Leggi economiche e lotta di classe L'azione delle leggi economiche nelle formazioni antagonistiche di classe Il riconoscimento del carattere oggettivo delle leggi dello sviluppo sociale, come si sa, rappresenta una delle pietre angolari del materialismo storico. Il marxismo infatti muove dall'idea che il processo di sviluppo della società, come anche quello della natura, ha carattere regolare ed è quindi soggetto all'azione di leggi oggettive, indipendenti dalla volontà degli uomini. Questo principio marxista si contrappone a tutti i sistemi idealistico-soggettivi e volontaristici della sociologia borghese, la quale - al contrario - nega allo sviluppo sociale qualsiasi conformità a leggi che ne regolino il corso, e presenta la storia come fosse un'assurda congerie di casualità risultanti dalla "libera creazione" di singole eminenti personalità. Nel palese intento di diffamare la teoria scientifica del materialismo storico, i filosofi e i sociologi borghesi affermano che essa, "riducendo a nulla" l'attività storica dell'uomo, porta inevitabilmente al fatalismo e al quietismo; o meglio, come essi dicono, se la storia è creata da leggi oggettive, allora per l'attività cosciente degli uomini non può esserci alcun posto, mentre se essa è creata dall'uomo, allora non c'è posto per leggi oggettive che ne regolino il corso. Se voi riconoscete il socialismo come oggettivamente necessario e ineluttabile, disse per esempio Stammler, perché allora organizzate un partito che lotti per il socialismo? In realtà il marxismo non ha mai avuto, e nemmeno potrebbe avere, niente in comune con il fatalismo. Anzi, nella concezione marxista la legge non è né un destino e nemmeno un fato, ma soltanto il riflesso di più sostanziali nessi interni oggettivamente inerenti alle cose e ai fenomeni del mondo reale, e quindi non un qualcosa di esterno ai rapporti sociali, ma che è loro intrinsecamente proprio. Come Marx ha infatti più volte rilevato, nei rapporti sociali (come anche, del resto, nella natura) la legge che esprime il nesso interno e necessario tra due fenomeni esteriormente in contraddizione tra loro si manifesta non in forma pura, ma soltanto "come tendenza dominante, come una certa media - peraltro mai fissata con certezza - tra continue variazioni". Lenin, da parte sua, osservò che il marxismo intende il carattere oggettivo delle leggi di sviluppo sociale non nel senso che esse esistono indipendentemente dalla società umana, "non nel senso che la società degli esseri coscienti, degli uomini, possa esistere e svilupparsi indipendentemente dall'esistenza degli esseri coscienti... ma nel senso che l'essere sociale è indipendente dalla coscienza sociale degli uomini". Che è come dire, in altre parole, che tutti i rapporti sociali - nel cui novero quelli economici - sono sempre e comunque un risultato dell'attività umana, anche se questa non abbraccia mai interamente la coscienza sociale, ma anzi le resiste come qualcosa di oggettivo e da essa indipendente. L'attività umana, dunque, si svolge sempre sulla base di oggettive leggi inerenti allo sviluppo sociale e di cui l'uomo può valersi in vario modo. Quando infatti non sono intese esse si manifestano come una forza cieca ed elementare, mentre gli uomini, pur agendo in conformità ad esse (per esempio, scambiando merci sulla base della legge del valore), non ne conoscono l'esistenza e quindi non possono servirsene coscientemente nell'interesse della società e prevenirne così l'azione distruttiva. Come Stalin ha giustamente rilevato, riconoscere il carattere oggettivo delle leggi dello sviluppo sociale significa riconoscere che gli uomini non possono né agire a loro dispetto e "creare" la storia secondo fantasia, né mutare a priori gli indirizzi dello sviluppo sociale. Ciò nondimeno, i tempi e le concrete forme di attuazione di una tendenza storica oggettiva sono unicamente determinati dall'attività umana nel suo insieme e da tutte quelle infinite condizioni empiriche venutesi