Per favoreggiamento a "Cosa nostra" IL CAPO DEL SISDE A PROCESSO Il generale Mori e il colonnello De Caprio non perquisirono il covo di Riina dopo l'arresto FINI INDIGNATO COI MAGISTRATI. PILATESCA POSIZIONE DEL 'CENTRO-SINISTRA' Con l'accusa di "favoreggiamento aggravato a Cosa nostra" il 18 febbraio il giudice per l'udienza preliminare del tribunale di Palermo, Marco Mazzeo, ha rinviato a giudizio il prefetto Mario Mori, ex capo dei Ros dei carabinieri e attuale direttore del Sisde, e il tenente colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, conosciuto in passato col nome in codice di "capitano Ultimo". Dal prossimo 7 aprile Mori e De Caprio saranno alla sbarra e dovranno spiegare perché fecero di tutto per impedire la perquisizione e la messa sotto controllo del covo del boss mafioso Totò Riina subito dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio del 1993. Il Gup ha disposto il rinvio a giudizio nonostante che i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Michele Prestipino nell'udienza preliminare del 3 febbraio scorso avessero chiesto il proscioglimento degli imputati "perché il fatto non costituisce reato". Secondo i pm mancherebbe l'elemento psicologico del reato. Ovvero, l'allora capo del Ros e il "capitano Ultimo" non perquisendo il covo di Riina certamente non hanno voluto favorire "Cosa nostra". Sarebbe stato - è questa la tesi della Procura - più che altro un errore dovuto a una semplice incomprensione fra Procura e carabinieri. In subordine, i pm avevano chiesto che fosse dichiarata la prescrizione, perché si tratterebbe di un favoreggiamento semplice. Una tesi che evidentemente non ha convinto il Gup e che se fosse stata accolta avrebbe lasciato senza risposta gli inquietanti retroscena che da 12 anni avvolgono in un fitto mistero le fasi salienti dell'arresto del boss dei boss. La decisione del Gup ha scatenato "l'indignazione più profonda" del caporione fascista Gianfranco Fini che in una nota ha espresso "piena solidarietà" nei confronti di Mori e ha definito "scandaloso" l'operato dei magistrati. Al suo fianco, in polemica contro la decisione del Gup, si è schierato tutto lo stato maggiore della Casa del fascio con alla testa il ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri che ha chiesto al vicepresidente del Csm di intervenire con una posizione "palese e ufficiale" perché ciò che è capitato a Palermo "è incredibile". Mentre Sandro Bondi, coordinatore di FI ha rincarato la dose minacciando che questo rinvio a giudizio "pone ormai un problema che la stessa sinistra non può più ignorare, e cioè il divario crescente fra il sentimento generale di giustizia dell'opinione pubblica e le decisioni di alcuni magistrati". "Se non si porrà rimedio - avverte Bondi - la sfiducia dei cittadini nei confronti di chi amministra la giustizia si trasformerà in ribellione critica". Il portavoce di AN Mario Landolfi parla di "un atto di malsano protagonismo giudiziario" e il presidente della commissione esteri della Camera, Gustavo Selva (AN), di "inaccettabile sentenza". Il sottosegretario alla Difesa Francesco Bosi (UDC) esprime solidarietà "incondizionata" a Mori "una delle più eminenti personalità del nostro Paese per gli alti meriti conseguiti nella lotta alla mafia". Una vicenda incredibile che non diminuisce i suoi meriti e non incrina il rapporto con le istituzioni. "La frattura fra sistema giudiziario ed opinione pubblica - sottolinea il ministro per i Rapporti con il parlamento Carlo Giovanardi (UDC) - rischia di approfondirsi sempre di più davanti a decisioni incomprensibili come quelle di Palermo, dove due ufficiali dei carabinieri sono stati rinviati a giudizio addirittura con il parere contrario della pubblica accusa". A dir poco pilatesca è stata invece la reazione del "centro-sinistra" che invece di difendere il lavoro della magistratura e di chiedere che finalmente venga fatta piena luce su una delle vicende più inquietanti che conferma la simbiosi fra Stato e mafia, si è limitato a un laconico "No comment" da parte del leader della Margherita Francesco Rutelli che ha detto: "Non vorrei pronunciarmi, è una materia delicata". Sulla stessa lunghezza d'onda le parole del presidente del Copaco (Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti) Enzo