Il vertice dell'eurogruppo adotta un piano in sei punti che prevede garanzie statali sui prestiti interbancari Le misure Ue non frenano il crollo delle Borse, dell'economia reale e dei consumi Insieme alla recessione la crisi porta licenziamenti e chiusura di fabbriche No al governo mondiale dell'economia invocato dalla UE Le decisioni adottate dal vertice di Parigi del 12 ottobre dei paesi dell'Eurogruppo, cioè il gruppo ristretto delle 15 nazioni Ue aderenti all'economia dell'euro, ha portato solo un sollievo parziale e precario alla devastante crisi finanziaria che partita da Wall Street ha investito ormai in pieno anche l'Europa. L'obiettivo immediato era in primo luogo quello di fronteggiare la paralisi creditizia che ha colpito le banche europee, che non si prestano nemmeno i soldi tra di loro per paura di insolvenze e tantomeno lo concedono alle imprese, rischiando così che la crisi finanziaria si trasferisca direttamente all'economia "reale" provocando un collasso generale. In secondo luogo e in immediata connessione col primo punto c'era l'esigenza di fissare un piano di interventi concordato, anche se le modalità di applicazione erano a discrezione dei singoli governi, per prevenire i fallimenti delle principali banche europee, tutelare i depositi e rassicurare i mercati. I due punti principali tra i sei del piano adottato a Parigi riguardano le garanzie statali sui prestiti interbancari e le ricapitalizzazioni delle banche in difficoltà. Cifre non ne sono state fatte, anche perché a deciderle saranno i singoli governi, ma si è parlato di un intervento colossale, complessivamente 2.400 miliardi di dollari, il triplo di quello del governo Usa. Alla riapertura delle Borse, il giorno dopo il vertice, le decisioni prese dai leader europei dell'euro sembravano aver ottenuto un grande effetto, provocando una reazione addirittura "euforica" dopo una "settimana nera" tra le peggiori degli ultimi decenni, con "rimbalzi" anche del 10-11%, sia in Europa che oltreoceano, tanto da far tirare un respiro di sollievo e suscitare previsioni ottimistiche sull'inversione di tendenza della crisi a più di un osservatore. Ma l'ottimismo è durato solo lo spazio di un giorno, perché già da martedì 14 è ricominciata l'altalena dei titoli, che si è protratta per tutta la settimana, con perdite cospicue degli indici in tutte le Borse mondiali, e anche se non si è ripetuta l'ondata di panico della settimana precedente sono ancora l'incertezza e il pessimismo a farla da padroni nei mercati finanziari. Il fatto è che la crisi non è "soltanto" di natura finanziara, ma sta emergendo sempre più il suo carattere strutturale, legato non soltanto alla "economia di carta" ma anche a quella "reale", cioè della produzione e del consumo di beni materiali. Ormai tutti gli osservatori sono concordi nel preannunciare una terribile e devastante recessione mondiale. Le opinioni divergono solo su "quanto" devastante sarà e su quanto durerà. Si parla comunque non di mesi, ma di anni. Alcuni economisti si spingono a fare paragoni con quella subita dal Giappone dopo il crollo dei mercati immobiliare e azionario, che è durata un decennio. Per non parlare dei più pessimisti tra gli stessi "esperti" borghesi, che spingono il paragone fino alla grande depressione degli anni '30 che seguì al crac finanziario del 1929. Le stesse misure "stataliste" adottate dal governo inglese e a seguire dagli altri governi europei, e perfino in una certa misura dal governo americano, che ora sta considerando l'idea di entrare anch'esso nel capitale delle grandi banche e non limitarsi solo a rilevarne i titoli-spazzatura, ricalcano quelle adottate negli anni '30. Che in Italia culminarono con la creazione dell'Imi e dell'Iri da parte del regime fascista per salvare le banche e le industrie nazionali. "In tempi normali - ha dovuto giustificarsi a malincuore Bush per la decisione del Tesoro Usa di entrare nel capitale delle banche - mi sarei opposto perché credo nel libero mercato. Ma questi non sono affatto tempi normali". Lo stesso ha fatto scimmiottandolo il neoduce Berlusconi, che per giustificare la sua proposta di concedere sovvenzioni pubbliche alle imprese, a cominciare dalla Fiat, ha sentenziato: "L'aiuto di Stato fino a ieri era peccato, oggi è un imperativo categorico". Crisi anche nella "economia reale" Non si tratta solo di previsioni pessimistiche. La crisi recessiva è già in atto, negli Usa come in Europa. Era già cominciata prima che si scatenasse l'attuale tempesta finanziaria, e questa non potrà che accelerarla e aggravarla. È questa consapevolezza che deprime i mercati finanziari, vanificando in gran parte e in partenza tutti gli enormi sforzi dei governi già messi in atto o annunciati. Secondo un recente rapporto della Banca d'Italia anche nel nostro paese tutti gli indicatori economici stanno marciando verso livelli preoccupanti. Il Pil è già sceso dello 0,3% nel secondo trimestre, annullando la leggera "ripresina" di inizio anno, e si prospetta un "sostanziale ristagno" anche per il resto dell'anno. Per il 2009, nonostante l'ottimismo ostentato da Tremonti che prevede una rimonta sia pure contenuta, ci si rifa al Fmi che prevede invece una vera e propria crescita negativa. Sempre nel secondo trimestre è cresciuto l'indebitamento