a creare nel corso di tale attività. Se dunque gli uomini non possono né abolire, né trasformare o creare leggi di per sé oggettive, essi possono tuttavia influire attivamente sulle condizioni alla cui esistenza è legata l'azione stessa di queste leggi, e cercare quindi di conseguire, per questa via, dei mutamenti nella sfera d'azione o nel carattere di queste o quelle leggi. Ne consegue che il principio secondo cui è l'uomo stesso che crea la propria storia, e quello invece per il quale lo sviluppo della società si compie sulla base di leggi oggettive la cui esistenza è indipendente dalla volontà degli uomini; ebbene, entrambi questi principi non soltanto non sono in contraddizione tra loro, ma, al contrario, possono essere intesi solamente nella loro dialettica unità. Per essere più precisi, senza conoscere le oggettive leggi di sviluppo della società non è possibile concepire la creazione storica dell'uomo come un processo unico e regolare, mentre, per inverso, senza aver compreso il ruolo di tale creazione è altresì impossibile intendere adeguatamente tanto il contenuto che il meccanismo d'azione delle oggettive leggi economiche. Queste dunque, per loro essenza, sono sempre leggi proprie all'attività sociale degli uomini, la quale può essere intesa solo e unicamente sulla base di esse, mentre le leggi, a loro volta, lo possono essere soltanto in rapporto con la vivente storia concreta. Di qui la prova di quanto assurde siano le affermazioni di sociologi ed economisti borghesi circa il fatto che il marxismo, a loro dire, verrebbe a separare i risultati dell'attività umana dall'uomo stesso. L'opera di Stalin "Problemi economici del socialismo in Urss" ha di recente richiamato l'attenzione dell'intera comunità scientifica sull'importante problema teorico dell'impiego delle leggi economiche, da parte dell'uomo, nell'interesse della società. Leggi economiche e classi sociali Nel rilevare che questa non è affatto impotente dinanzi a tali leggi, e che quindi - conoscendole - può utilizzarle nel proprio interesse limitando la sfera d'azione delle une e creando favorevoli condizioni per le altre, Stalin sottolinea altresì che nella storia, sempre e comunque, il ruolo decisivo lo svolgono le larghe masse popolari, cioè i produttori diretti dei beni materiali. Tuttavia, egli precisa, se è giusto in generale affermare che in ogni fase del suo sviluppo l'umanità si è sempre valsa di leggi economiche oggettive, è pur vero che in condizioni storiche differenti i limiti, il carattere e le forme di un tale impiego sono e non potrebbero non essere differenti tra loro. Per chiarire dunque il problema dell'impiego di queste leggi oggettive nelle formazioni di classe sfruttatrici - a cui è proprio per l'appunto, l'antagonismo di classe - un grande rilievo teorico ha la questione della causa intrinseca che determina un tale loro impiego e, quindi, del rapporto che intercorre tra queste leggi e la lotta di classe in generale. Il quale problema però, a sua volta, si divide in altre due questioni strettamente legate tra loro e che sono: 1) in che modo le leggi economiche si manifestano nell'attività degli uomini e quale importanza assume la lotta di classe (indipendentemente dal suo grado di consapevolezza) nell'attuazione di queste o altre tendenze economiche; 2) come e in che misura gli uomini possono, in condizioni di formazione antagonistica, valersi coscientemente delle leggi economiche oggettive nel proprio interesse di classe e in quello dell'intera società. A tutti questi importanti quesiti cercheremo ora di dare una risposta sulla base della teoria scientifica del materialismo storico e della metodologia marxista-leninista. Dunque, come si è detto, le leggi oggettive della storia si manifestano nell'attività sociale degli uomini, che quindi ne sono - di fatto - i creatori. Ma, come si sa, in condizioni di formazioni sociali antagonistiche la società è anche divisa in classi i cui interessi sono inconciliabilmente