Lo denuncia L'Ires-Cgil Dal 2002 ad oggi i lavoratori hanno perso 1.896 euro Le famiglie degli operai nello stesso periodo perdono 2.600 euro La colpa è dei governi di "centro-destra" e di "centro-sinistra", della Confindustria e dei sindacati confederali Esiste in Italia una questione salariale che negli ultimi anni si è aggravata enormemente fino a diventare intollerabile e non più rinviabile. Ormai nessuno, nemmeno da parte padronale, può disconoscere, senza mentire spudoratamente, che nel nostro Paese i salari del lavoro dipendente, specie quelli operai, hanno perso in modo consistente potere d'acquisto, hanno perso terreno rispetto ai profitti capitalistici e alle rendite finanziarie, ed è noto che essi si trovano in fondo alla classifica dei paesi dell'Unione europea. Persino il governatore della Banca d'Italia, Draghi, che non può certo essere considerato un amico dei lavoratori, ha dichiarato di recente che i salari italiani sono inferiori del 30-40% rispetto a quelli esistenti in Francia, Germania e Inghilterra. Dal 1996 al 2005 la ricchezza distribuita al lavoro è scesa dal 53 al 48% (dati Mediobanca). A confermare in modo plateale e inequivocabile questa grave e ingiusta situazione ci ha pensato l'Istituto di ricerca economica e sociale (Ires) della Cgil con uno studio dettagliato curato da Agostino Megale, Giuseppe D'Aloia, Lorenzo Birindelli, Cristina Lerico e Riccardo Sanna. Studio denominato "Aggiornamento dei dati su salari e produttività in Italia e in Europa" illustrato il 19 novembre scorso a Roma, presente Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil. Il salario perso Da questo studio spiccano immediatamente due dati eclatanti che sono questi: in soli cinque anni, dal 2002 al 2007 i salari dei lavoratori hanno perso quasi 1.900 euro di cui 1.210 di riduzione di potere d'acquisto e il resto di mancata restituzione del fiscal-drag. Nesso stesso periodo le famiglie operaie hanno visto ridotto il loro reddito di 2.600 euro. I motivi indicati: lo scarto tra l'inflazione programmata, sulla cui base si rinnovano i contratti e l'inflazione sia attesa che effettiva. Ciò in base alla "politica dei redditi" introdotta col famigerato accordo del 23 luglio '93 governo, Confindustria, sindacati, che ha comportato aumenti contrattuali più bassi dell'inflazione reale; i rinvii nel rinnovo dei contratti fino a 12 mesi per i settori privati, fino a due anni per quelli pubblici; l'inadeguata redistribuzione degli aumenti di produttività, i cui benefici sono andati in maggioranza alle aziende. "Ricordiamo - si legge - che la 'rincorsa salariale' determinata da una crescita delle retribuzioni inferiore all'inflazione reale, nasconde un effetto di trascinamento della perdita di potere d'acquisto: un lavoratore dipendente oltre alla perdita dell'anno in corso, non recupera la diminuzione del potere d'acquisto nemmeno dell'anno precedente: nel periodo 2002-2007 - per un lavoratore con retribuzione annua lorda di 24.890 euro si arriva per questa via, a 'cumulare' una perdita complessiva (a prezzi correnti) pari a 1.210 euro complessivi. Se a questa - continua - aggiungiamo la perdita derivate dalla mancata restituzione del fiscal drag la perdita ammonta a 1.900 euro". Nell'indagine del'Ires c'è una difesa d'ufficio dell'accordo del luglio '93 che non sta in piedi con le risultanze messe in evidenza. Da un lato si afferma che i salari reali dal 1993 a oggi hanno mantenuto il potere d'acquisto, con una crescita media annua del 3,4% a fronte di un inflazione del 3,2%, dall'altro si registrano aumenti salariali al di sotto del caro vita, ottenuti in ritardo, tassati in modo progressivo e senza beccare un quattrino rispetto all'incremento della ricchezza prodotta. Si tace colpevolmente e in modo poco onesto che uno dei