Nella bozza di decreto sulle liberalizzazioni che sta per essere varato dal governo Monti Le manovre del governo per cancellare l'art. 18 Estensione dei contratti in deroga anche nel trasporto ferroviario. Via alla privatizzazione dei servizi pubblici locali. Aggirato il referendum sull'acqua Monti va abbattuto dalla piazza prima che completi la macelleria sociale "Una rivoluzione per decreto": questa la definizione con cui il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, ha annunciato il pacchetto delle liberalizzazioni ad una settimana dalla sua approvazione nel prossimo Consiglio dei ministri del 20 gennaio. Una definizione che la dice lunga sul merito e sul metodo del provvedimento che il governo Monti si appresta a varare, mirante a rivoltare come guanti interi settori del commercio e dei servizi pubblici e privati per aprirli completamente alle leggi del mercato e del profitto capitalistici, e per di più attraverso un atto di forza che viola la Costituzione. L'art. 75, infatti, stabilisce che i decreti non possono avere valore di legge ordinari e vieta al governo di ricorrervi se non "in casi straordinari di necessità e urgenza". Questo invece viene adottato senza aver neanche ascoltato le ragioni delle categorie professionali e dei cittadini coinvolti da un provvedimento così radicale e improvviso. A preparare il terreno all'accelerazione del governo ha provveduto una relazione compiacente del presidente dell'Antitrust, Giovanni Pitruzzella, che il 5 gennaio ha fornito all'esecutivo un elenco di settori e di servizi su cui concentrare la sua furia liberalizzatrice: dall'energia (Eni, Enel, distributori di carburanti), ai trasporti (ferrovie, autostrade, taxi), dalle poste ai servizi locali (municipalizzate di acqua, gas, trasporti, ciclo dei rifiuti), dal commercio (negozi e farmacie) agli ordini professionali (avvocati, notai, architetti, ingegneri ecc.). E per ognuno di questi settori erano indicate anche varie proposte di intervento, come per esempio la liberalizzazione dell'apertura di nuovi impianti di distribuzione di carburante, anche automatizzati e multimarca, l'abolizione di ogni vincolo all'apertura di nuovi esercizi commerciali e alle svendite senza limiti temporali e di settore, la moltiplicazione delle farmacie e la vendita dei medicinali di fascia C anche nelle parafarmacie, l'aumento delle licenze dei taxi, l'obbligo per i comuni di procedere alla privatizzazione dei servizi locali, una società separata per Bancoposta con la riduzione del servizio postale pubblico ai soli servizi essenziali non copribili dal servizio privato, lo scorporo della rete ferroviaria dalle ferrovie dello Stato e apertura totale ai soggetti privati, anche per i treni locali (modello inglese che ha dato risultati disastrosi), l'abolizione delle tariffe minime degli ordini professionali, e così via. Gli obiettivi antioperai e liberistici del decreto in preparazione È sulla base di questo pacchetto di proposte che l'11 gennaio il governo ha fatto circolare una prima bozza di decreto sulle liberalizzazioni, con l'evidente intento di saggiare il terreno alle reazioni dei soggetti coinvolti e dell'opinione pubblica. Una bozza di decreto in 28 articoli che dietro formulazioni estremamente complesse e tecnicistiche delinea una ben precisa e calcolata strategia: quella dell'attacco ai diritti e alle conquiste dei lavoratori e della liberalizzazione e privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici. Basti pensare, per esempio, all'inserimento nell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori di un comma, il comma 1 bis, che così recita: "In caso di incorporazione o di fusione di due o più imprese che occupano alle proprie dipendenze alla data del 21 gennaio 2012 un numero di prestatori d'opera pari o inferiore a quindici, il numero di prestatori di cui al comma precedente è elevato a cinquanta". E il comma precedente, il n. 1 all'art. 18 della legge 300 del 1970, è proprio quello che obbliga le aziende sopra 15 dipendenti a riassumere il dipendente licenziato senza giusta causa. Così, con un trucco vergognoso come i tanti a cui ci avevano abituato Berlusconi e i suoi tirapiedi, il governo degli "austeri professori", ha pensato bene di fregare lavoratori e sindacati estendendo surrettiziamente da 15 a 50 il numero di dipendenti per l'applicabilità dell'art. 18: lo stesso che la ministra Fornero aveva "promesso" di accantonare in questa fase degli incontri separati con le segreterie