opposti tra loro. Com'è allora possibile, qui, valersi delle leggi dello sviluppo sociale, se ciò che è vantaggioso per una classe non lo è per l'altra? Per rispondere a questa domanda occorre anzitutto aver presente che queste leggi, riflettendo gli essenziali nessi intrinsechi tra condizioni oggettive assai diverse tra loro e in complessa interdipendenza l'una con l'altra, non sono affatto degli schemi rigidi e fissi a cui ogni azione dell'uomo è passivamente soggetta, ma possono assumere -come vedremo più avanti - forme, caratteri e tempi loro propri, dovuti alle circostanze in cui l'attività umana viene a svolgersi. In ogni società si intrecciano strettamente e lottano tra loro il vecchio e il nuovo, ciò che ha fatto il suo tempo e ciò che invece sta per nascere. Ma dato che, come Marx ebbe più volte a rilevare, non è possibile figurarsi la storia della società nei toni mistici di una generale predeterminazione, assolutamente necessaria per noi è soltanto la tendenza generale dello sviluppo storico, vale a dire le leggi di sviluppo e il succedersi delle formazioni economico-sociali in cui queste agiscono, e che tuttavia si attuano pur sempre in circostanze empiriche infinitamente varie. Per cui, in definitiva, tutte le leggi economiche - nessuna esclusa - operano non in modo fatale e in forma pura secondo un piano prestabilito, ma sotto forma di tendenze dominanti che determinano la direzione dello sviluppo. Ogni formazione economico-sociale rappresenta un insieme unico che si caratterizza per sue determinate condizioni oggettive e per una qual certa sua unità tra forze produttive e rapporti di produzione. L'unità e l'interrelazione tra tutti i processi economici di una data formazione sono riflesse nella sua legge economica fondamentale, la quale ne determina tutti gli aspetti principali; inoltre, il fine della produzione da un lato, e le esigenze di questa legge dall'altro, hanno entrambi carattere oggettivo, e non dipendono quindi da alcuna volontà delle classi di una data società. Anzi, queste classi sono esse stesse un prodotto delle condizioni economiche date, il che tuttavia non impedisce all'azione di questa legge di essere sempre e comunque contraddittoria, ossia che le sue leggi si attuino non in modo meccanico, ma in complessa interazione con altre leggi, nella lotta tra contraddittorie (e, nelle formazioni antagonistiche, contrapposte) tendenze economiche. Prendiamo, per esempio, la questione dello sviluppo proporzionale dei vari settori dell'economia nazionale socialista e, per inverso, dell'anarchia produttiva invece tipica del sistema economico capitalistico. È noto che nessuna produzione può esistere senza un qualche relativo equilibrio tra i suoi diversi settori. E questa tendenza ha avuto un suo particolare riflesso negli schemi marxisti della riproduzione allargata, che ci hanno mostrato quale realmente sia - per ogni riproduzione allargata - la forza di una legge economica oggettiva. A questa tendenza alla proporzionalità, tuttavia, si oppone, nelle condizioni del capitalismo, la legge dell'anarchia produttiva dovuta all'esistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione, la quale esclude sì la possibilità di uno sviluppo pianificato, sistematico e costante della produzione, ma non potrà mai eliminare l'oggettiva tendenza a una certa, relativa proporzionalità della produzione. Al contrario, trasferendo capitali da un settore produttivo all'altro la produzione capitalistica si livella in modo spontaneo proprio in condizioni di azione della legge dell'anarchia produttiva e della concorrenza. Per cui, come Marx ebbe a rilevare, nel capitalismo "la produzione proporzionale è sempre e soltanto il risultato della produzione non-proporzionale basata sulla concorrenza" ("Teorie del plusvalore", vol. II). Dato che ogni formazione economico-sociale si caratterizza per un suo particolare tipo di rapporti di produzione e per una sua particolare struttura di classe, sarebbe