Mori indagato per concorso in associazione mafiosa Al centro dell'indagine la mancata perquisizione del covo di Riina e la "fuga" di Provenzano. L'ex capo del Sisde deve anche spiegare il suo ruolo nella trattativa con Ciancimino Concorso esterno in associazione mafiosa. È questa l'infamante accusa con cui la Procura di Palermo il 3 giugno ha iscritto nel registro degli indagati il generale Mario Mori, già capo del Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri (Ros) e del Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica (Sisde). L'inchiesta dei pubblici ministeri (Pm) Paolo Guido e Nino Di Matteo, coordinati dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, punta a far luce su almeno tre episodi a dir poco inquietanti che hanno segnato la carriera di Mori, ossia: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina nel '92, la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel '95, e il ruolo a dir poco oscuro e ambiguo avuto dal generale nella trattativa con l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Tre episodi che secondo gli inquirenti vanno riletti, rivalutati e chiariti soprattutto alla luce di quanto rivelato nei mesi scorsi dal figlio di Ciancimino, Massimo, circa la "trattativa" avvenuta a cavallo della strage di via D'Amelio fra Stato e Cosa nostra e il "patto" stretto dai massimi vertici istituzionali con Bernardo Provenzano, il capo dell'ala "moderata" di Cosa nostra. Secondo l'accusa sarebbero stati parte di questa trattativa i colloqui che nel 1992, dopo la strage di Capaci, Mori e Giuseppe De Donno, il suo più fidato ufficiale, ebbero con l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Per questo motivo a marzo scorso il nome di De Donno è stato iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di "violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario". Con lui, per favoreggiamento, sono finiti sotto inchiesta anche il colonnello dei carabinieri Antonello Angeli, in servizio presso il nucleo del Quirinale, indagato per favoreggiamento, perché secondo i Pm omise di sequestrare importanti documenti, tra cui il famigerato "papello", rinvenuti nella villa all'Addaura di Massimo Ciancimino, durante la perquisizione del 17 febbraio 2005. E poi i boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, e il "mediatore" Antonino Cinà, il medico di Riina che fece da postino tra i boss e don Vito Ciancimino. Tra i personaggi coinvolti nell'indagine, infine, ci sarebbero anche il misterioso "signor Carlo-Franco", l'agente di collegamento tra Vito Ciancimino e gli apparati dello Stato ma non ancora identificato dagli inquirenti, alcuni 007 individuati da Massimo Ciancimino e, con tutta probabilità, lo stesso figlio di don Vito che nella vicenda, per sua stessa ammissione, ha svolto un suo ruolo significativo. Secondo i Pm, la trattativa ebbe precisi passaggi. Dopo i colloqui con Ciancimino ci fu la cattura di Riina, agevolata da Provenzano. Alla quale, però, non seguì la perquisizione del covo. Altro passaggio, nell'ottobre del 1995, la mancata cattura di Provenzano. Per questo reato il generale Mori, con un altro ufficiale del Ros, Mauro Obinu, è oggi sotto processo a Palermo. Mentre per la mancata perquisizione è stato già processato e assolto. Ma quell'omissione, oggi, viene letta nel nuovo contesto accusatorio: il covo di Riina non sarebbe stato perquisito per evitare il ritrovamento di documenti che avrebbero svelato la trattativa e compromesso il progetto di favorire la latitanza di Provenzano che effettivamente il 31 ottobre del 1995 non fu arrestato benché al Ros fosse giunta un'informazione estremamente precisa sul luogo in cui era nascosto, una casa tra Palermo e Corleone. Ma chi furono i "garanti" politici e istituzionali del "patto"? Ciancimino e Giovanni Brusca hanno fatto i nomi di Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm e ministro dell'Interno nel 1992 e di Virginio Rognoni, ministro della Difesa fino al giugno dello stesso anno. Della trattiva sarebbe venuto a conoscenza il giudice Paolo Borsellino che di lì a poco saltò in aria insieme alla sua scorta in via D'Amelio. Secondo Ciancimino lo Stato avrebbe addirittura concesso a Provenzano un "lasciapassare" per permettergli di muoversi liberamente sul territorio nazionale. Mentre sul ruolo di Mori la Procura di Firenze nel 2003 aveva aperto un corposo fascicolo sulla base di un'ipotesi che la trattative fra Stato e mafia sia proseguita a suon di bombe in relazione all'iter legislativo dell'articolo 41 bis. Titolare di quella indagine era il Pm Gabriele Chelazzi che, come ha rivelato recentemente il suo collega Alfonso Sabella, interrogò il generale pochi giorni prima di morire d'infarto, e lo iscrisse nel registro degli indagati con l'ipotesi di favoreggiamento. Secondo Chelazzi, esisteva un rapporto diretto tra la revoca di alcuni 41 bis e il fallito attentato dello stadio Olimpico che il Pm fiorentino aveva datato al 31 ottobre del 1993. 30 giugno 2010 |