motivi principali, se non il più importante, di questa caduta dei salari è stata la cancellazione della scala mobile. Senza di essa e dando la possibilità ai governi di stabilire con libero arbitrio i tetti dell'inflazione programmata entro cui rinnovare i contratti nazionali di lavoro è inevitabile che si giunga al taglio dei salari, come è accaduto in particolare negli anni 2002 e 2003 con una perdita di guadagno accumulato del potere d'acquisto rispettivamente di 532 euro (+171 di fiscal drag) e di 1.298 euro (+ 151 di fiscal drag). Retribuzioni da fame È comunque innegabile che la politica della moderazione salariale perseguita dai vertici sindacali abbia danneggiato i lavoratori e favorito le imprese. Anche questo dato emerge con chiarezza nello studio dell'Ires-Cgil quando segnala che nella distribuzione della crescita della produttività, registrata nel periodo 1993-2006, ai primi è andato solo il 2% e alle seconde il 14,5%. Come non va sottaciuta la grave responsabilità dei governi che si sono succeduti i quali hanno contribuito allo svuotamento dei salari, con un taglio dell'1% (2000-2006) solo per effetto dell'innalzamento dell'aliquota fiscale su aumenti salariali del tutto virtuali, cioè nominali ma non reali che fanno scattare automaticamente imposizioni crescenti. In Italia gli stipendi sono generalmente troppo bassi, insufficienti a condurre una vita dignitosa, quando non al di sotto della sopravvivenza. In base alla ricerca Ires oltre 14 milioni di lavoratori vivono con meno di 1.300 euro al mese, mentre 7,3 milioni ne guadagnano meno (quanto meno?) di 1.000 euro. Si pensi al precariato e alle sue numerose forme assunte legalmente con la legge 30 e che coinvolge dai 3,5 ai 4.5 milioni di giovani e meno giovani con stipendi molto al di sotto di quelli contrattuali. A questo proposito L'Ires fotografa le "nuove diseguaglianze. A fronte di un lavoratore standard con 1.171 euro mensili netti, il lavoratore del Mezzogiorno prende 969 euro (-13,4%), la lavoratrice 961 (-17,9%), il lavoratore della piccola impresa 866 (-26,2), il lavoratore immigrato extra-Ue 856 (-26,9%) il lavoratore giovane 15-34 anni 854 euro (-27,1%). Diseguaglianze salariali Insomma, se lavori al Sud, se sei donna, se sei giovane, se sei immigrato il tuo salario scende a livelli infimi. Se poi sei insieme una giovane donna, extracomunitaria che lavora nel Mezzogiorno? Sui giovani la ricerca Ires si sofferma per sottolineare che: un apprendista in età compresa tra i 15 e i 24 anni guadagna mediamente 736 euro circa; un collaboratore occasionale in età compresa tra i 15 e i 34 anni non va oltre i 768 euro netti mensili; un co.co.pro. prende qualcosina in più, 899 euro. Le nuove generazioni sono messe molto male. Gli stipendi sotto gli 800 euro sono molto diffusi per coloro che vanno dai 17 ai 24 anni (55,8%). Tra gli 800 e 1.000 euro ci sono i giovani 25-32 anni. Anche i dati Istat denunciano una condizione sociale giovanile disastrosa, di povertà, specie se vive in coppia con più figli. Che nel nostro Paese i salari dei lavoratori siano vergognosamente bassi lo si ricava anche dall'impietoso confronto con i maggiori paesi europei. Il confronto mette in luce che nel periodo 1998-2006 le retribuzioni (nell'industria manifatturiera) sono rimaste praticamente ferme passando da base 100 a 102.6, mentre la media è di 110.1. In Francia e nel Regno Unito la crescita è stata di 15 e di 18 punti. Anche in Germania e Spagna l'incremento è stato più alto che in Italia, anche se non di molto. Ecco un altro raffronto che conferma da noi trattamenti peggiori. Nel 2005, nel settore dei beni e servizi destinati alla vendita (senza agricoltura e pubblico impiego), la retribuzione lorda annua media di un lavoratore single era inferiore di circa il 45% rispetto