Indagati Mannino, Conso e Dell'Utri per la trattativa Stato-mafia Mancino accusato di falsa testimonianza Il Quirinale interviene pesantemente nelle indagini per proteggere i boss politici collusi con la mafia Il 14 giugno la procura di Palermo ha notificato a 12 indagati l'avviso di chiusura dell'indagine sulla inquietante trattativa Stato-mafia avvenuta a cavallo fra il 1992 e il 1993. L'atto, che normalmente precede la richiesta di rinviato a giudizio, ha come destinatari l'ex ministro Calogero Mannino, il senatore del PDL Marcello Dell'Utri (la cui condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa è stata recentemente annullata dalla Cassazione), gli ufficiali del Ros dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, e i capimafia Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Bernardo Provenzano e Nino Cinà. Tutti sono accusati, in base all'art. 338 del codice penale, di violenza o minaccia a corpi politici dello Stato, aggravata dall'art. 7 per avere avvantaggiato l'associazione mafiosa armata Cosa nostra e "consistita nel prospettare l'organizzazione e l'esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l'attività". In particolare Dell'Utri è ritenuto "l'uomo cerniera" tra Stato e mafia tant'è vero che, sostengono gli inquirenti, dopo l'omicidio di Salvo Lima diventa interlocutore dei vertici di Cosa nostra "per le questioni connesse all'ottenimento dei benefici", agevola la prosecuzione della trattativa dopo l'arresto di Vito Ciancimino e Totò Riina e "dopo l'insediamento di Berlusconi a capo del governo" favorisce la ricezione della minaccia mafiosa ad Arcore tramite lo "stalliere" Vittorio Mangano. Il ruolo degli ex ministri Mancino e Conso L'imminente richiesta di rinvio a giudizio riguarda anche Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno, ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Csm, accusato di falsa testimonianza. I Pubblici ministeri (Pm) ritengono che Mancino insediatosi al Viminale il primo luglio 1992 sapesse della trattativa tra Stato e mafia e che ora neghi l'evidenza per coprire "responsabilità proprie e di altri". Mancino, che tra l'altro ha anche negato di avere incontrato il giudice Paolo Borsellino il giorno del suo insediamento al Viminale, il 24 febbraio scorso ha però ammesso che Claudio Martelli ex delfino di Craxi e Guardasigilli dell'epoca, gli avrebbe accennato di "attività non autorizzate del Ros" e che lui gli avrebbe risposto di parlarne alla procura di Palermo. Indagato anche Massimo Ciancimino, figlio di don Vito ex sindaco di Palermo, che invece deve rispondere di concorso esterno alla mafia e calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro. In un'indagine parallela, risulta inoltre indagato per false dichiarazioni al Pm, l'ex Guardasigilli Giovanni Conso, in carica dal febbraio del 1993 ad aprile del 1994. L'accusa ipotizzata (articolo 371 bis) prevede la sospensione del procedimento fino alla definizione, con sentenza di primo grado o con archiviazione, dell'inchiesta principale. In particolare Conso deve chiarire perché nel 1993 non rinnovò oltre trecento provvedimenti di 41 bis, il carcere duro per detenuti mafiosi. "Ho preso quella decisione in totale autonomia per fermare la minaccia di altre stragi e non ci fu nessuna trattativa" ha detto l'ex Guardasigilli davanti alla commissione parlamentare antimafia l'11 novembre del 2010. Per gli inquirenti palermitani invece proprio la mancata proroga del 41 bis costituisce uno degli oggetti principali della trattativa tra Stato e mafia. L'intervento del Quirinale Ma la cosa più inquietante è che tra i 120 faldoni dell'inchiesta palermitana c'è anche una lettera della Presidenza della Repubblica, indirizzata nei primi mesi di quest'anno al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, nella quale si chiedono chiarimenti sulla configurabilità penale della condotta degli esponenti politici coinvolti nell'indagine. L'intervento del Quirinale nell'inchiesta è stato sollecitato a suon di minacce da Mancino che, all'indomani del suo interrogatorio del 6 dicembre 2011, è molto preoccupato per l'aggravarsi della sua posizione giudiziaria. Ad inguaiare il boss dell'ex DC sono le varie discrepanze emerse durante i confronti con altri esponenti politici, a cominciare dagli ex ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, che come lui erano in carica nel periodo 1992/93, durante il governo guidato da Giuliano Amato. Mancino, Scotti e Martelli sono stati sentiti a più riprese dagli inquirenti palermitani ma i loro racconti sono risultati assolutamente inconciliabili. La discrepanza più evidente è emersa in merito ai motivi inerenti l'avvicendamento tra Scotti e lo stesso Mancino alla guida del ministero dell'Interno il 28 giugno del 1992. "Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette, dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti: