Come al tempo del regime dell'apartheid Massacro di minatori in Sudafrica La polizia del governo della "sinistra" borghese spara sugli operai: 34 morti, 78 feriti, 250 fermati Silenzio assordante di Mandela Il 16 agosto la polizia sudafricana ha aperto il fuoco su una folla di minatori in sciopero, nella miniera di platino di Marikana a un centinaio di chilometri a nord-ovest di Johannesburg di proprietà di una multinazionale britannica; un massacro con 34 lavoratori morti e 78 feriti, il più grave dalla fine del regime dell'apartheid. E proprio come al tempo del regime dell'apartheid il governo della "sinistra" borghese guidato dall'African National Congress (Anc) non ha esitato a inviare la polizia per reprimere una protesta operaia sfuggita al controllo del sindacato collaborazionista, la National Union of Mineworkers (Num), premessa del massacro. La vertenza alla miniera di Marikana era iniziata il 10 agosto quando i 3 mila addetti al lavoro più duro e pericoloso nei tunnel sotterranei, gli scavatori dei pozzi, e anche i quelli con i salari più bassi, sono scesi in sciopero chiedendo aumenti salariali. Una lotta incisiva tanto che i vertici dell'azienda mineraria, la Lonmin, erano costretti fermare l'intera miniera che impiega circa 28 mila addetti; la Lonmin definiva illegale lo sciopero perché non dichiarato attraverso le rappresentanze sindacali riconosciute, la Num ma da un'altra organizzazione sindacale, la Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu) che nel tempo si era conquistata la rappresentatività della maggioranza dei lavoratori. La compagnia mineraria Lonmin, terzo produttore mondiale di platino, ha sede legale a Londra ma è nata in Sudafrica negli anni '60, e con la fine dell'apartheid non ha cambiato sistema di gestione antioperaio tanto che lo scorso anno aveva licenziato 9.000 minatori in sciopero, poi riassunti solo in parte. Dichiarava "illegale" lo sciopero e chiedeva lo sgombero immediato dei picchetti operai che bloccavano la miniera. Un appello raccolto dai responsabili della polizia che il 16 agosto inviavano un contingente di 3.000 agenti, tra cui uomini dei reparti speciali antisommossa, con l'appoggio di elicotteri e mezzi blindati. Gli agenti si schieravano presso la miniera, a poca distanza da uno sperone roccioso occupato dai lavoratori in sciopero e, appena gruppi di scioperanti si sono mossi verso di loro, hanno aperto il fuoco con le mitragliette e causato il massacro. Il presidente del Sudafrica Jacob Zuma si è detto "scioccato" per l'episodio, ha ordinato l'apertura di un'inchiesta, e chiesto che la "disputa sia risolta attraverso il dialogo". Non una parola di condanna dell'operato della polizia. Stesso silenzio assordante da parte di Nelson Mandela per un massacro che ha richiamato i tempi dell'apartheid. Con tanto di copertura alle spalle è stato facile per il capo della polizia, la signora Riah Phidega, affermare che gli agenti si sono limitati a difendersi dai manifestanti che si stavano dirigendo verso di loro minacciosamente. Una versione smentita pochi giorni dopo dai risultati dell'autopsia dei cadaveri e dall'analisi delle ferite dei sopravvissuti che mostrano che quasi tutti sono stati colpiti alla schiena. La tesi era ripresa dalla pubblica accusa che il 30 agosto incriminava i 270 minatori arrestati dopo il massacro per la morte dei loro compagni in base a una norma della legge sudafricana, già in passato utilizzata contro i movimenti anti-apartheid, che stabilisce la corresponsabilità dei manifestanti nella morte di qualcuno se la polizia è costretta a intervenire con la forza per sciogliere manifestazioni. Una legge del regime dell'apartheid rimasta significativamente nell'ordinamento giudiziario del Sudafrica "democratico". Eppure sono 18 gli anni di governo dell'Anc, della presidenza di Nelson Mandela e dei suoi successori fino all'attuale Jacob Zuma. Cancellato formalmente il regime dell'apartheid, e persi per strada obiettivi quali tra gli altri la nazionalizzazione delle miniere, è rimasto il sistema capitalista che l'aveva generato e con in governi della "sinistra"borghese dell'Anc a gestire il sistema politico a favore delle multinazionali imperialiste e dei capitalisti "bianchi". Coloro che hanno goduto i risultati di un decennio di crescita economica che ha proiettato il Sudafrica, unico paese africano, nel club dei Brics, il ristretto gruppo delle potenze economiche mondiali emergenti con Brasile, Russia, India e Cina. Secondo un istituto di ricerca sudafricano, il reddito personale procapite dei sudafricani bianchi, che sono meno del 10% del totale, è 8 volte superiore di quello dei sudafricani neri. Nel 2011 il Sudafrica ha superato il Brasile come la società più diseguale del mondo, nella quale il gap fra i più ricchi e i più poveri è il più alto in assoluto; la distribuzione della ricchezza non è molto cambiata dalla fine dell'apartheid e il 40% dei circa 50 milioni di sudafricani vive con meno di 2,50 dollari al giorno. Povertà, disuguaglianza sociale e disoccupazione sono le piaghe che dilagano nelle baraccopoli sudafricane, financo in quelle che circondano le miniere e dove vivono gran parte dei lavoratori che non possono permettersi una casa decente. Da questa situazione, con la richiesta di aumenti salariali, era partito lo sciopero della miniera di Marikana, una lotta che è proseguita anche dopo il massacro. E che dopo il 22 agosto si è allargata alle miniere di Rasimone e a altre dove i lavoratori hanno incrociato le braccia chiedendo aumenti salariali. Sangue, sudore e miseria: ecco che cos'è il capitalismo per la classe operaia, qualunque sia chi lo governa. 5 settembre 2012 |