un serio errore metodologico comparare per analogia il sistema schiavistico o feudale con quello capitalistico. Una via, questa, su cui purtroppo si sono posti alcuni dei nostri economisti e storici, i quali hanno cercato di formulare la legge economica fondamentale della formazione feudale o di quella schiavistica basandosi, per l'appunto, sul modello della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo. Questo errore, in modo particolare, si evidenzia nell'articolo di D.K. Trifonov "La questione delle leggi economiche fondamentali delle formazioni precapitalistiche", dove l'autore definisce quella del modo di produzione schiavistico come "l'assicurazione del sovraprodotto in misura soddisfacente i bisogni parassitari della classe schiavista mediante l'asservimento dei popoli allogeni, la trasformazione dei produttori diretti-schiavi in proprietà assoluta degli schiavisti, e l'intensificazione del loro sfruttamento sulla base di una tecnica infima". La legge economica fondamentale Con una simile concezione della legge economica fondamentale ciò che non risulta affatto chiaro - o che, anzi, è assolutamente incomprensibile - è in che modo le forze produttive potessero dunque svilupparsi se, come afferma l'autore, il fine oggettivo della produzione era tutto nel solo soddisfacimento di bisogni improduttivi e parassitari. Del problema, infatti, questa formula non considera alcuni aspetti essenziali, e in primo luogo che non tutti gli schiavisti - e nemmeno per l'intero periodo di esistenza della formazione schiavistica - condussero un genere di vita parassitario; poi che sia in Grecia che a Roma esisteva anche un'economia di liberi contadini e artigiani i quali, pur utilizzando anch'essi degli schiavi come forza-lavoro supplementare lavoravano essi stessi; e infine la circostanza che in una tale economia (peraltro apparsa soltanto nel periodo di decadenza della formazione schiavistica) le forze produttive ebbero comunque a svilupparsi. Infatti non è per niente casuale che la crisi della forma schiavistica sia stata organicamente legata alla rovina del libero contadino e dell'artigianato. Evidentemente la formula del Trifonov che considera la classe dominante come parassita tout court, se pur giusta in generale, può tuttavia essere applicata soltanto al periodo di decadenza e di crisi del sistema schiavistico, non potendo in alcun modo servire quale spiegazione dell'intero sviluppo della data formazione sociale. Ne risulta dunque che non è in alcun modo possibile semplificare l'oggettiva complessità dello sviluppo sociale in genere o anche di una data formazione dovendosi invece considerare questo processo in tutta la sua varietà e contraddittorietà, legando cioè la lotta delle diverse tendenze economiche alle alterne vicende della lotta di classe. Cercando di mascherare e di dissimulare la lotta di classe in atto nella società capitalistica, la sociologia reazionaria borghese si prova, e non da ora, a insidiare il concetto marxista di classe sociale. Afferma infatti il sociologo americano O'Boyle che il concetto di classe è di per sé molto vago, e che la classe non costituisce affatto alcuna unità, ma si scinde in gruppi più piccoli. L'ineguaglianza di classe, gli fa eco il francese Chaix-Ruy, ha le sue radici "non nelle condizioni economiche, e nemmeno in un determinato sistema di produzione, ma in un sistema di credenze e di pregiudizi". La cosiddetta "psicologia sociale" poi, largamente diffusa negli Stati Uniti, si prova a sostituire il concetto di "classe" con quello di "gruppo sociale" inteso come una certa "comunanza psichica" di persone. Quanti poi debbano rientrare in questo gruppo e che cosa li possa unire - l'impegno politico o il gioco al poker - è per essa del tutto inessenziale. Lo stesso senso ha anche la proposizione del concetto di "generazione" (Lorenz, Ortega y Gasset e altri) quale categoria storica fondamentale. Spacciando la storia come collaborazione e lotta tra differenti