Alla Direzione nazionale del PDL Fini dichiara guerra a Berlusconi ma poi fa marcia indietro L'ambizioso presidente della Camera si propone come la vera alternativa al neoduce e futuro uomo di Stato Ammaliata dall'ex leader di An, la "sinistra" borghese lo esalta Dopo mesi di conflittualità strisciante il contrasto tra il neoduce Berlusconi e l'ex leader di AN Gianfranco Fini è sfociato in una guerra aperta. A far precipitare le cose tra i due è stato il risultato elettorale, con il rafforzamento della Lega e dell'asse privilegiato tra Berlusconi e Bossi, che si sono accordati per spartirsi Quirinale e Palazzo Chigi e per fare le "riforme" istituzionali centrate sul federalismo e sul presidenzialismo. Un accordo che escludeva completamente il cofondatore del PDL, già da tempo declassato da Berlusconi dal rango di suo "delfino" a quello di terzo incomodo da sopportare con fastidio se non con aperta ostilità. Per Fini la cena di Arcore in cui il neoduce e il caporione leghista hanno rinsaldato il loro patto di ferro e impresso una decisa accelerazione al tema delle "riforme" mettendole al centro dell'azione del governo per i prossimi tre anni, è suonata come un campanello d'allarme, l'ultima occasione per farsi avanti mettendo i piedi nel piatto, prima di essere definitivamente emarginato dal gioco. È per questo che ha deciso di uscire allo scoperto e di mettersi di traverso andando alla resa dei conti con Berlusconi. La tensione tra i due era salita alle stelle dopo il fallimento del "pranzo di chiarimento" alla presenza di Gianni Letta organizzato presso la Camera, durante il quale accusando il premier di aver reso il PDL succube della Lega e chiedendo di ridiscutere la linea su molti dei temi nell'agenda del governo, Fini aveva prospettato la creazione di un proprio gruppo parlamentare autonomo, forte di una cinquantina di deputati e una ventina di senatori. Il presidente della Camera aveva chiesto anche di azzerare le cariche nel partito e nei gruppi parlamentari, dal coordinatore La Russa al capogruppo al Senato Gasparri, nonché gli uomini di Alemanno e Matteoli: vale a dire i suoi ex "colonnelli" che gli hanno voltato le spalle preferendo accasarsi ben più comodamente con Berlusconi. Dopo quell'incontro burrascoso Fini aveva posto una sorta di aut-aut a Berlusconi, dicendogli di aspettare da lui una risposta alle sue istanze entro 48 ore, e lasciando che il suo braccio destro Italo Bocchino ventilasse come "possibile" la nascita del gruppo autonomo in caso di "risposte negative del premier". Quest'ultimo però rispondeva picche, riunendo l'ufficio di presidenza del partito e facendogli emettere un comunicato, conciliante nella forma ma duro nella sostanza, in cui si invitava Fini a "desistere" dall'idea di formare un gruppo autonomo. Avvertendolo inoltre, nella successiva conferenza stampa, che altrimenti la sua sarebbe stata considerata "una scissione", e che comunque non solo il governo "andrebbe avanti lo stesso", ma che lui avrebbe dovuto anche "lasciare l'incarico di presidente della Camera". Lapidariamente il neoduce liquidava la questione sottolineando che il documento era stato votato all'unanimità e condiviso da tutti gli ex appartenenti ad AN e che andava interpretato come "una risposta non richiesta alle osservazioni del presidente Fini, anche se non dovevamo dare risposte". Mentre intanto il suo tirapiedi alla presidenza del Senato, Schifani, faceva balenare la minaccia delle elezioni anticipate, se la maggioranza "si divide al proprio interno sull'attuazione del programma". Dal "gruppo autonomo" alla "minoranza interna" Dunque non solo il neoduce si mostrava sordo alle richieste di Fini ma irrideva con strafottenza il suo ultimatum, forte anche del consenso di tutti gli ex "colonnelli", ministri e capigruppo di AN, comprese le ex finiane Polverini e Meloni passate in men che non si dica dalla parte del capo. Nonché della perfetta intesa con Bossi, da lui definito non a caso "l'unico alleato che abbiamo". All'ex leader di AN, in attesa di raccogliere le sue scarse truppe e sparare tutte le sue cartucce nella Direzione nazionale convocata per il 22 aprile all'auditorium di via della Conciliazione a Roma, toccava perciò abbassare la cresta e ridimensionare le sue pretese, declassando quella del gruppo autonomo a ciò che il viceministro Urso arrivava a definire "una minoranza interna in un grande partito plurale". Ed è alla fine su questa ben meno ambiziosa posizione, cioè ufficialmente quella di poter "discutere" come minoranza la linea e le decisioni del