Bicentenario della nascita dell'Eroe dei Due Mondi Garibaldi, grande patriota e grande internazionalista Cade quest'anno il Bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi e noi riproponiamo qui di seguito l'articolo che, apparso su "Il Bolscevico" n. 23 del 1982 in occasione del Centenario della morte, illustra il punto di vista del proletariato e dei marxisti-leninisti sull'Eroe dei Due Mondi, quantunque contenga riferimenti datati a quegli anni che vedevano l'affermazione del neoduce Craxi sulla scena politica e governativa italiana. Ancora oggi, a due secoli di distanza, Garibaldi continua a dividere i progressisti dai reazionari al punto da suscitare l'indegna e vergognosa gazzarra dei fascioleghisti bossiani della Lega Nord (che hanno polemicamente abbandonato l'aula) unitamente ai separatisti siciliani del Mpa del clerico-fascista Raffaele Lombardo e persino a Marcello Dell'Utri di Forza Italia, in odore di mafia, (che lo ha definito "un pirata") durante le celebrazioni svoltesi il 4 luglio scorso in Senato. Eppure si trattava di celebrazioni addomesticate e di regime, preoccupate per lo più di ridimensionare questa figura leggendaria riducendola a un'icona inoffensiva e di maniera. E alla campagna contro Garibaldi hanno partecipato in prima linea anche i mass media del regime neofascista, distinguendosi tra gli altri Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera", Andrea Rognoni sul quotidiano leghista "La Padania" e quella trasmissione "Otto e mezzo" su "La7" condotta da Pietrangelo Buttafuoco - giornalista che ha scritto per i fogliacci come il "Secolo d'Italia", "l'Indipendente", "Il Giornale" nonché storica firma del "Foglio" diretto dal rinnegato e agente della Cia confesso Giuliano Ferrara - che ha mandato in sollucchero i camerati del "Secolo d'Italia" al punto da informare entusiasticamente i suoi lettori che finalmente quella condotta da Buttafuoco poteva definirsi una trasmissione targata ufficialmente AN. Cento anni fa, il 2 giugno 1882, dopo una vita eroicamente spesa al servizio della causa dell'indipendenza nazionale e dell'internazionalismo, nella sua Caprera si spegneva Giuseppe Garibaldi, la figura più fulgida del nostro Risorgimento, il patriota conseguente, il combattente senza il quale la nascita dello Stato italiano non avrebbe dato luogo in quei tempi all'unificazione dell'intera nazione. Quantunque piegato e tormentato dall'artrite deformante contratta nelle mille battaglie combattute in nome della libertà, appena qualche mese prima aveva ostinatamente deciso di presenziare a Palermo alle celebrazioni del sesto centenario dei Vespri siciliani che per la prima volta si tenevano dacché il popolo siciliano con le armi in pugno dette lezione all'intera Europa, allora soffocata dall'assolutismo feudale, di come si può combattere e vincere l'invasore e l'oppressore e conquistare libertà municipali e rudimenti di un governo costituzionale altrove e altrimenti sconosciuti. In tal modo Garibaldi aveva significativamente voluto suggellare la continuità tra quella rivolta e l'eroica impresa dei Mille che avevano visto il popolo siciliano protagonista di meravigliose avventure capaci di segnare gli eventi storici successivi. E, senza saperlo, aveva affidato al mondo un testamento politico non di parole ma di azioni, di quelle sue gesta che suscitano tanta ammirazione nel popolo italiano perché egli fu l'unico a credere nel Risorgimento come a un grande moto di popolo, nell'unificazione del Paese come a una guerra di liberazione condotta anzitutto dalle masse popolari che languivano sotto il tallone di ferro della dominazione straniera e delle tirannie degli Stati che smembravano la penisola. Fu appunto questa sua concezione del Risorgimento come movimento di massa che incarnasse il ventaglio di alleanze tra la borghesia nazionale rivoluzionaria, la piccola borghesia democratica e le masse popolari con al centro il movimento contadino, a porlo in perenne conflitto con i settori liberalmoderati capeggiati da Cavour