generazioni d'età, la sociologia borghese cerca così di occultare e di sminuire il fatto decisivo della lotta di classe. In antitesi a queste teorie reazionarie borghesi il marxismo sottolinea invece che la scoperta e l'impiego delle leggi economiche hanno sempre un intrinseco movente di classe, e che quindi si possono realizzare soltanto nel corso della lotta di classe. Le condizioni economiche di ogni data società si riflettono nella coscienza sociale soprattutto nella forma di interessi che nelle formazioni antagonistiche assumono immancabilmente un carattere di classe. Gli stessi e medesimi processi economici, cioè, riflettendosi nella coscienza degli uomini, generano interessi del tutto diversi tra loro a seconda di quale posto una determinata classe occupa nel processo della produzione e di quale sia il suo rapporto con gli strumenti e i mezzi di produzione. Per cui, in forza di ciò, classi diverse sono atte a recepire e ad utilizzare le stesse leggi in modo diverso. Classi tra loro differenti, dunque, rappresentano tendenze economiche differenti, e quale di queste debba poi vincere sarà la lotta di classe a deciderlo, per quanto - in ultima analisi - lo sia sempre quella progressista espressa dalla nascente classe avanzata. Quanto alla legge economica fondamentale del feudalesimo l'autore formula i suoi principali aspetti ed esigenze come "assicurazione del sovraprodotto, nella forma di rendita terriera feudale, in misura soddisfacente i bisogni improduttivi della classe dei feudali e della sua numerosa servitù, mediante l'asservimento dei produttori diretti, la spartizione dei loro mezzi di produzione, e l'intensificazione dello sfruttamento in forma di barscina e obròk sulla base di una tecnica consuetudinaria". Anzitutto, anche qui si dà un unilaterale risalto al consumo improduttivo della classe dei feudali, allorché Engels parla della produzione feudale in termini di produzione "finalizzata al consumo diretto dei prodotti da parte del produttore stesso o del suo signore feudale". In secondo luogo, se l'intero sovraprodotto viene consumato dal feudale e se questo sfruttamento feudale, poi, non fa che intensificarsi tutto il tempo, viene allora da chiedersi da dove l'economia contadina possa prendere quel certo prodotto eccedente senza il quale è impossibile ogni ulteriore sviluppo delle forze produttive che predisponga il passaggio al capitalismo. Infine, quale principale mezzo per assicurare il fine della produzione l'autore indica, in sostanza, la costrizione extraeconomica, cioè la dipendenza servile dei contadini dal loro signore, mentre in realtà, come è risaputo, nel feudalesimo il ruolo decisivo ebbe a svolgerlo la proprietà feudale sulla terra. Queste stesse obiezioni, poi, nella loro gran parte, possono essere riferite anche alla concezione espressa da B.F. Porsnev. È infatti sua opinione che "nella legge della rendita feudale, come in un unico focus, si sono riflessi tutti i rapporti di produzione del feudalesimo", mentre invece le cose stanno ben altrimenti. Nel produttore diretto l'accumulazione del prodotto eccedente grazie alla quale si ha l'ulteriore sviluppo delle forze produttive, non può essere affatto spiegata con la legge della rendita feudale, come pure non è possibile convenire con l'affermazione dello stesso circa l'aumento della rendita feudale e l'intensificazione dello sfruttamento dei contadini. Se infatti la rendita fosse sempre aumentata e lo sfruttamento pur intensificato, l'accumulazione nell'economia contadina sarebbe stata impossibile; il contadino, in tal caso, avrebbe perso ogni interesse per il proprio lavoro, e l'intero feudalesimo avrebbe poggiato esclusivamente sulla costrizione extraeconomica. Invece sarebbe stato più logico legare l'avvicendamento delle forme della rendita feudale non già all'intensificazione dello sfruttamento, ma alla crescita delle forze produttive e allo sviluppo della produzione mercantile. La lotta di classe del proletariato La