delle famiglie e i consumi sono scesi dello 0,2% (-0,3% in tutto il semestre), gli investimenti fissi lordi dello 0,2, l'export dello 0,7, la produzione industriale dello 0,5% nel terzo trimestre e dell'1% nel solo mese di settembre, e tra le persone in cerca di occupazione cresce la quota di quelle che hanno perso il lavoro, soprattutto al Centro-Nord. Ma per l'industria italiana la situazione è se possibile ancora più preoccupante: infatti secondo l'Istat ad agosto il fatturato è crollato dell'11% e anche scontando l'effetto stagionale gli ordinativi sono scesi di un secco 5,2%, senza contare che bisogna risalire al 1991 per ritrovare un crollo del fatturato industriale di tali dimensioni. La causa principale è nella crisi dell'auto, che registra un crollo record del fatturato di ben il 32,7% rispetto al 2007. Ma è l'intera produzione industriale a soffrire un calo consistente del fatturato, pari al 14,3% (- 23,8% quella dei beni durevoli), mentre il deficit commerciale con l'estero è risalito a 2,1 miliardi di euro. La Confcommercio ha segnalato che il 2008 si chiuderà con un calo dei consumi dello 0,7%, il livello più basso dal 1993 e uno dei peggiori degli ultimi quarant'anni. E tutti questi dati negativi si riferiscono a periodi precedenti la tempesta finanziaria. Non a caso la Confindustria è tornata a battere cassa chiedendo interventi statali anche a favore delle industrie, magari sotto forma di altri sgravi fiscali. L'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in un intervento alla giunta straordinaria della Confindustria, ha detto che il settore dell'auto "non può essere lasciato solo in un momento in cui si trova a dover affrontare sfide così importanti". Un'invocazione che, come si è visto sopra, ha trovato orecchie sensibili nel neoduce Berlusconi, che come Mussolini e con la passiva acquiescenza della "sinistra" borghese, si atteggia a salvatore della finanza e dell'industria nazionali promettendo "aiuti" a fondo perduto e a spese della collettività sull'esempio del modello Alitalia. Consapevoli dell'incerto effetto delle misure varate al vertice di Parigi del 12 ottobre, nella successiva riunione di Bruxelles del Consiglio europeo dei 27 paesi della Ue che le ha ratificate i leader europei hanno cercato di lanciare segnali politici che prefigurano interventi più strutturali e duraturi nel governo della finanza mondiale, auspicando "una riforma reale e completa del sistema finanziario internazionale, fondato sui principi di trasparenza, di solidità bancaria, di responsabilità e di integrità". Dopo le dichiarazioni di Sarkozy e di Berlusconi (che ne rivendica la precedenza) su una "nuova Bretton Woods" per riscrivere le regole della finanza internazionale, anche il premier britannico Gordon Brown si è fatto interprete e anzi leader di questa linea di una "governance mondiale" dell'economia. "Riscrivere le regole del capitalismo globale" A questo scopo Brown ha proposto un piano il cui primo passo sarebbe creare entro l'anno un collegio internazionale di supervisori che metta sotto controllo le 30 maggiori società finanziarie mondiali, e a gestire questo piano sarebbe chiamato lo stesso Fmi, che in questo modo sarebbe promosso al ruolo di una sorta di "governo mondiale dell'economia" capitalistica. D'accordo con Sarkozy ha proposto un summit mondiale del G8 allargato ad altre potenze emergenti, tra cui Cina, India e Brasile, da tenersi al più presto a New York. Cosa che Sarkozy e il presidente della Commissione europea Barroso sono andati a chiedere direttamente a Bush, ricevendone un consenso non troppo entusiastico. Per la Casa Bianca gli obiettivi del summit dovrebbero infatti limitarsi a suggerire contromisure per evitare il ripetersi di catastrofi finanziarie e tutelare la libertà dei mercati. La "governance" deve rimanere ancora nelle mani della superpotenza Usa, del dollaro e di Wall Street, come stabilito nell'accordo del 1944. Anche se il Consiglio europeo, nel frattempo, aveva ridimensionato le proposte di Brown e Sarkozy su una "nuova Bretton Woods", accantonando l'idea del regolatore unico dei mercati e limitandosi ad approvare la costituzione di una "cellula di crisi" da attivare in caso di altri crac finanziari, i leader di Francia e Gran Bretagna non hanno abbandonato l'idea di un "governo dell'economia mondiale" capitalistica: "L'Europa lo chiede e lo otterrà", ha detto Sarkozy pur cedendo per il momento il passo alle divisioni emerse tra i 27 sull'argomento. La superpotenza europea capisce che gli equilibri imperialistici mondiali non saranno più gli stessi dopo questa crisi epocale e cerca di approfittarne per ridisegnarli a proprio vantaggio. Anche a prescindere dalla sua inattuabilità, perché pretende di mettere "regole" a un sistema fondato sulla legge della giungla, sull'individualismo e sul massimo profitto, si tratterebbe comunque di un "governo mondiale" con l'obiettivo di rafforzare e perpetuare l'economia capitalistica nel mondo, sia pure attraverso una "governance" meno unipolare come quella attuale dominata dagli Usa. Un altro inganno imperialista per turlupinare i popoli che va recisamente respinto, e non certo invocato come fa la "sinistra" borghese coltivando l'illusione di una "umanizzazione" del capitalismo. 22 ottobre 2008 |