quindi qualcuno mente. Ora è compito della procura e del tribunale capire come sono andate veramente le cose" aveva detto perentorio il sostituto procuratore Nino Matteo subito dopo l'audizione di Mancino davanti la quarta sezione penale di Palermo durante il processo contro gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. Tre giorni dopo l'interrogatorio, il 9 dicembre, Mancino non sapendo di essere intercettato dai magistrati coordinati da Antonio Ingroia telefona al magistrato Loris D'Ambrosio, "uno dei più stimati consiglieri" del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, invocando protezione perché: "Un uomo solo va protetto" ammonisce Mancino, il quale chiude la conversazione in perfetto stile mafioso avvertendo che: "se questo uomo solo" rimane tale "potrebbe chiamare in causa altre persone". In particolare, aggiunge Mancino: "Cerchiamo di evitare il coinvolgimento di Scalfaro". Anche perché, secondo i magistrati palermitani, l'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro fu in qualche modo "influenzato" dall'allora capo della polizia Vincenzo Parisi, che secondo gli inquirenti fu uno dei registi della trattativa con Cosa nostra. Il 4 aprile il Quirinale interviene a "gamba tesa" nell'inchiesta sollecitando informazioni e chiarimenti al Procuratore generale Vitaliano Esposito (ormai prossimo alla pensione) con la scusa di raggiungere una visione giuridicamente univoca tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, tutte parallelamente impegnate nelle indagini sulle stragi di Capaci e Via D'Amelio, le bombe del '92/'93 e la trattativa Stao-mafia ma con differenti chiavi di lettura. Mancino su consiglio del Quirinale continua il pressing sul Pg Esposito che si mette a "sua totale disposizione" tant'è che il 15 marzo l'ex ministro chiama l'alto magistrato e si congratula con lui per essere riuscito ad avere gli atti sulle indagini di Via D'Amelio da parte del Gip Alessandra Giunta. Non solo. Il 19 aprile anche il nuovo procuratore generale di cassazione Gianfranco Ciani sempre su richiesta di Mancino e con la regia del Quirinale si mette "a disposizione" e convoca il Procuratore nazionale antimafia (Pna) Piero Grasso chiedendogli una relazione sulle tre procure in modo da avere un quadro completo dell'attività investigativa e decidere di conseguenza come e quando intervenire per salvare Mancino. Grasso si tira fuori dalla vicenda sostenendo di aver incontrato D'Ambrosio al Quirinale ma di non aver parlato del lavoro investigativo dei magistrati di Palermo; mentre alla richiesta dell'attuale Pg di cassazione Ciani dice di aver risposto per iscritto specificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi. Comunque sia, non è un mistero, che le tre Procure sin dall'inizio dell'indagine sulla trattativa abbiano manifestato - in particolare, durante una tornata di audizioni davanti alla commissione Antimafia - notevoli divergenze sulla questione dell'imputabilità dei politici coinvolti. I Pm nisseni e quelli fiorentini appaiono orientati a credere che gli esponenti delle istituzioni chiamati in causa nella trattativa furono costretti ad accettare la logica del negoziato imposta da Cosa nostra con il terrore, e dunque sarebbero da ritenersi "vittime" dell'intimidazione mafiosa, ovvero soggetti penalmente non perseguibili. La procura di Palermo, invece, la pensa in tutt'altro modo: l'aggiunto Antonio Ingroia e i Pm Lia Sava, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene ritengono che la trattativa tra Stato e mafia è stata avviata consapevolmente dai politici e dagli uomini degli apparati in simbiosi coi boss mafiosi per ottenere reciproci vantaggi. Il vero motivo dell'ingerenza quirinalizia si capisce bene poche settimane dopo quando Mancino, convinto di averla fatta franca, esulta e si congratula coi suoi protettori per l'iniziativa che rappresenta "un segnale forte... in difesa dei politici". Una conferma esplicita del fatto che altri "pezzi dello Stato" e a livelli ancora più alti hanno tramato con la mafia. Di fronte a tutto ciò il nuovo Vittorio Emanuele III, Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica in carica, già presidente della Camera dei deputati, ex ministro dell'Interno, deputato dal 1953 al 1996 nonché senatore a vita dal 2005, deve quantomeno spiegare i motivi del suo "interessamento" all'attività giudiziaria e soprattutto deve spiegare chi vuole proteggere e perché? Tra i vari nomi "eccellenti" che figurano a vario titolo agli atti dell'inchiesta del Gip di Caltanissetta Alessandra Giunta spiccano, oltre a quello di Mancino anche quelli degli ex ministri Claudio Martelli e Giovanni Conso, degli ex presidenti del consiglio Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, dell'ex presidente dell'Antimafia Luciano Violante. 20 giugno 2012 |