Montezemolo più di recente. Tra gli obiettivi che hanno spinto Marchionne a compiere questa scelta radicale e dirompente con conseguenze non facilmente prevedibili nell'immediato, vi potrebbe essere anche quella di favorire un cambio della presidenza della Confindustria, ormai in scadenza, con un uomo, l'ex presidente di Federmeccanica Alberto Bombassei, che faccia proprio e generalizzi il modello di relazioni industriali inaugurato dal nuovo Valletta. C'è anche chi avanza l'ipotesi, non campata in aria, che ciò sia il preludio dell'abbandono della FIAT, almeno nella sua parte essenziale, dell'Italia per rafforzare la sua presenza negli Usa, in Brasile, in Polonia, ecc. "La Fiat ormai è un'azienda straniera che si comporta in Italia come in un qualsiasi altro paese" è il commento di Giorgio Airaudo, responsabile auto della FIOM. Essa "ha dimenticato - aggiunge - di essere la Fiat cioè un'impresa con una storia particolare che la lega al nostro territorio. Marchionne ha scordato tutto ciò e vuole avere le mani libere, pretendendo tra l'altro di non rispettare le nostre leggi, ma di fare in modo che ne vengano scritte di nuove che si adattino alle sue esigenze". Come è avvenuto con l'articolo 8 "che noi consideriamo incostituzionale". 12 ottobre 2011 |