sindacali sulla "riforma del mercato del lavoro". Con questo espediente il governo mira evidentemente a concedere una sorta di "sanatoria" a quelle aziende che per non applicare l'art.18 e avere mano libera nei licenziamenti si sono strutturate in due o più aziende sotto i 15 dipendenti ma collegate fra di loro. In questo modo potranno tornare a formare un'unica azienda più grande senza obbligo di dover rispettare lo Statuto dei lavoratori. Addirittura verrebbero ad acquisire un vantaggio rispetto alle altre che già avevano un numero di dipendenti compreso tra 15 e 50, che resterebbero invece soggette allo Statuto. Un'assurdità giuridica, come quella del resto che si produrrebbe nel caso di un'azienda di poniamo 30 dipendenti, e quindi soggetta all'art. 18, che ne acquisisca un'altra di poniamo 10: i 30 lavoratori dell'azienda incorporante perderebbero allora il diritto acquisito alla giusta causa? Tutto ciò non potrebbe che aprire dei contenziosi che è facile intuire finirebbero per spianare solo la strada alla solita equiparazione al livello più basso: l'abolizione dell'art. 18 per tutti i lavoratori indistintamente. Per il momento i sindacati confederali, nella ritrovata unità d'azione, hanno detto di no. Raffaele Bonanni per la CISL ha detto: "L'articolo 18 non va modificato. Come abbiamo detto in più occasioni, non è stato oggetto di trattativa con il ministro del Lavoro, Fornero. È davvero singolare ritrovare ora questo tema in una bozza di provvedimento sulle liberalizzazioni". Luigi Angeletti per la UIL ha affermato che: "Non vedo francamente alcun disastro per nessuno avere l'articolo 18 così com'è. Ci sono anche altri paesi europei in cui è previsto il reintegro". Mentre per la CGIL, Fulvio Fammoni, rispondendo anche alla Marcegaglia che considera l'articolo 18 una "anomalia tutta italiana", ha precisato che: "L'Ocse segnala che la rigidità in uscita colloca l'Italia al di sotto della media europea e che il nostro paese non costituisce affatto un caso anomalo". L'analisi comparata "evidenzia come la tutela fondata sul reintegro, in caso di licenziamento illegittimo non rappresenti affatto una anomalia del nostro ordinamento". Ma basteranno solo le parole a convincere il governo Monti a fare marcia indietro e a cancellare questa norma dal decreto per le liberalizzazioni? I vertici sindacali confederali terranno la posizione di difesa intransigente dell'articolo 18? Noi abbiamo forti dubbi che ciò avvenga per davvero, tenuto conto che CGIL, CISL e UIL chiedono al governo di condividere un nuovo "patto sociale" sui temi del "mercato del lavoro", precariato e occupazione giovanile,e per questo stanno elaborando una piattaforma unitaria, per il raggiungimento del quale potrebbe rispuntare la trattativa sulle modifiche dell'articolo 18. Contro il governo Monti e la sua politica di devastazione dei diritti dei lavoratori e di impoverimento delle masse popolari occorre viceversa una lotta dura, di massa e di piazza. Al CC del 10 gennaio la sinistra della Fiom ha chiesto a gran voce lo sciopero generale contro la politica antioperaia e antipopolare del governo Monti. E in questo senso si sta muovendo l'Unione sindacale di base (USB) che per il 27 gennaio prossimo ha indetto lo sciopero generale con manifestazione nazionale a Roma "non soltanto utile per dimostrare dissenso - si legge in una nota - ma indispensabile per iniziare a bloccare un processo che se non ostacolato, ridurrà milioni di italiani in vera e propria povertà". Monti come Marchionne, Sacconi e Berlusconi Forse neanche l'ex ministro Sacconi, che pure di porcate contro i lavoratori ne ha fatte tante, ultima quella dell'art. 8 della manovra di agosto che ha legalizzato i contratti aziendali in deroga alla Marchionne, avrebbe avuto l'ardire di spingersi fino a questo punto. Se lo ha potuto fare il governo Monti è proprio perché gode di un sostegno politico senza precedenti, che va dalla grande finanza internazionale e dalla UE, a Napolitano e a quasi l'intero perlamento. E perché anche per questo odioso colpo di mano ha avuto la copertura del liberale Bersani, che ha tentato di dribblare l'imbarazzante argomento con questa vergognosa motivazione: " Non ragiono su bozze, se no ci sono solo discussioni virtuali che creano solo agitazione". Ciononostante, di fronte alle reazioni indignate di parte sindacale, stavolta anche abbastanza univoche tra le tre confederazioni, Monti ha poi dovuto correggere il tiro e assicurare che l'argomento