Bianco, che non ha voluto commentare la decisione del Gup, ma ha definito Mori un "servitore dello Stato di stampo antico" e ricorda che il Comitato ha più volte "in modo unanime espresso pieno apprezzamento" al prefetto. OMBRE INQUIETANTI SULLA MANCATA PERQUISIZIONE DEL COVO DI RIINA Fin dall'inizio l'inquietante storia della mancata perquisizione del covo di Salvatore Rina ha destato molti sospetti. Primo fra tutti l'ipotesi concreta di una trattativa sottobanco fra lo Stato e la mafia iniziata nella primavera del 1992 e conclusasi quasi un anno dopo con l'arresto di Riina. Il sospetto, come si evince chiaramente dai fatti e dai retroscena che hanno caratterizzato l'operazione, è che "Cosa nostra" ha "venduto" Riina allo Stato in cambio di una nuova stagione di impunità. I fatti ci dicono che il 15 gennaio '93 è il giorno della cattura di Riina, ma è anche quello dell'insediamento, alla guida della Procura di Palermo, di Gian Carlo Caselli, il quale nutre completa fiducia nei confronti degli ufficiali del Ros, il reparto scelto dei carabinieri, e in particolare nei confronti di Mario Mori, all'epoca vicecomandante del Ros. I due si conoscono dai tempi dell'antiterrorismo e la loro stima è reciproca e più volte pubblicamente palesata. I primi sospetti cominciano poche ore dopo l'annuncio dell'arresto di Totò Riina, avvenuto sulla rotonda della circonvallazione di Palermo mentre era in compagnia del suo autista Salvatore Biondino. L'operazione è condotta dai militari del Ros guidati dal maggiore Sergio De Caprio "Ultimo". Quella mattina, la caserma Bonsignore di Palermo, dove nel frattempo è stato tradotto Riina diventa nel volgere di pochi minuti la meta di decine e decine di carabinieri e magistrati. è lì, in quella caserma, che ha luogo la conferenza stampa per illustrare il "grande evento". C'è Caselli, c'è Mori, e c'è anche il colonnello Giorgio Cancellieri, comandante dei carabinieri della Regione Sicilia. Sarà Cancellieri, a nome dell'Arma, a offrire alla gran folla di giornalisti e cine-operatori, le prime sommarie ricostruzioni dell'accaduto, a mostrare la foto del boss la cui faccia sino a quel momento era sconosciuta. Intanto, nel cortile, un'autocolonna di mezzi blindati ha già i motori accesi. Cancellieri ai suoi sottoposti (colonnelli, maggiori e capitani) ha dato l'ordine - secondo prassi - di procedere all'immediata perquisizione del covo di via Bernini, quello in cui Riina si trovava sino a pochi minuti prima del suo arresto. Viene designato il magistrato che coordinerà le operazioni: Luigi Patronaggio, sostituto di Caselli, che era di turno il 15 gennaio. L'operazione prevista non era semplice, visto che il covo di Riina si trovava all'interno di un residence, e non essendo stato ancora individuato, si imponeva la messa sotto osservazione di un'intera area. Ma quell'autocolonna non partì mai. Sopraggiungono infatti gli alti ufficiali del Ros e il maggiore De Caprio. Rendendosi conto che i colleghi della "territoriale" stanno per mettersi in movimento per la perquisizione, raggiungono la sala mensa del circolo ufficiali dove, a conferenza stampa finita, è in corso un pranzo fra carabinieri, compreso Mori, e magistrati, incluso Caselli. De Caprio - come successivamente scriverà il procuratore reggente Vittorio Aliquò - "manifesta tutto il suo disappunto" per quella decisione. Mori, nella conversazione che si accende a tavola, interviene dicendo che De Caprio ha ragione e che anche lui propende per non perquisire nulla. Da questo momento in avanti, iniziano le divergenze di interpretazioni su quanto effettivamente detto durante il pranzo dai protagonisti. Secondo il Ros, per De Caprio la perquisizione era inutile in quanto Riina non si nascondeva in un "covo" operativo, bensì in una casa insieme alla famiglia. Era quindi da escludere che potesse tenere con sé materiale interessante per gli investigatori e compromettente per "Cosa nostra". Infine, De Caprio - sempre secondo le testimonianze degli ufficiali del Ros - sollecitò altre indagini per individuare il "vero covo" che a suo giudizio non poteva essere quello di Via Bernini. Radicalmente opposta risulta invece la testimonianza degli ufficiali che si stavano recando in via Bernini. Il capitano Domenico Balsamo e il capitano Marco Minicucci, comandati