stessa cosa può vedersi anche sull'esempio della lotta per la giornata lavorativa. Contrariamente al capitalista, l'operaio è vitalmente interessato a una sua riduzione. Ma all'offensiva del capitale, però, il singolo operaio - com'è ovvio - non è assolutamente in grado di esercitare alcuna resistenza che sia minimamente efficace, per cui la lotta non può che manifestarsi nella forma di una lotta di classe tra gli operai e la borghesia. Generalizzando la storia della legislazione di fabbrica inglese, Marx scrisse che "l'istituzione della normale giornata lavorativa è il prodotto di una continua e più o meno latente guerra civile tra la classe dei capitalisti e quella operaia". E ciò anche se la lotta, come si sa, non finisce affatto qui, dato che la borghesia - in particolare nell'epoca dell'imperialismo - prosegue la sua offensiva contro gli operai anche a dispetto di accordi o di legislazioni, che per essa hanno un valore del tutto irrisorio". Ne consegue che nel capitalismo il livello del salario e la durata della giornata lavorativa sono sempre determinati, in ultima analisi, da oggettive leggi economiche la cui esistenza non dipende né dalla volontà dell'operaio, né da quella del capitalista. Tuttavia, il modo in cui tali leggi operano in ogni singolo caso concreto e quale poi dovrà essere la concreta norma di sfruttamento, questo dipenderà in primo luogo dal rapporto esistente tra le varie forze di classe e dal grado di sviluppo assunto dalla lotta di classe del proletariato in quel dato periodo o momento particolare. Nelle formazioni antagonistiche, dunque, sulla concreta attuazione delle leggi economiche si dispiega un'accanita lotta di classe il cui indirizzo e carattere - per quanto sia sempre la lotta di classe, poi, a decidere della vittoria di questa o quella tendenza - sono determinati da leggi economiche oggettive. Dal che si può ben comprendere, tra l'altro, quanto errate ed estranee al marxismo siano, da un lato, le astratte costruzioni del cosiddetto "materialismo economico" (che nega il ruolo della lotta di classe nello sviluppo della società, e che presenta la storia come se fosse un lineare sviluppo autogeno di processi economici avulsi dall'uomo) e, dall'altro lato, il distacco idealistico-soggettivo della lotta di classe dalla sua base economica. Ma il fatto che ogni azione dell'uomo poggi, in un modo o nell'altro, su determinate leggi economiche non significa affatto che ogni classe sia in grado di valersene nello stesso modo e in ugual misura delle altre. Un ruolo decisivo dello sviluppo di ogni data formazione lo svolgono le specifiche leggi sue proprie, e prima fra tutte la legge economica fondamentale. Va da sé tuttavia che, nel modo ad essa più vantaggioso, di tali leggi potrà valersi soltanto la classe che in quella data formazione è dominante o che, per meglio dire - secondo l'espressione di Lenin - "gestisce" il dato ordinamento economico e detiene, quindi, gli strumenti e i mezzi di produzione. Il fine oggettivo di questa poi, espresso nella legge economica fondamentale della formazione data, è al tempo stesso - e pur con tutte le sue possibili e infinite modificazioni - il fine soggettivo di chi è parte di quella data classe dominante. Se cioè il fine della produzione capitalistica è il conseguimento del massimo profitto capitalistico, questo, al tempo stesso, è anche il fine soggettivo della classe dei capitalisti. Per cui, ne consegue, la legge economica fondamentale del capitalismo (pur essendo, com'è ovvio, tra le cause prime che porteranno alla rivoluzione sociale e, dunque, ad una sostituzione del capitalismo con un nuovo e superiore ordinamento economico) risponde pienamente agli interessi della classe dominante, la quale - anche senza averne coscienza - su di essa fa leva ed in essa ha il suo movente. Questa classe inoltre, valendosi del suo potere politico, non soltanto può utilizzare nel proprio interesse le oggettive leggi della sua formazione, ma in certa