non farà parte del decreto sulle liberalizzazioni. Ma ammesso che mantenga questo vago impegno, il fatto che ci abbia provato con tanta sfacciata arroganza fa capire che quello dell'abolizione dell'art. 18 è diventato un suo chiodo fisso da realizzare in ogni modo e con qualsiasi mezzo. Anche se più dissimulata dietro lo stile anglosassone, la sua insofferenza per il rispetto dei diritti dei lavoratori e per tutto ciò che si frappone alla libertà di mercato e di impresa non è inferiore a quelle del nuovo Valletta, Marchionne, e dello stesso neoduce Berlusconi. Lo dimostra anche un'altra clausola fortemente antisindacale che ha voluto inserire nella bozza di decreto: l'art. 24 che elimina l'obbligo di applicare i contratti collettivi nazionali di settore nel trasporto ferroviario. Quello cioè che in sostanza estende l'applicazione dell'art. 8 della manovra estiva (contratti aziendali in deroga a quelli nazionali e alle disposizioni di legge) anche ai contratti nel trasporto ferroviario. Al contrario del favore fatto alla Fiat di Marchionne, retrocedendo addirittura la validità dell'art. 8 per includere gli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori, Sacconi aveva escluso le ferrovie per non agevolare Montezemolo e Della Valle, rivali di Berlusconi, che stavano per entrare in campo con la loro nuova compagnia di treni veloci NTV. Adesso Monti ha eliminato anche questo residuo ostacolo al suo progetto di scorporo della rete ferroviaria per procedere alla piena privatizzazione del trasporto, consentendo sia a Trenitalia, che a NTV o a qualsiasi altro soggetto privato, di godere appieno dei vantaggi dei contratti in deroga secondo il modello Sacconi-Marchionne. Aggirato il risultato dei referendum sull'acqua Quanto alle liberalizzazioni vere e proprie il cuore della bozza di decreto è costituito dagli articoli 18, 19 e 20, che riguardano la gestione dei servizi pubblici. I primi due sanciscono e rinforzano la reintroduzione sotto altra veste dell'art. 23 bis della legge Ronchi sulla privatizzazione dei servizi locali, che era decaduto teoricamente con il referendum sull'acqua dello scorso giugno; articolo che invece era stato ripescato dal governo Berlusconi con la manovra di ferragosto e riapplicato pari pari a tutti i servizi pubblici locali (trasporto locale, ciclo dei rifiuti), "escluso" l'acqua: una furbata, ma anche un chiaro abuso anticostituzionale, perché il referendum lo aveva fatto decadere per tutti i servizi pubblici, e non solo per l'acqua. Ora il governo Monti, ben consapevole della debolezza giuridica di quella operazione, lo ha reinserito nella bozza di decreto ma cercando di camuffarlo meglio con formulazioni "tecniche" più complesse e sfuggenti da poter essere contestate direttamente, e per di più estendendolo anche all'acqua attraverso opportune pezze d'appoggio. A supporto dell'operazione di ripescaggio dell'abrogata legge Ronchi il governo Berlusconi si era avvalso dei consigli del docente di diritto pubblico Giulio Napolitano, figlio del capo dello Stato, che in un rapporto commissionatogli dalla romana Acea a sostegno della continuità del processo di privatizzazione dell'acqua della capitale, iniziata nel 1998 da Rutelli e portata avanti da Veltroni e Alemanno, assicurava che malgrado il referendum "l'intera materia dei servizi pubblici (...) rimane disciplinata dal testo unico sugli enti locali". Ed è proprio a questo studio che si rifà anche l'art. 20 della bozza di decreto sulle liberalizzazioni, con una modifica ad un articolo del testo unico sugli enti locali che esclude dalla gestione pubblica (cioè gli enti non economici come le aziende speciali e i consorzi) i "servizi di interesse economico generale", acqua compresa. Potranno gestirli infatti solo le società per azioni, preferibilmente a capitale privato, tramite gara, e i comuni in difficoltà avranno l'obbligo di vendere le loro quote prima di chiedere l'aiuto dello Stato. È proprio vero: il governo Monti è nato per portare avanti la stessa politica liberistica, antioperaia e privatizzatrice dello screditato governo Berlusconi, ma con un consenso politico, mediatico e internazionale senza confronti, che lo incoraggia a spingersi fin dove lo stesso nuovo Mussolini non era ancora riuscito ad arrivare. Esso va quindi abbattuto al più presto con la lotta di piazza, prima che completi del tutto il massacro sociale avviato dal suo predecessore nonché suo principale azionista della maggioranza. 18 gennaio 2012 |