dal colonnello Domenico Cagnazzo, hanno riferito di avere capito tutti la stessa cosa. Cioè di non dare seguito alla perquisizione del covo in quanto Mori e De Caprio avevano esplicitamente assicurato che l'attività di osservazione sarebbe comunque proseguita. Non si escludeva infatti che altri mafiosi, convinti che Riina fosse stato arrestato sulla circonvallazione e con gli investigatori all'oscuro dell'esistenza del covo, potessero nelle ore e nei giorni successivi tornare a frequentare quel luogo. E che proprio De Caprio avesse affermato di avere arrestato Riina "fuori zona" proprio per non bruciare il covo di via Bernini. Così ognuno se ne andò via convinto che il "dibattito" si fosse risolto con un punto di accordo. In realtà, accadde un'altra cosa. Sin dalla mattinata, il Ros aveva definitivamente ritirato tutti i suoi uomini da via Bernini. E già alle 16 del pomeriggio del 15 gennaio, mentre quel pranzo ormai era praticamente finito, in via Bernini non c'è più alcuna presenza dello Stato, né fisica (i militari), né virtuale (le telecamere). Persino il piantone che si trovava nel furgone dov'era nascosto il pentito Balduccio Di Maggio, che aveva consentito il riconoscimento di Totò Riina quando era uscito a bordo della macchina guidata da Salvatore Biondino, riceve l'ordine di lasciare il campo. Ma tutto questo si sarebbe saputo solo molti giorni dopo. Ora la storia si sposta negli uffici degli alti comandi della lotta alla mafia. Caselli, forse intuendo qualcosa, chiede al collega Aliquò (reggente dell'ufficio sino al giorno della sua nomina a capo della Procura) di scrivere una ricostruzione degli eventi. Questa relazione è agli atti dell'inchiesta della Procura di Palermo. Per imbattersi nel primo vero sospetto che qualcosa sta andando storto, bisogna arrivare al 27 gennaio 1993, dodici giorni dopo la cattura di Riina. Quel giorno il colonnello Cagnazzo apprende dalla compagnia dei carabinieri di Corleone che la moglie di Riina, Ninetta Bagarella, insieme ai figli è tornata a casa sua, dopo un ventennio di latitanza condivisa col marito, e ha iniziato una sua seconda vita. Cagnazzo chiede alla Procura: se quelli del Ros controllano via Bernini, come mai non ci hanno segnalato il trasferimento dei familiari di Riina in direzione Corleone? Fra l'altro qualche giorno prima, proprio Cagnazzo, convinto che i colleghi del Ros stessero comportandosi secondo programma, aveva simulato per i giornalisti un sopralluogo a Fondo Gelsomino, a Palermo, in campagna, per continuare ad accreditare urbi et orbi che loro, di via Bernini, non sapevano nulla. Quindi il suo disappunto è doppio. E qui scoppia il bubbone. Caselli chiede spiegazioni a Mori. Mori prende tempo. Sarà solo il 2 febbraio che la "territoriale" otterrà dalla Procura l'autorizzazione a perquisire. Ma in quel covo ormai non c'è più niente. I mafiosi, che hanno avuto quasi tre settimane a disposizione, hanno portato via mobili e quadri, gioielli e documenti (ma secondo il Ros quei documenti non sarebbero mai esistiti), scardinata dal muro persino una cassaforte, eliminato ogni traccia, usato l'aspirapolvere e infine ridipinto le pareti. Tutto questo lo avrebbe poi raccontato Giovanni Brusca riferendo che Ninetta Bagarella fu accompagnata in taxi alla Stazione centrale - sotto scorta di un commando di "uomini d'onore" - dove salì sul treno per tornarsene placidamente nella "sua" Corleone. Dagli atti dell'inchiesta inoltre risulta che: "i carabinieri del Ros erano perfettamente a conoscenza (fin dalle prime ore del mattino del 15 gennaio) della esatta ubicazione del covo di Riina, mentre gli organi di stampa diffondevano comunicati relativi alla febbrile ricerca del "covo" del latitante. In verità però esisteva anche un terzo livello di conoscenza, particolarmente riservato, in quanto noto soltanto a pochissimi ufficiali del Ros e ignoto persino ai magistrati della Procura: che malgrado tutte le assicurazioni... quei presidi investigativi erano stati invece dimessi poco dopo l'arresto di Riina e non erano mai stati riattivati". E ancora: "a sapere che dopo la cattura del latitante nessuno aveva più controllato la casa dalla quale era uscito, erano soltanto pochi ufficiali, gli stessi che avevano suggerito di non perquisire la casa immediatamente