misura può anche neutralizzare alcune delle tendenze che per essa sono pericolose. Così, per esempio, nelle condizioni del capitalismo opera la legge - scoperta da Marx - in forza della quale, a misura dello sviluppo del capitalismo, si ha una riduzione del saggio generale di profitto. L'azione di questa legge di tendenza, ovviamente, è svantaggiosa per la borghesia, e quindi essa, per ridurne gli effetti, pone in atto altre oggettive tendenze economiche quali l'intensificazione del lavoro, il ribasso del salario al di sotto del valore della forza-lavoro, la riduzione degli elementi di capitale costante, una relativa sovrappopolazione che consenta di ridurre il salario per eccedenza di manodopera, oppure il commercio estero con il cosiddetto "Terzo mondo" che permette una più elevata norma di profitto. Nell'epoca dell'imperialismo, poi, la creazione di giganteschi monopoli rende assolutamente inevitabile la tendenza del capitale non già ad un profitto medio, ma al suo massimo possibile; per cui l'azione della suddetta legge di tendenza viene a paralizzarsi ancor di più. È qui applicabile, dunque, la tesi di Marx secondo cui "le stesse cause che portano alla diminuzione del saggio generale di profitto provocano anche contraddizioni che frenano questa diminuzione, la rallentano e, in parte, la paralizzano. Esse non distruggono la legge, ma ne indeboliscono l'azione" ("Il Capitale", vol. III). Per cui, se ne desume, ogni classe dominante dispone sempre di più o meno larghi margini di azione, o, per meglio dire, di impiego delle oggettive leggi economiche della propria formazione. Il capitalista però, è bene precisare, vede soltanto la superfice dei fenomeni economici; e una superfice, oltretutto, falsata dalla rivalità di concorrenza e dall'anarchia stessa della produzione. Egli, cioè, non è affatto in grado di discernere, dietro l'ingannevole esteriorità, l'essenza intrinseca e la struttura interna del processo economico che storicamente egli stesso rappresenta. Ed anche se ne fosse capace, comunque, egli non sarebbe in grado di rimuovere od eliminare il carattere spontaneo che è alla base delle leggi stesse del capitalismo, dato che questo, per l'appunto, ha origine in quel dominio della proprietà privata sui mezzi di produzione che rende inevitabile lo scontro degli interessi umani e che genera, quindi, la più aspra ed accanita lotta di classe. Certo è che nella storia dell'umanità nessuna classe sfruttatrice ha mai potuto prendere chiara coscienza delle oggettive leggi dello sviluppo sociale; e a maggior ragione, di quella della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive. Lo sviluppo della società, per meglio dire, è determinato non soltanto dalle specifiche leggi inerenti alle sue singole formazioni, ma anche da leggi sociologiche generali che rispecchiano l'oggettivo nesso esistente tra le diverse formazioni economico-sociali e l'unità dell'intera storia umana. Anzi, si può senz'altro affermare che tutte le specifiche leggi delle varie formazioni non possono che agire sulla base di queste leggi più generali. Fintanto che un dato sistema di rapporti di produzione, in un modo o nell'altro, sa rispondere al carattere delle forze produttive della sua formazione, finquando cioè le esigenze della legge della necessaria corrispondenza dei rapporti di produzione al carattere delle forze produttive verranno esaudite dalla classe che è al potere, questa allora potrà utilizzare la suddetta legge a proprio vantaggio e nel proprio interesse. Ma appena tale corrispondenza dovesse essere violata o venire meno, in tal caso verrebbe a maturare la necessità di una sostituzione rivoluzionaria dei vecchi rapporti con altri e nuovi rapporti di produzione più conformi alle esigenze di questa legge. La borghesia, per esempio, quando compì le sue rivoluzioni inglese e francese dei secoli XVII e XVIII, di tale legge si valse senz'altro nell'interesse della società, ma soltanto nella misura in cui questo interesse