Guerra delle monete: dollaro e yen contro l'euro "Fabbricano inflazione" per favorire le esportazioni Il nuovo premier giapponese Shinzo Abe ha presentato il 10 gennaio scorso il piano di rilancio dell'economia nipponica con un intervento pari a 117 miliardi di dollari, che comprende anche un massiccio intervento finanziario con l'obiettivo di far scendere il valore della moneta nazionale, lo yen, ai minimi sull'euro, sul dollaro e sullo yuan cinese. Il compito sarà realizzato dalla Banca centrale di Tokyo che ha già iniziato a stampare moneta e vendere yen. Come per le altre merci, l'abbondanza di yen sui mercati finanziari ne decreta una caduta di valore e la valuta nipponica ha iniziato a deprezzarsi rispetto le altre. La manovra è stata accompagnata anche da massicci acquisti di euro che si è ancor più rivalutato sullo yen; la moneta nipponica ha raggiunto in pochi giorni i più bassi livelli di cambio degli ultimi due anni rispetto a dollaro e euro. Un intervento che non ha scosso più di tanto Pechino, forte del suo enorme deposito di riserve valutarie, e Washington impegnata nella stessa operazione e che ha sollevato preoccupazioni soprattutto a Bruxelles ma non solo; anche il ministro delle Finanze sudcoreano Bahk Jae Wan ha avvertito che potranno essere varate misure specifiche per indebolire la moneta nazionale, il won, rivalutatasi su yen e dollaro. Una operazione che la Banca centrale europea (Bce) per statuto non può fare. Il compito assegnato dal governo di Tokyo alla propria Banca centrale è quello di "generare inflazione al 2%", sospingendo al rialzo i prezzi che da anni sono in discesa fino a che insieme all'inflazione non sarà ripartita la crescita economica. Perché uno yen debole facilita le esportazioni, rende più conveniente la vendita delle merci giapponesi sui mercati mondiali rispetto a quelle dei concorrenti imperialisti con monete più forti. "Fabbricare inflazione" diventa la missione della banca centrale giapponese, finora impegnata come le altre a contenere l'inflazione e garantire in questo modo la stabilità dei prezzi. Un cambio di missione che rivela l'ampiezza di quella che è conosciuta come la guerra delle monete, una guerra condotta finora dietro le quinte da parte delle maggiori potenze economiche imperialiste mondiali che utilizzano anche lo strumento della svalutazione pilotata delle proprie monete per poter colpire l'economia degli avversari, uscire prima degli altri dalla crisi economica e occupare maggior spazio sui mercati mondiali. Una guerra che vede in particolare l'attacco di Usa e Giappone, decisi a indebolire il proprio tasso di cambio per dare una spinta alle esportazioni e alla crescita economica; l'attacco di dollaro e yen a un euro già sopravvalutato con possibili danni pesanti per l'economia europea. A quella già disastrata dei paesi più deboli come Islanda, Portogallo e Grecia, o piegati sotto il peso di enormi deficit di bilancio come l'Italia e la Spagna ma anche a quelli che finora hanno goduto a scapito dei partner come la Germania che basa oltre il 50% della sua crescita sulle esportazioni. Così gli Usa hanno già potuto registrare dati economici positivi mentre la Germania comincia a sentire il peso di un euro sopravvalutato. E non a caso la manovra di Tokyo è stata pesantemente attaccata dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, e dalla cancelliera Merkel. Di guerra delle valute aveva parlato nel settembre 2010 il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega in riferimento alle politiche della banca centrale americana, la Federal Reserve, che dalla primavera del 2009, dopo il fallimento della Lehman Brothers e la crisi finanziaria innescata dai derivati, stampava moneta e annunciava inoltre l'acquisto di bond agganciati al mercato immobiliare per 40 miliardi di dollari al mese finché la "crescita non sarà migliorata a sufficienza". Una manovra che faceva deprezzare il dollaro (allentamento della pressione monetaria la chiamavano alla Casa Bianca) ripetuta da allora per altre tre volte tramite l'immissione di pacchi di dollari sui mercati finanziari. Anche il Brasile era allora intervenuto per indebolire la propria moneta, il real, che balzato ai valori massimi nella primavera del 2011 tornava ai valori nominali del 2007 con buona pace del governo della presidente Rousseff che sul deprezzamento del real basava il mantenimento della crescita economica della emergente potenza brasiliana. La crisi finanziaria esplosa tra il 2007 e il 2009 è stata in parte tamponata con l'emissione a volontà di moneta negli Usa, in Giappone, Gran Bretagna e Svizzera. Con la stessa arma hanno scoraggiato le possibili speculazioni finanziarie sui loro titoli di Stato, pur in presenza di voragini nei bilanci pubblici, in particolare di quelli di Washington e Londra. Lo statuto della Bce e la politica finanziaria dell'imperialismo europeo prevedono al contrario un rigido controllo dell'inflazione; le manovre finanziarie della Ue sono state basate solo sui tagli di bilancio, sul dogma del pareggio di bilancio inserito nelle Costituzioni e i paesi dell'area euro hanno sofferto della crisi economica e finanziaria e degli attacchi speculativi sui titoli di Stato. Attacchi che sono finiti dopo la promessa della Bce dello scorso settembre di immettere tutta la liquidità necessaria sui mercati per difendere l'euro. La Federal Reserve, d'intesa con l'amministrazione Obama, manterrà i suoi interventi finché la ripresa economica non ridurrà il tasso di disoccupazione fino al 6,5% da quello attuale al 7,8%. E uno dei consiglieri economici di Obama ha suggerito all'amministrazione di annunciare esplicitamente la politica del "dollaro debole". Una ratifica ufficiale della guerra delle monete che finora la diplomazia delle banche centrali e dei ministri del Tesoro teneva sotto silenzio; il meccanismo prevedeva la manipolazione del cambio senza dirlo, delle manovre sulle svalutazioni competitive negandole formalmente. Una guerra che vede nel ruolo di agguerriti attaccanti gli Stati Uniti e il Giappone. Alla Bce di Mario Draghi non resta che l'appello al rispetto degli impegni presi nei vertici finanziari internazionali per evitare le svalutazioni competitive. 30 gennaio 2013 |