dopo l'arresto...". Tutto restò dunque segreto. Si legge: "solo il 30 gennaio, e quindi ben quindici giorni dopo la cattura di Riina, i vertici del Ros resero noto a questo ufficio che le attività di osservazione... erano state dismesse poco ore dopo l'arresto del latitante". Inoltre nella relazione inerente la ricostruzione dei fatti commissionata da Caselli ad Aliquò definita dalla Procura di Palermo: "un fedele e dettagliato resoconto in progress", Aliquò scrive: "durante un incontro del 15 gennaio, i vertici dell'Arma dei carabinieri (presente l'allora vicecomandante del Ros Mario Mori), assicuravano: `garanzia di controllo assoluto costante"'. Inoltre, in merito alle varie riunioni operative susseguitesi in quei giorni, Aliquò riferisce altri particolari. Dalla riunione del 20 gennaio ricorda: "i vertici dell'Arma confermavano che il `complesso' di via Bernini era `accuratamente sotto controllo"'. Sulla riunione dei carabinieri del 26 gennaio riferisce che: "il colonnello Domenico Cagnazzo affermava che in via Bernini non c'era più controllo da diversi giorni e che di ciò non era stato informato dal Ros, ma lo aveva dedotto dall'arresto di Antonietta Bagarella a Corleone. Inoltre sottolinea che: "alla riunione non erano presenti i vertici del ROS". Infine Aliquò ricorda che: "nel corso di una riunione con i vertici del Ros del 27 gennaio, seppure la Procura sollecitasse una perquisizione in via Bernini, l'allora colonnello Mori sembra non avere urgenza e dice che l'osservazione del complesso... stava creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione". Ma passano ancora 6 giorni prima di arrivare all'irruzione (ormai inutile) del 2 febbraio nel covo di Riina ormai completamente "freddo". Dunque una cosa è certa: "errore" c'è stato ed è altrettanto certo che di questo "errore" la mafia si è giovata. Rimangono invece i molti dubbi e gli inquietanti interrogativi a cui sono chiamati a rispondere non solo Mori e De Caprio, in quanto imputati di reato, ma anche i loro diretti superiori, sia a livello politico che a livello investigativo, fra cui l'ex procuratore capo di Palermo e attuale procuratore capo di Torino Caselli che seguì da vicino l'intera vicenda e oggi tenta di tirarsi fuori affermando che: "allo stato degli atti non ho elementi per esprimere un giudizio". Com'è possibile che a due alti ufficiali dei nuclei "d'eccellenza investigativa dell'Arma dei carabinieri" a cui viene riconosciuta unanime "esperienza e professionalità" non venga in mente di perquisire e sorvegliare il covo dell'ex boss dei boss della mafia a cui hanno dato la caccia per quasi mezzo secolo? Chi e che cosa volevano coprire Mori e De Caprio? E perché mai il personale doveva essere "stressato" visto che tutto era stato sbaraccato poche ore dopo l'arresto di Riina? è vero che lo Stato ha trattato direttamente con la mafia l'arresto di Riina? Che fine ha fatto l'archivio di Riina? Perché Bernardo Provenzano, succeduto a Riina, è ancora latitante ed è riuscito a sfuggire al blitz del 31 ottobre 1995? Perché "Cosa nostra" è "entrata in sonno" e non fa più stragi e omicidi (salvo poche eccezioni)? è lecito supporre che sia intervenuto un baratto sotto banco tra lo Stato e "Cosa nostra" in cui Provenzano avrebbe detto: io vi consegno Riina e voi mi date il suo archivio. In cambio io pongo fine alle stragi e voi non mi cercate (o fate finta). Misteri inquietanti a cui perfino Riina non sa rispondere dal momento che, appresa la notizia del rinvio a giudizio degli uomini che lo hanno ammanettato, sibillinamente ha affermato: "Mi hanno venduto, qualcuno dall'alto ha guidato la mia cattura e non è stato certamente Balduccio Di Maggio". Intanto, il 19 febbraio si è saputo che il prefetto Mori è al centro di un'altra indagine, sempre della procura di Palermo nell'ambito di un'inchiesta riguardante il mancato arresto di Provenzano. Oltre al direttore del Sisde sono indagati il generale dei carabinieri Antonio Subranni, ex comandante del Ros e della divisione "Palidoro", e il colonnello Mauro Obinu. Al centro della nuova inchiesta il mancato blitz del 31 ottobre 1995 a Mezzojuso che avrebbe potuto portare all'arresto di Provenzano. L'indagine è stata avviata in seguito alle dichiarazioni del colonnello Michele Riccio. 2 marzo 2005 |