partito finora dettate esclusivamente dal suo presidente, che Fini è andato a dare battaglia in Direzione a Berlusconi, dopo aver riunito i suoi fedelissimi e aver constatato di poter contare solo su una cinquantina tra deputati, senatori ed europarlamentari, per di più non tutti disponibili a seguirlo fino in fondo in caso di rottura irreversibile col PDL. Dati questi rapporti di forza Fini non poteva che uscire sonoramente sconfitto da una Direzione di ben 170 membri, allargata a 500 partecipanti tra ministri e parlamentari in stragrande maggioranza a lui ostili, e la cui sapiente regia era tutta nelle mani del neoduce che lo ha lasciato parlare solo dopo la sfilata dei ministri che hanno magnificato le "realizzazioni" del governo e dei tre coordinatori che hanno esaltato le "vittorie" della coalizione di maggioranza, non senza attaccarlo violentemente come ha fatto Bondi per conto del suo padrone. E difatti Fini è stato massacrato, in diretta televisiva, sia dalla sala, sia negli interventi e sia nel documento finale ("congegnato apposta per contare gli eretici", dirà successivamente il presidente della Camera), che ha registrato solo 11 voti contrari e un'astensione, quella dell'ex DC Pisanu. Un documento durissimo in cui si ribadisce "pieno sostegno e profonda gratitudine al presidente Berlusconi" e vengono definite "pretestuose" e "paradossali" le polemiche di Fini, tantopiù all'"indomani della vittoria elettorale", bacchettandolo con la sottolineatura che "le ambizioni dei singoli non possono prevalere sull'obiettivo di servire il popolo" (sic); e in cui infine si nega la possibilità di formare delle correnti (bollate come "delle metastasi" dal neoduce), ribadendo al contempo che una volta presa una decisione a maggioranza tutti si devono adeguare. Ma più di tutti Fini è stato massacrato dal neoduce, che livido per essere contestato pubblicamente su tutta una serie di temi, come la "democrazia" nel partito, il troppo spazio alla Lega, i diritti negati agli immigrati, la farsa del decreto salvaliste, le bastonature mediatiche ricevute dal quotidiano di famiglia "Il Giornale", e soprattutto il "processo breve", definito da Fini "un'amnistia mascherata", non ha nemmeno aspettato la replica finale per saltare sul podio e scagliarsi come una furia contro l'ex alleato, arrivando a urlargli di lasciare la carica di presidente della Camera se vuole avere il diritto di fare dichiarazioni politiche. Ciononostante l'ex leader di AN gli ha tenuto testa, arrivando a contestarlo fin sotto il podio col dito puntato e sfidandolo a cacciarlo dal partito. E alla fine della giornata dichiarerà ai giornalisti: "Finisce la stagione dell'unanimismo e comincia quella del confronto. Questa è democrazia. Non ho nessuna intenzione di dimettermi dalla presidenza della Camera, né di lasciare il partito". Tregua tattica e momentanea Furibondo il neoduce avrebbe voluto chiudere subito la partita sbattendolo fuori e costringerlo a dare le dimissioni dalla presidenza di Montecitorio, procedendo intanto subito a destituire i suoi uomini da tutte le cariche ricoperte nel partito e nel governo, nonché vietare loro di entrare nelle nuove giunte regionali. In questo senso si è espresso anche Bossi, incitando il premier a disfarsi subito di Fini, mettendo in conto di andare anche alle elezioni anticipate. Il caporione leghista teme infatti che le divisioni nel partito alleato portino a una paralisi o comunque ad un intralcio del programma di governo concordato con Berlusconi mettendo in pericolo l'attuazione del federalismo fiscale, che Fini pretende di ridiscutere. Ma qualcuno deve aver consigliato prudenza al premier, probabilmente per non mettere in difficoltà Napolitano, perché dopo aver minacciato sfracelli il neoduce sembra ora repentinamente calmato, ostenta una calma olimpica (nega addirittura di aver litigato con Fini!), parla di "riforme condivise" (come chiede anche Fini) e si atteggia di nuovo a "statista" tubando col capo dello Stato alla Scala di Milano. Ciò non gli impedisce, naturalmente, di ordinare ai suoi gerarchi di andare avanti e anzi accelerare in parlamento sulla legge contro le intercettazioni e la libertà di informazione, il nuovo lodo Alfano per salvarlo definitivamente dai processi e la controriforma della giustizia. Nonché di far fare ai suoi scagnozzi il lavoro sporco di attaccare e denigrare Fini e i suoi uomini. Del resto anche Fini ha smorzato i toni e cerca di non prestare il fianco agli attacchi, dichiarando fino alla nausea, come ha fatto intervistato da Lucia Annunziata