ma anche con quelli nazional-rivoluzionari di Mazzini. Dal primo lo divideva tutto, l'idea stessa di unità d'Italia: Cavour coltivava, neppure tanto in segreto, la speranza di un'unità d'Italia mutilata, quale estensione dello Stato piemontese alla sola Italia settentrionale perché considerava il Meridione una palla al piede; frutto di un'astuta, paziente, prudente fino alla codardia, interminabile operazione diplomatica benedetta e incoraggiata dal monarca francese Napoleone III che amava pavoneggiarsi a liberatore d'Italia ma che in realtà ambiva a soffocarla sotto il suo protettorato, a considerarla una merce di scambio per ingiustificate annessioni di regioni come Savoia e Nizza, quest'ultima decisamente italiana, e a favorirne l'unificazione di quel tanto che bastava a contrapporla all'Austria e alla Germania così da stornare la loro pressione militare dai confini con la Francia verso il fianco meridionale. Da Mazzini, animato come lui dall'aspirazione a una repubblica democratica italiana, lo dividevano molte cose e anzitutto l'aristocratica e dottrinaria concezione mazziniana del Risorgimento fondata sul protagonismo di pochi individui e non del popolo - non a caso lo aveva chiamato: "Uomo di grandi teorie, non di pratica. Parla sempre di popolo, e non lo conosce" - che vedeva la guerra di liberazione nazionale come una successione di complotti e di moti che coinvolgevano ristretti gruppi di patrioti. Ipotecato, mutilato, condizionato dall'ala liberal-moderata, il Risorgimento nazionale è segnato dalla debolezza, dalla viltà, dal tradimento della borghesia italiana. Una classe che rinuncia alla lotta conseguente contro l'oppressore austriaco nel timore di suscitare un eccessivo e incontrollabile moto rivoluzionario lungo la penisola. Essa teme di stringere l'alleanza con le masse contadine perché sa che esse le imporrebbero la rivoluzione borghese radicale per la rottura dell'antico sistema di sfruttamento feudale nelle campagne e l'affrancamento dell'economia rurale dai ceppi che soffocano lo sviluppo delle forze produttive. E invece imporrà una trasformazione impercettibile e graduale attraverso forme combinate feudali, semifeudali, capitalistiche dei rapporti di produzione che giustifica l'alleanza con i proprietari fondiari non certo con i contadini. "Il popolo italiano - scriveva Marx a proposito degli insuccessi incontrati dalla lotta di liberazione in Italia - non ha indietreggiato dinnanzi a nessun sacrificio. A prezzo del suo sangue e dei suoi averi esso era pronto a condurre a termine l'opera iniziata e a conquistare con la lotta la sua indipendenza nazionale. Ma al suo coraggio, al suo entusiasmo, al suo spirito di sacrificio, in nessun luogo hanno risposto coloro che detenevano il potere. Apertamente o segretamente, essi hanno fatto di tutto, non per mettere in opera i mezzi ad essi affidati per la liberazione dalla brutale tirannia austriaca, ma per paralizzare la forza popolare e per ripristinare in sostanza, il più presto possibile, l'antico ordine". Ecco dove sta la debolezza del Risorgimento italiano. Quella tragica frattura tra il disegno politico e il presupposto economico dell'unità impedirà la partecipazione ininterrotta generale e decisiva delle grandi masse popolari. Per poter contare su un autentico sostegno popolare il Risorgimento doveva essere liberazione del Paese e nel contempo compimento della rivoluzione borghese attraverso la piena trasformazione degli antichi rapporti di produzione in rapporti di produzione capitalistici nelle città come nelle campagne, al nord come al sud. Invece non fu così, fu soprattutto, nella sua ideazione come nell'elaborazione e nella direzione, prerogativa esclusiva del vertice piemontese della nobiltà e della borghesia liberal-moderata. Il solo a distaccarsene, più nell'azione che nel pensiero, fu Giuseppe Garibaldi. Tanto Cavour quanto Mazzini temevano le masse popolari, temevano il loro protagonismo, osteggiavano la loro partecipazione, agivano sulle loro teste eppure pretendevano