Il decreto sulle liberalizzazioni che consente aperture domenicali e notturne senza limiti giova solo alla grande distribuzione Lavoratori del commercio in rivolta contro i negozi sempre aperti Supersfruttamento selvaggio Tra le liberalizzazioni neoliberiste e filopadronali varate dal governo della grande finanza, della Ue e della macelleria sociale di Monti, ce n'è una che più di altre è passata sotto silenzio o comunque non ha avuto l'attenzione che merita: non si è avvertito e forse è ancora così, tutta la sua pericolosità, tutti i suoi effetti devastanti per le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori interessati, l'autonomia contrattuale dei sindacati, il rispetto dei contratti di lavoro vigenti e la tenuta dei piccoli esercizi commerciali che rischiano in massa di chiudere a vantaggio dei colossi della grande distribuzione. Si tratta della liberalizzazione degli orari delle attività commerciali senza limiti, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, 12 mesi su 12, comprese dunque le domeniche e le notti, inserita (art. 31) nel decreto cosiddetto "Salva Italia" ed entrata in vigore dal 2 gennaio scorso. Anche in questo caso Monti ha agito in perfetta continuità con il precedente governo Berlusconi il quale, con la Finanziaria dello scorso anno, aveva già previsto una serie di misure volte a deregolamentare gli orari e i giorni di apertura dei negozi commerciali eliminando, di fatto, ogni limite alla chiusura domenicale e alla mezza giornata infrasettimanale, fino a intaccare i periodi di ferie. Il provvedimento però, in questo caso, si applicava alle sole città di interesse turistico. Forti le reazioni suscitate tra i lavoratori del settore. I sindacati di categoria FILCAMS-CGIL, FISCAT-CISL e UILTUCS-UIL hanno giudicato il provvedimento sbagliato, ingiusto e dannoso. La totale deregutation stabilita per decreto, è il loro ragionamento, è un regalo alla grande distribuzione, mentre si presenta come una penalizzazione per le piccole e medie realtà del commercio e un ulteriore colpo ai lavoratori del settore che saranno costretti a regimi di orario ancora più pesanti e, in particolare, i dipendenti dei piccoli esercizi vedranno aumentare il rischio di perdere il posto di lavoro. Essa non fa crescere l'economia perché per rilanciare i consumi bisogna intervenire sul reddito dei consumatori aumentando i salari e le pensioni e non gli orari dei negozi. Non fa aumentare l'occupazione perché, come si è visto nella pratica, le aperture festive, quando va bene favoriscono unicamente l'aumento delle assunzioni temporanee, precarie e part-time. Insomma, sottolineano i sindacati del settore, non è più sostenibile una situazione in cui gli addetti del commercio, in maggioranza donne, devono subire regimi di orario spezzettati, discontinui, e mutevoli, aggravati di volta in volta da leggi, come quella sulle liberalizzazioni. Siamo alla schiavitù (salariata) e allo sfruttamento selvaggio della mano d'opera. Le critiche dei sindacati, ma anche della Confcommercio, che insieme ad essi ha formato un fronte comune contro la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi, investono anche il metodo con cui è stato varato il provvedimento: senza ascoltare le "parti sociali" e cancellando con un sol colpo le varie legislature regionali in materia e la storia contrattuale del settore. E ribadiscono un concetto centrale che è questo: senza un'efficace politica di sostegno al reddito delle famiglie dei lavoratori e dei pensionati, la sola liberalizzazione degli orari e delle aperture produrrà esclusivamente effetti devastanti da un punto di vista della precarietà del lavoro. E renderà impossibile la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro di migliaia di addetti, per lo più donne. Altro concetto ribadito: la liberalizzazione degli orari rischia di mettere a dura prova la sopravvivenza dei piccoli esercizi commerciali (che rappresenta il 98% della distribuzione) che non potranno reggere la concorrenza della grande distribuzione (che rappresenta il residuo 2%). Cresce intanto la protesta tra le lavoratrici e i lavoratori, in maggioranza donne con figli piccoli e genitori anziani, molte assunte a part-time e con vari contrattini precari: hanno assunto iniziative di lotta a Torino, con una manifestazione dei dipendenti del centro commerciale "Le Gru", in Toscana, Friuli, Lazio e Puglia. Nel Veneto i lavoratori del commercio hanno scioperato domenica 29 gennaio contro la totale liberalizzazione degli orari e delle aperture domenicali e festive. Nel volantino distribuito ai clienti è scritto: "Io non voglio lavorare di domenica". E chiedono condizioni di lavoro compatibili con impegni di famiglia e individuali. A Modena la FLAI-CGIL ha invitato "tutti i lavoratori dell'agroindustria modenese ad astenersi dal recarsi nei negozi a fare la spesa di domenica". Una sorta di sciopero della spesa domenicale per limitare i danni che questa misura avrebbe anche sui lavoratori dell'agroalimentare che saranno chiamati a consegnare i prodotti alle condizioni e ai tempi dettati dalla grande distribuzione e dunque a turni lavorativi massacranti anche di sabato e domenica. La liberalizzazione degli orari dei negozi ha creato un conflitto di competenze e un contenzioso tra governo e varie Regioni d'Italia, in testa la Toscana e, a seguire, Veneto, Piemonte, Lazio, Puglia, oltre alla provincia autonoma di Trento. Queste hanno dichiarato di essere pronte a fare ricorso alla Corte costituzionale per contrastare quella che ritengono essere una violazione del Titolo V della Costituzione che regola le competenze affidate alle Regioni in esclusiva o in concorrenza con il governo nazionale. In questo ambito c'è da segnalare una prima sentenza del Tar della Toscana dell'8 febbraio scorso che boccia le ordinanze dei comuni di Pontedera e di Prato che fermavano la liberalizzazione degli orari e delle aperture dei negozi contenuta nel decreto Monti e, viceversa, accoglie le richieste di sospensiva delle suddette ordinanze presentate con due ricorsi da Pam, Coin, Upim, Oviesse e Billa. La parola ora passa alla Corte costituzionale che, è scritto in una nota della Regione Toscana: "rimane l'unico soggetto in grado di stabilire definitivamente se il tema in questione attiene al commercio, dunque materia regionale, o alla concorrenza di competenza nazionale". 22 febbraio 2012 |