della società poteva coincidere o corrispondere con gli interessi di classe della borghesia al potere. Per cui, inevitabilmente, una simile coincidenza - oltreché del tutto inadeguata e contraddittoria - non poteva che rivelarsi anche, sul piano storico, di breve durata. Per altro verso, invece, quando nell'antica Roma si iniziò la crisi della formazione schiavistica la classe dominante si provò ad uscirne cercando di adeguarsi alle nuove condizioni che allora andavano maturando all'interno della società. Più in particolare, il lavoro degli schiavi era allora diventato economicamente poco produttivo e - men che meno - redditizio, e inoltre esso non consentiva alcun perfezionamento tecnico di qualche rilievo. Per cui gli schiavisti cercarono essi stessi di passare ad una forma di produzione più progressiva e meglio conforme alle nuove esigenze, la quale venne trovata nel colonato. Il colono, pur essendo formalmente indipendente dal suo signore, era comunque obbligato a lavorare per lui e a pagargli una rendita. Ma a differenza dello schiavo, egli già poteva disporre di una sua economia e di una famiglia, mentre lo schiavo - ma soltanto a certe condizioni - poteva tutt'al più accrescere di poco la quota di prodotto spettante a lui e alla sua famiglia. All'allora livello delle forze produttive, dunque, la piccola economia del colono corrispondeva assai meglio che non i vasti latifondi basati sul lavoro schiavizzato, rappresentando essa, anche se solo in germe, l'inizio di un nuovo modo di produzione - di tipo feudale - cresciuto nelle viscere del sistema schiavistico. Pur con l'aiuto del colonato, tuttavia, agli schiavisti non riuscì di venir fuori dalla crisi in cui essi si dibattevano, dato che la sua efficacia economica era come paralizzata da altre tendenze proprie al modo di produzione schiavistico. Come Engels ha scritto, "la morente schiavitù aveva lasciato il suo aculeo velenoso nello spregio dei liberi verso un lavoro produttivo. Quello in cui cadde il mondo romano era un vicolo senza uscita: la schiavitù si era resa economicamente impossibile, mentre il lavoro dei liberi era ancora moralmente disprezzato". E gli stessi tentativi di frenare il degrado dell'economia mediante un nuovo asservimento dei coloni, peraltro duramente contrastato, non fecero che avvilire nuovamente questi ultimi alla loro precedente condizione di schiavi. Non restava, dunque, che un'unica e sola via di uscita: una radicale rivoluzione dei rapporti economici che li adeguasse al nuovo carattere delle forze produttive sulla base di un nuovo modo di produzione, di tipo feudale, che allora andava sorgendo dalla crisi del sistema schiavistico. Questa legge della necessaria corrispondenza, per la prima volta, venne scoperta nel secolo scorso dal genio di Karl Marx. E ciò nonostante, per parecchi secoli, gli uomini se n'erano valsi sulla sola base delle sue manifestazioni più immediate ed esteriori (ad essi, peraltro, ben note), ossia in un modo del tutto incosciente. Diverso è invece il discorso, come si sa, per quanto riguarda il moderno proletariato industriale, il quale - oltre che essere l'unica classe della storia i cui interessi si possano identificare con quelli della stragrande maggioranza della società - è anche vitalmente interessato alla conoscenza delle oggettive leggi dello sviluppo sociale. La vittoria della proprietà sociale, socialista, dei mezzi di produzione, infatti, ha posto la produzione materiale, e per la prima volta nella storia, sotto il cosciente controllo della società nella persona della classe, per l'appunto, che sola può rappresentarla nella sua generalità, la classe operaia. Non più dunque una cieca necessità di breve momento come per il passato, ma l'atto cosciente di una nuova umanità che, ormai infrante le catene della sua preistoria con l'arma della lotta di classe, si è resa infine padrona dei propri destini. Quest'articolo venne pubblicato sul n. 5 del 1954 della rivista "Voprosy Istorii". |