di rappresentarle, dirigerle, governarle. Gli anni successivi avrebbero dimostrato quale profonda frattura si era aperta tra il governo centrale e le masse popolari in conseguenza di questo modo di agire prima dell'Unità e della feroce politica antipopolare seguita dal nuovo Stato all'indomani. Non è un caso se le truculente guerre del brigantaggio, condotte per ridurre alla ragione i recalcitranti nuovi sudditi, e un sistema di esose tassazioni ai danni degli strati più poveri del popolo avrebbero mostrato ai più il volto reazionario del nuovo Stato italiano non dissimile da quelli vecchi. L'arretrato compromesso tra la borghesia moderata settentrionale e i grandi proprietari terrieri del meridione lasciò intatta la situazione presistente e permise ai grandi latifondisti del centro-sud, ai baroni feudali della Sicilia e delle isole di conservare intatti le loro posizioni di potere e i loro privilegi nel nuovo stato unificato. Per di più la mancanza di un partito proletario - del resto prematuro se si pensa all'arretratezza dell'industrializzazione e all'accentuato frastagliamento statale - rese impossibile l'egemonia del proletariato come avvenne in altre rivoluzioni borghesi del Novecento, si pensi alla Russia e alla Cina. Pur non avendo la lucida consapevolezza della correlazione tra questione economico-sociale e questione politica, Garibaldi, legato alle aspirazioni e ai sentimenti popolari, si batté per la mobilitazione e la partecipazione delle masse, le antepose sempre all'azione diplomatica e militare dello Stato piemontese anche quando fu costretto al compromesso o a interrompere il suo disegno che vedeva l'unificazione dell'Italia sotto la spinta di una generalizzata sollevazione popolare dalla Sicilia a Venezia e grazie all'irresistibile strumento della guerra popolare. Avendo fiducia nel popolo e contando sulla guerra popolare conseguì risultati politici altrimenti irraggiungibili e smentì clamorosamente i falsi amici della causa nazionale. La "meravigliosa marcia di Garibaldi da Marsala a Palermo" è "una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo", dimostrò che "un'audace offensiva è il solo sistema di tattica che una rivoluzione si può permettere" (Engels); e insieme alle sue imprese successive per la liberazione dell'intera penisola dimostra la superiorità della guerra popolare nella lotta di liberazione nazionale. A chi oggi prova orrore davanti a ogni tipo di violenza, la storia del nostro Risorgimento sta lì a ricordargli che nessun passo in avanti nella direzione dell'unificazione del Paese sarebbe stato possibile senza l'uso della violenza rivoluzionaria. Senza la violenza rivoluzionaria i conflitti antagonistici tra oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati non potrebbero schiudere l'epoca nuova e garantire il sopravvento della causa giusta sulla reazione. Sullo sviluppo degli avvenimenti pesò l'assenza, dovuta al ritardato e insufficiente sviluppo del capitalismo, di un proletariato omogeneo, organizzato come movimento politico indipendente e forte di rivendicazioni economiche, sociali, politiche sue proprie, cosicché il Risorgimento si risolse in un movimento di carattere esclusivamente borghese. Si pensi che già in Francia il '48 aveva invece visto il socialismo come forza politica organizzata delle masse lavoratrici. Ma su di esso assai di più pesò il rapporto di forza tra le diverse componenti della borghesia nazionale, i grandi latifondisti e la piccola e media borghesia, un rapporto sfavorevole alle forze più avanzate e progressiste e sbilanciato dalla parte della conservazione. La piccola e media borghesia e le componenti più radicali della borghesia nazionale erano fragili e minate da profonde contraddizioni mentre in Cavour e nella corona i liberal-moderati, i capitalisti agrari, mercantili e industriali e i proprietari terrieri, trovarono la garanzia dell'unità e del sopravvento. Garibaldi ebbe a soffrire di un tale rapporto di forze, i suoi compromessi, le sue indecisioni, le sue scelte