sul programma In 1/2 ora, di Rai3, che da parte sua "non ci saranno imboscate" in parlamento, che riconosce la leadership di Berlusconi, che anche lui vuole il federalismo purché non vada contro l'unità nazionale e che è pronto a incontrare Bossi, che egli vuole solo che il PDL diventi una "destra moderna", che chi parla di elezioni anticipate è "un irresponsabile", e così via rassicurando. Ma è chiaro che questa tregua tra i due galli del pollaio della destra neofascista è solo momentanea e dettata da esigenze tattiche. Lo scontro consumato in Direzione è stato troppo traumatico per poter essere riassorbito. Soprattutto il neoduce non può sopportare di avere una spina nel fianco come Fini che lo logori nell'azione di governo e che metta continuamente in dubbio il suo "carisma" e la sua leadership mussoliniana sul nuovo partito fascista nato un anno fa sull'impulso del suo "discorso del predellino". Perciò la tentazione di sbatterlo fuori e pigliarsi tutto il piatto con le elezioni anticipate come gli consiglia Bossi è forte, e potrebbe prima o poi vincere ogni considerazione tattica sulla necessità di non rovinare il "clima di dialogo" invocato da Napolitano per mandare finalmente in porto la controriforma neofascista, federalista e presidenzialista della Costituzione. Un disegno politico di lungo respiro E Fini, dove vuole arrivare l'ex caporione fascista ora riciclatosi come aspirante leader di una "destra moderna" in contrapposizione a quella "populista e plebiscitaria" di Berlusconi? Rimarrà nel PDL fin che gli è possibile cercando di allargare la sua, al momento esigua, base parlamentare e politica? Oppure starà già lavorando per creare i presupposti per formare un nuovo partito, magari quel "grande centro" vagheggiato da Casini (che però è rimasto stranamente defilato in questa vicenda), Rutelli, Pisanu e magari con la partecipazione di Draghi e Montezemolo, come teme Bossi accusando costoro di voler "rifare la DC"? Certo è che colpisce la contemporanea uscita di Montezemolo dalla Fiat, quasi a rendersi disponibile sul mercato della politica. Potrebbe essere, in quest'ipotesi, un partito niente affatto da sottovalutare, capace di attrarre anche una parte cospicua della destra del PD, visto che questo partito fa sempre più acqua da tutte le parti ed è incapace di rappresentare la benché minima alternativa a Berlusconi. Non per nulla la "sinistra" borghese in generale è rimasta ammaliata dall'ex leader di AN e ha fatto il tifo per lui. Se si dovesse scegliere ora il nuovo presidente della Repubblica lo voterebbe ad occhi chiusi. Lo stesso Bersani è uscito allo scoperto offrendo a Fini un "patto repubblicano", una sorta di "CLN" di tutte le forze "contro le derive populiste e plebiscitarie per chi vuole riforme nel solco istituzionale". Sono note poi le dichiarazioni di D'Alema per offrire sponde all'ex leader fascista, mentre c'è chi parla di una telefonata di "solidarietà" da parte di Franceschini. Anche La Repubblica di De Benedetti e Scalfari tifa da tempo per Fini e non ne fa certo mistero. Costui per ora fa il sornione, e mentre spergiura "lealtà" al premier cerca di sfruttare fino in fondo il clamore mediatico che ha sollevato per rafforzare la sua immagine di unico vero "oppositore" di Berlusconi, partecipando in prima persona ad interviste e talk-show televisivi. A lui guardano certi ambienti della Magistratura, nella speranza di essere difesi nella loro autonomia dalla protervia normalizzatrice del neoduce e dei suoi tirapiedi. Potrebbe anche approfittare di un certo consenso tra l'elettorato del Meridione presentandosi come il solo capace di fare argine all'arroganza razzista e antimeridionalista di Bossi. Di certo egli non guarda solo a conseguire qualche vantaggio immediato, perché le sue ambizioni vanno ben al di là della conquista di uno spazio di minoranza nel PDL, sia pure legalizzato ma pur sempre all'ombra del neoduce. Egli si prepara piuttosto per quando costui dovesse lasciare la scena, o per un cambiamento di vento politico a livello nazionale o internazionale, o anche semplicemente per ragioni anagrafiche. L'ambizioso presidente della Camera ambisce insomma ad essere una sorta di Sarkozy italiano, un leader della destra conservatrice europea che dia però una maggiore affidabilità "democratica" e istituzionale rispetto al nuovo Mussolini. O quantomeno a rappresentare per il futuro un suo contrappeso nel ruolo di "uomo delle istituzioni" e "garante" di tutte le forze politiche, come quello attribuito per adesso a Napolitano. 28 aprile 2010 |