Non hanno avuto il coraggio di spazzar via interamente il "legittimo impedimento" La consulta dimezza lo scudo di Berlusconi Il premier soddisfatto ma si dichiara perseguitato giudiziario. La sentenza comunque non "influirà" sul governo Il 13 gennaio la Corte costituzionale ha emesso l'attesa sentenza sul "legittimo impedimento", l'ultima delle leggi ad personam che Berlusconi si è fatto votare lo scorso aprile per non presentarsi ai tre processi ancora pendenti al tribunale di Milano in cui è imputato per reati che vanno dalla corruzione alla frode fiscale e l'appropriazione indebita. Com'era nelle previsioni la sentenza è stata una soluzione di compromesso, che ha bocciato solo le parti più manifestamente anticostituzionali della legge ma ne ha salvato l'impianto complessivo, lasciando comunque al neoduce uno scudo giudiziario, per quanto dimezzato, e ai suoi avvocati maggiori margini di manovra rispetto alla vecchia normativa, che torneranno loro molto utili per opporre un'infinità di ostacoli alla convocazione dell'imputato premier alle udienze che lo riguardano. Da tempo era ormai chiaro che si sarebbe arrivati a un compromesso. Era già tutto chiaro fin da quando la Corte aveva deciso di rinviare di un mese l'esame della materia perché la sentenza sarebbe caduta altrimenti proprio in concomitanza con la votazione in parlamento sulla sfiducia al governo. Una decisione irrituale e senza precedenti, motivata con il clima politico "troppo surriscaldato", presa in evidente accordo con Napolitano, che nel frattempo aveva a sua volta rinviato di un mese il voto sulla sfiducia dando così tutto il tempo a Berlusconi di completare la sua campagna acquisti di parlamentari e di salvarsi in corner. Anche questa sentenza puzza lontano un miglio di intervento di Napolitano, che non perde occasione per far sapere che tiene più di tutto alla "stabilità" e alla prosecuzione della legislatura, e quindi del governo Berlusconi. E così è stato. La Consulta ha accolto infatti le istanze di anticostituzionalità al "legittimo impedimento" presentate dai PM milanesi per quanto riguarda l'"impegno continuativo" negli affari di governo a cui si poteva appellare il premier per poter rimandare le udienze fino a 6 mesi di fila, in quanto violava gli articoli 3 (tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge) e 138 (le modifiche alla Costituzione non si possono fare con leggi ordinarie). Per gli stessi motivi hanno bocciato anche la cosiddetta "autocertificazione", con la quale il premier e i suoi ministri potevano opporre insindacabilmente i loro "impegni di governo", anche "per le attività preparatorie e consequenziali, nonché comunque coessenziali alle funzioni di governo", per invocare il "legittimo impedimento" a presentarsi alle udienze senza alcuna possibilità di verificare la sussistenza reale di tali impegni da parte del giudice, che doveva limitarsi a prenderne semplicemente atto. Un cittadino diverso da tutti gli altri Ma si può dire che in questo modo i giudici dell'alta Corte hanno ripristinato le prerogative del giudice nel decidere la sussistenza o meno del "legittimo impedimento"? Non del tutto, e in ogni caso non esattamente come se la vergognosa legge ad personam fosse stata abrogata e la normativa precedente ripristinata. Questo coraggio i 15 giudici della Consulta non l'hanno avuto, ed hanno voluto salvare almeno il principio ispiratore della legge, facendo rientrare in qualche modo dalla finestra il concetto che il premier è comunque un cittadino diverso da tutti gli altri, ponendo così anche una pericolosa premessa per un nuovo lodo Alfano costituzionale. Ed è per questo che non hanno accolto la richiesta di cassare come anticostituzionale tutto l'articolo 1 della legge con l'elenco dei compiti del premier, compreso il passo furbesco sugli atti "preparatori", "consequenziali" o comunque "coessenziali" agli stessi, fatto apposta per includere di tutto e di più tra i motivi che possono "impedirgli" di presentarsi alle udienze. Non a caso la sentenza è stata approvata a larga maggioranza, con 12 voti a favore e solo 3 contrari. Il che significa che tolti i tre irriducibili sostenitori della piena legittimità del provvedimento, Mazzella, Napolitano e Finocchiaro (i primi due sono i giudici che parteciparono alla famosa cena con Berlusconi prima della sentenza sul lodo Alfano), altri quattro giudici di tendenze berlusconiane (Frigo) o dati per incerti (Maddalena, Grossi e Quaranta) hanno finito per trovare più che accettabile il compromesso che salva la Costituzione nella forma e il provvedimento nella sostanza. Facile immaginare come gli avvocati del neoduce sfrutteranno fino all'osso questa ciambella di salvataggio servita loro in extremis dalla Corte per frapporre una raffica di ostacoli alle convocazioni ai suoi processi. La ripristinata facoltà del giudice di decidere sulle loro istanze di "legittimo impedimento" è tale solo sulla carta: quale magistrato avrà infatti il coraggio di sindacare sulla praticamente illimitata casistica di motivi di "impedimento" che la sentenza della Consulta ha lasciato aperta? In ogni caso sarà materia per nuove controversie e rinvii utili a prolungare ulteriormente i processi e favorirne la decadenza per prescrizione. Dichiarazione di guerra alla magistratura Anche a prescindere da ciò i tre processi di Milano, quello Mills per corruzione in atti giudiziari, quello Mediaset per i diritti televisivi gonfiati (concorso in frode fiscale) e quello Mediatrade per frode fiscale e appropriazione indebita, sono considerati destinati praticamente alla prescrizione visti i tempi stretti rimasti per arrivare a sentenza definitiva di terzo grado. Figuriamoci con questa ulteriore arma che la Corte ha regalato al nuovo Mussolini per aggirare ancora una volta la giustizia. Non per nulla il neoduce, che sapeva benissimo che una legge così sfacciatamente anticostituzionale non avrebbe potuto passare indenne attraverso il vaglio della Consulta, e pur dichiarando perciò cupamente "non me l'aspettavo diversa", non ha tuttavia nascosto la sua soddisfazione aggiungendo che "non è stato demolito l'impianto del legittimo impedimento". Lo stesso hanno detto sia il suo gerarca alla Giustizia, Alfano ("siamo convinti che il principio di leale collaborazione spingerà i giudici a non tradire lo spirito di questa sentenza"), e i suoi avvocati Ghedini e Longo, che hanno difeso il provvedimento davanti alla Corte, dichiaratisi anch'essi "soddisfatti" perché "nel suo impianto generale la legge è riconosciuta valida". E a riprova di ciò essi si sono subito riservati di ricorrere alla stessa nel caso il neoduce decidesse di non presentarsi alla convocazione ricevuta dal PM Ilda Boccassini per il nuovo procedimento per sfruttamento della prostituzione minorile e concussione in ordine al caso "Ruby" scoppiato la scorsa estate. In ogni caso, parlando da Berlino alla vigilia della sentenza, il nuovo Mussolini aveva fatto sapere che essa "non metterà in pericolo la stabilità del governo". "Sono totalmente indifferente al fatto che ci possa essere un fermo o meno dei processi", aveva sentenziato con faccia di bronzo Berlusconi a proposito della sorte di un provvedimento "che non ho voluto io, ma i gruppi parlamentari". Dopodiché si era scagliato ancora una volta contro i magistrati, che a suo dire rappresentano "una patologia" ed "esorbitano dall'alveo costituzionale". Un'invettiva a cui ha fatto seguire dopo pochi giorni la sorda minaccia di una resa dei conti definitiva, giurando di fare al più presto la "riforma della giustizia", nel messaggio televisivo del 16 gennaio per "difendersi" dalle nuove infamanti accuse sui suoi festini porno nella villa di Arcore. 19 gennaio 2011 |