Genocidio in Libia. Gheddafi bombarda i rivoltosi La rivolta popolare è arrivata nella capitale, a fuoco il palazzo del governo e il parlamento Berlusconi non scarica del tutto il suo amico "Non lascerò questa terra", annunciava Gheddafi in un intervento televisivo del 22 febbraio rispondendo alle richieste della rivolta popolare che chiede la fine dei suoi 40 anni di governo. Il dittatore si è rivolto ai giovani promettendo da domani una riforma dello Stato, con la libertà stampa, una nuova costituzione e un nuovo sistema giuridico. Ha attaccato i manifestanti definendoli "ratti e mercenari" e dichiarato che in base alle leggi meritano la pena di morte. Una misura già messa in pratica, sarebbero circa mille le vittime della repressione del regime, dagli aerei, gli elicotteri e i mercenari scatenati contro le manifestazioni popolari nella capitale Tripoli e soprattutto nelle città della Cirenaica oramai fuori dal controllo governativo. A Bengasi, dove secondo testimonianze raccolte dalla stampa la popolazione si sta organizzando in comitati civici per l'autogoverno della città dove non ci sono più soldati, né poliziotti né rappresentanti governativi. Tutte le regioni orientali ora sono fuori dal controllo di Gheddafi, hanno confermato alcuni responsabili dell'esercito, o meglio ex responsabili che solidarizzando con la popolazione in rivolta si sono dimessi e hanno disertato, come alcuni piloti che hanno portato i loro aerei a Malta rifiutandosi di bombardare i manifestanti. Una parte dell'esercito ha abbandonato Gheddafi, rappresentata da un gruppo di ufficiali che pubblicava una dichiarazione in cui esortavano i soldati a "unirsi al popolo" per abbattere il regime; come pure una parte del corpo diplomatico a partire dall'ambasciatore libico negli Stati Uniti, Ali Aujali, che ha affermato di non voler più rappresentare il "regime dittatoriale" di Gheddafi; seguito dal rappresentante libico presso la Lega Araba che ha rassegnato le sue dimissioni affermando di essersi "unito alla rivoluzione". E come il vice ambasciatore alle Nazioni Unite, Ibrahim Dabbashi, che ha accusato Gheddafi di essere colpevole "di crimini contro l'umanità", di "genocidio". La protesta contro il regime di Gheddafi è partita dalla città di Bengasi, teatro di scontri tra dimostranti e polizia il 16 febbraio. Una folla di manifestanti si era radunata davanti il commissariato dove era stato portato in stato di arresto un avvocato portavoce dell'associazione dei familiari dei 1.200 detenuti che il 29 giugno del 1996 furono massacrati nel carcere di Abu Salim di Tripoli. I manifestanti hanno ottenuto il rilascio dell'avvocato ma sono rimasti in piazza a protestare contro il regime. La polizia è intervenuta e sono iniziati gli scontri con un bilancio di 38 feriti e 20 dimostranti arrestati. Un anticipo di quanto sarebbe avvenuto il 17 febbraio, giornata di una manifestazione di protesta contro il regime organizzata sulla scia di quelle che hanno portato alla caduta dei dittatori presidenti in Tunisia e Egitto. La polizia interveniva con le armi contro le migliaia di dimostranti che protestavano in una decina di città e si contavano una cinquantina di vittime. Ma la protesta prendeva vigore e si sviluppava in tutto il paese. Nella città di Beida interveniva un battaglione delle forze speciali del figlio del colonnello Gheddafi, Hamis, che comprendeva "mercenari africani". La brutalità della repressione spingeva polizia e esercito a schierarsi coi manifestanti e a cacciare i sicari fuori della città. Una scena che si ripeterà in altre città della Cirenaica, insorte contro Gheddafi. La rivolta popolare arrivava nella superblindata capitale tanto che il 21 febbraio i manifestanti assaltavano e davano alle fiamme la sede del governo e del parlamento a Tripoli. Assaltati anche la sede di una radio pubblica e incendiate alcune stazioni di polizia e sedi dei comitati rivoluzionari, il pilastro del regime. Il numero delle vittime tra i dimostranti cresceva rapidamente con l'intervento degli aerei e degli elicotteri contro la folla, oltre un migliaio i feriti. A fronte del genocidio perpetrato da Gheddafi e che sollevava una larga protesta fino all'Onu, il cui Consiglio di sicurezza si riuniva d'urgenza, spiccavano i tentennamenti del governo italiano. Berlusconi, il 19 febbraio, si diceva preoccupato ma non voleva disturbare l'amico Gheddafi: "la situazione è in evoluzione e quindi non mi permetto di disturbare nessuno". Due giorni dopo sarà costretto a dichiararsi "allarmato per l'aggravarsi degli scontri e per l'uso inaccettabile della violenza sulla popolazione civile" e a sostenere che occorre favorire "una soluzione pacifica che tuteli la sicurezza dei cittadini così come l'integrità e stabilità del paese e dell'intera regione". E salvi il collo al suo amico. 23 febbraio 2011 |