a Germania e Regno Unito e di circa il 25% rispetto alla Francia. Da sfatare inoltre la propaganda padronale circa l'alto "costo del lavoro" in Italia che invece risulta minore rispetto a Francia, Germania e Regno Unito e poco sopra a quello spagnolo. Favoriti imprenditori e profitti L'insieme dei fattori sopra descritti hanno penalizzato i ceti più deboli. Infatti, nel periodo 2002-2007 per il capofamiglia operaio c'è una perdita di salario pari a 2.592 euro, per il capofamiglia impiegato la perdita è di 3.047 euro, mentre per imprenditori e liberi professionisti si registra una crescita del potere d'acquisto mediamente di 11.984 euro. Accanto a questo dato è interessante e significativo quello che mette a confronto la crescita dei salari con quella dei profitti. Nel periodo 1995-2006, facendo base 100 le retribuzioni sono cresciute nella media annua per dipendente dello 0,4%, mentre i profitti hanno segnato un + 8,1%. Dal 2004 al 2006 le grandi imprese dell'industria hanno realizzato + 63,5% di profitti, l'incremento dei salari non è andato oltre il 4,8%. In conclusione l'Ires suggerisce alcuni "rimedi", quali: la crescita delle retribuzioni al passo con l'inflazione effettiva e con la produttività; la chiusura dei Ccnl nei tempi previsti dalle scadenze e l'estensione della contrattazione di secondo livello; una maggiore distribuzione della produttività a favore dei salari; un riduzione della pressione fiscale sui lavoratori, almeno del 2% dice il presidente dell'Ires Mengale; una "nuova politica dei redditi in grado di controllare l'impatto dei prezzi e delle tariffe, come delle addizionali locali". Non ci siamo! Sono proposte insufficienti intrise di una concezione cogestionaria. Sbilanciate dal lato fiscale che non toccano i profitti padronali. Tra l'altro destinate a rimanere sulla carta se non c'è una presa di coscienza e una denuncia forte della politica economica e sociale, della politica fiscale messa in pratica dai governi di "centro-destra" e di "centro-sinistra", ivi compreso il governo Prodi, non si prende atto e si contesta il fallimento del "patto sociale" del luglio '93 e della politica salariali perseguita dai vertici sindacali confederali, se non si ha il coraggio di contrastare con forza l'arroganza e la tracotanza della Confindustria di Montezemolo. Cambiare linea Certo, quanto concordato nel Protocollo Prodi sul welfare, quanto viene a delinearsi con la "riforma" del modello contrattuale non va nella giusta direzione di un recupero sostanzioso del valore dei salari. Occorre un cambiamento di linea sindacale radicale. Bisogna buttare alle ortiche la subordinazione dei salari ai tetti dell'inflazione programmata, ai profitti aziendali, più in generale alle compatibilità economiche capitalistiche. Occorre agire su più piani: quello degli aumenti salariali contrattuali che siano almeno in linea con quelli europei, che vadano oltre l'inflazione e intacchino i profitti capitalistici; della difesa e del rafforzamento del contratto nazionale di lavoro; del ripristino di un meccanismo automatico dei salari (e delle pensioni) all'inflazione reale monitorata con un paniere di merci adeguato all'oggi; quello di un alleggerimento significativo del peso fiscale sui redditi medio-bassi del lavoro dipendente, attraverso la riduzione delle aliquote Irpef; di un controllo e raffreddamento dei prezzi dei generi di più largo consumo e delle tariffe pubbliche; di una lotta forte e coerente contro le diverse forme di precariato; quello di provvedimenti a livello sociale a sostegno del reddito dei lavoratori, come la casa popolare, il canone sociale ecc. Intanto è necessario che siano chiusi subiti i contratti nazionali di lavoro che interessano 8 milioni di lavoratori dei settori privati e pubblici. 28 novembre 2007 |