Grasso: Una "entità esterna" alla mafia dietro l'omicidio Falcone Il procuratore antimafia: Cosa nostra voleva sparare al giudice a Roma, perché poi cambiò i suoi progetti? Dietro la strage di Capaci "resta il sospetto che ci sia stata qualche entità esterna che abbia ideato, agevolato oppure dato un appoggio a Cosa nostra". A ribadirlo è stato il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso di fronte alla commissione Antimafia che lo ha ascoltato a Palazzo San Macuto il 27 ottobre. "Non c'è dubbio che la strage che colpì Falcone e la sua scorta siano state commesse da Cosa Nostra. Rimane però l'intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell'ideazione, nell'istigazione, o comunque possa aver dato un appoggi all'attività della mafia" ha detto Grasso. Non solo. Il procuratore nazionale Antimafia, dopo aver citato alcuni passaggi chiave che hanno caratterizzato le indagini e le sentenze sulla vicenda, si pone e gira ai commissari un quesito inquietante: perché si passò dall'ipotesi di colpire Falcone mentre passeggiava per le strade di Roma all'attentato con 500 chilogrammi di esplosivo, collocato a Capaci? Una scelta, quella dell'attentato, che ha una modalità "chiaramente stragista ed eversiva. Chi ha indicato a Riina queste modalità con cui si uccide Falcone? Finché non si risponderà a questa domanda sarà difficile cominciare ad entrare nell'ordine di effettivo accertamento della verità che è dietro a questi fatti". In precedenza, Grasso aveva ricordato che inizialmente Falcone era in un elenco di obiettivi da colpire a Roma, elenco che comprendeva, oltre al magistrato, il ministro Martelli, il giornalista Barbato e Maurizio Costanzo. Un progetto avviato, tanto da mandare nella Capitale un mafioso, Vincenzo Sinacori, col compito di individuare i luoghi più frequentati dal magistrato. Ma ad un certo momento, nel marzo 1992, Sinacori rientra a Palermo per riferire sui pedinamenti e in quella sede Riina gli dice che non c'è più bisogno di colpire Falcone a Roma, perché "abbiamo trovato qualcosa di meglio". Su questo punto le indagini hanno accertato come, pochi mesi prima della strage di Capaci, "Cosa nostra" venne contattata da un estremista di destra usato dai servizi segreti, Paolo Bellini, grazie a rapporti di quest'ultimo con il boss Antonino Gioè (suicida in carcere due giorni dopo gli attentati di Roma e Milano). Bellini, che trafficava in opere d'arte, chiese aiuto alla mafia per recuperare alcune opere rubate. Un intervento che "Cosa nostra" accettò di fornire, ma per il quale chiese a Bellini di farsi intermediario con lo Stato per far ottenere gli arresti domiciliari ad alcuni vecchi boss in carcere. È stato lo stesso Giovanni Brusca a raccontare che fu proprio Totò Riina a ordinargli di interrompere la trattativa con lo Stato perché, spiegò, nel frattempo si era aperto un altro canale per la richiesta degli arresti domiciliari per i boss settantenni che non a caso figura tra i punti principali del papello al centro della trattativa tra Stato e mafia e di cui parla Ciancimino junior. 18 novembre 2009 |