contraddittorie, le sue sconfitte sono lo specchio della situazione politica arretrata e del compromesso raggiunto dalle nuove classi dominanti. Più in là non poteva andare e quando vi si spinse andò incontro al fallimento. Garibaldi fu grande patriota e rivoluzionario borghese ma anche un internazionalista che impugnò la spada per la causa della libertà e dell'indipendenza degli altri popoli. Entusiastico il suo appoggio alla Comune di Parigi e con altrettanto entusiasmo parlò del socialismo come "sole dell'avvenire". Condannato alla pena di morte per aver partecipato a un complotto rivoluzionario antiaustriaco, non rinunciò per un attimo ai suoi ideali, si sottrasse al carcere cui lo aveva condannato quello stesso Stato piemontese che in seguito avrebbe tratto tanti vantaggi dai suoi servigi ed emigrò nelle Americhe, dove per quasi un quindicennio combatté con la convinta idea di favorire l'indipendenza delle repubbliche sudamericane. Da allora fu soprannominato l'eroe dei due mondi. In seguito, ritornato in Italia, non sarebbe mai più venuto meno il suo entusiastico sostegno alle lotte per l'indipendenza nazionale dei popoli europei e degli altri continenti e si disse sempre pronto a combattervi di persona. Ciò contribuì ad amplificare la fama delle sue gesta nel mondo intero, lo rese celebre, certamente la figura più nota e invidiata del nostro Risorgimento, a ragione il più amato in patria e all'estero. Il rispetto e l'amore che lo circondano poggiano non sulla sabbia delle vuote parole ma sul granito di una vita coerentemente dedicata a questi nobili ideali. Nel passato hanno sempre fallito sia coloro che l'hanno voluto cingere con l'aureola della santità per nasconderlo e renderlo inoffensivo sia coloro che se ne appropriarono indebitamente e sfrontatamente per stravolgere il contributo che seppe dare al nostro Risorgimento. A quest'ultima sorta di briganti appartiene Craxi. Costui ha dato vita a una nauseante campagna propagandistica per appropriarsene e mettere in bocca a Garibaldi ciò che questi non si è mai sognato di sostenere magari scoprendolo come il precursore del progetto socialfascista della seconda repubblica e del craxiano "socialismo tricolore". È un'impresa disperata: tra Garibaldi e Craxi c'è un abisso, tanto sincero patriota, politico appassionato moralmente retto, votato alla causa del progresso, il primo, quanto politicamente despota e prevaricatore, spregiudicato intrigante della causa della reazione, il secondo. C'è l'abisso tra la rivoluzione e il fascismo; aveva provato a colmarlo, fallendo, Mussolini, figurarsi se riuscirà oggi Craxi. Se proprio l'aspirante duce d'Italia insiste nella ricerca di un illustre maestro tra i personaggi del nostro Risorgimento allora si ispiri a Crispi non a Garibaldi. E l'identificazione sarà coerente, l'analogia, calzante. Il fatto è che oltre un secolo ci separa dai tempi dell'unificazione nazionale. "L'Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l'Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l'Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente - denuncia Lenin sin dalla vigilia della Prima guerra mondiale - davanti ai nostri occhi nell'Italia che opprime altri popoli e depreda la Turchia e l'Austria, l'Italia di una borghesia brutale e sudicia, reazionaria in modo rivoltante, che all'idea di essere ammessa alla spartizione del bottino, si sente venire l'acquolina in bocca". I decenni trascorsi dacché Lenin pronunciò questa spietata radiografia della borghesia italiana ben sappiamo che le sono stati fatali. Ed è appunto di questa borghesia incarognita da settant'anni ancora di ininterrotto conflitto con la classe proletaria e la grande maggioranza del popolo, che Craxi è il rappresentante, è il leader che pare garantirle gli sbocchi autoritari e fascisti di cui ha bisogno per dare stabilità a un regime che sopravvive a se stesso. Giuseppe Garibaldi rimane la bandiera dell'unità nazionale, appartiene al popolo italiano e alle forze del progresso. 11 luglio 2007 |